Ciò che canta in me è il canto dell'eternità. Ciò che è entrato in me non può piú morire
Adriana Zarri
Santa Elisabetta della Trinità: “Se senti che il gelo invade il tuo cuore, va a riscaldarti presso Colui che è un focolaio d’amore e che non crea un vuoto se non per riempirlo completamente.”
Santa Elisabetta della Trinità
Mi porgi
un fiore – un altro fiore
nato fuori di me
in un vero giardino
che io possa donarlo a chi mi attende?
Antonia Pozzi
Allo stesso modo in cui il sole illumina i grandi cedri ed i fiorucci da niente come se ciascuno fosse unico al mondo, così nostro Signore si occupa di ciascun'anima con tanto amore, quasi fosse la sola ad esistere; e come nella natura le stagioni tutte sono regolate in modo da far sbocciare nel giorno stabilito la pratolina più umile, cosi tutto risponde al bene di ciascun'anima.
Santa Teresina del Bambin Gesù
Non si può incontrare Gesù per conoscerlo, amarlo, imitarlo, senza un ricorso concreto, costante e ostinato al Vangelo; senza che questo ricorso faccia intimamente parte della nostra vita.
Madeleine Delbrel
“La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna”
Papa Francesco
“La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna”. Dalla Vergine è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lei, con la sua carne e il suo grembo, è fonte di vita. Una vita che oggi il mondo maltratta, violenta, umilia ancora una volta in definizioni che non tengono conto dei dolori inferti alle donne, come quello di sopprimere la vita che portano in grembo”, o dei graffi della loro anima, costretta a vendersi sui cigli delle nostre strade.
Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore."
Questi volti di donne simbolicamente rappresentano tantissimi altri che nel passato e presente hanno aiutato e aiutano Dio a portare il cielo sulla terra.. dimostrando che ognuno di noi può farlo con cuore fedele al Suo Amore. Santità!
Santa Teresa del Bambin Gesù, Santa Teresa di Calcutta, Chiara Corbello Petrillo verso la beatificazione, Beata Chiara Badano, Beata Sandra Sabatini, Carlotta Nobile testimone di fede, Santa Bakhita
Ho svuotato la mia anfora
dall’ acqua putrida
del rimpianto,
l’ho purificata con balsamo
di perdono.
Finalmente essa è vuota!
Ora trabocca
di acqua di luce.
Privo di sterpaglia è
il giardino del mio cuore!
Improvvisi,
ma attesi
ruscelli di grazia
m’ inondano
e si materializzano
in fiume di preghiera.
Rosarita de Martino
Poteva accadere.
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
È accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.
Wisława Szymborska
Attraverso il valico angusto della sofferenza –
I Martiri – con passo costante – camminarono.
I loro piedi – sulla Tentazione – I loro volti – su Dio –
Una maestosa – assolta – Compagnia –
Convulsioni celesti – tutto intorno –
Innocue – come strie di Meteore –
Sui Legami d’un Pianeta –
La loro fede – la loro eterna promessa –
La loro Attesa – leale –
L’Ago – rivolto al Nord – a guado, vanno –
Così – nell’Aria polare!
Emily Dickinson
Che cosa cerco, se non la Tua luce per scontare la tenebra
di questo tempo,
per imparare dal mare e dai fiori,
per restare in una stanza trapassata
da memorie,
vedermi dall’alto nei campi elisi
coperta di gigli in fiore, quando
i miei coaguli si faranno luce.
*
Le particelle del possibile
vivono nel pensiero.
Indovino, che rovesci il tempo
e vedi prima del prima,
ti agghiaccerai se vivo nei rovi
o sotto la sabbia, se resterò cieca
per non aver visto il roseto
nella mano della sposa
e per essermi nascosta
nella punta di una spina.
*
Le particelle del possibile
vivono nel pensiero.
Indovino, che rovesci il tempo
e vedi prima del prima,
ti agghiaccerai se vivo nei rovi
o sotto la sabbia, se resterò cieca
per non aver visto il roseto
nella mano della sposa
e per essermi nascosta
nella punta di una spina.
Anita Piscazzi
Stella su di Te
La neve era sospesa tra la notte e le strade
come il destino tra la mano e il fiore.
In un suono soave
di campane diletto sei venuto…
Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.
O tenera tempesta
notturna, volto umano!
(Ora tutta la vita è nel mio sguardo,
stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude).
Cristina Campo
«Il desiderio di servire i poveri non scattava da una semplice spinta emotiva a fare beneficenza, ma scaturiva da una sorgente spirituale: l’amore di Dio. Man mano che il suo cuore si immergeva nel mare – senza fondo e senza sponde – dello sconfinato amore di Dio per i poveri, sperimentava che la vera soluzione di ogni problema è la risurrezione di Gesù, unica autentica proposta di liberazione»
(Scelgo Te e basta. Sandra Sabattini, il Ponte, Rimini 2019, 29).
E dacci anche di amare questa santità anonima e senza riconoscimenti ufficiali che è però il sale della vita. Ed ecco allora che le celebrazioni dei santi e dei defunti si apparentano e celebrano sovente le stesse persone: quei defunti che hanno vissuto onestamente e il cui ricordo è un'eredità di bene. Ma anche coloro che son vissuti meno rettamente, coloro per il cui epitaffio abbiamo escogitato delle pietose bugie, oggi hanno visto te, sono stati lavati nella tua misericordia e sono anch'essi santi da celebrare.
Davanti alle pietose bugie dei cimiteri uno scrittore un giorno ha sorriso con indulgenza e ha scritto: "i morti sono tutti buoni perché hanno incontrato la misericordia del Signore".
(Come il grembo di una donna incinta)
A. Zarri, Quasi una preghiera, Einaudi 2012 (pag. 172)
Ho teso alla santità tutta la vita, quindi non dovrebbe essere troppo difficile, ed è un peccato se non concludo.
Stamane ho ricompreso che la mia santità è Lui, Gesù abbandonato. M'attira come una calamita in quest'ultimo tempo, come la Desolata ha un fascino speciale.
M'attira il loro "nulla". È lì la santità: il nulla di noi perché trionfi Dio in noi. Nulla che trovo amando la sua volontà e i fratelli, ma anche "perdendo" tutto quanto va perso, con generosità e immediatezza.
Chiara Lubich
Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
Margherita Guidacci
Costruttrici di futuro
Papa Francesco
L’eminente dottrina di queste sante, per la quale sono state dichiarate Dottori della Chiesa o Patrone, assume un nuovo protagonismo in questi tempi per la sua permanenza, profondità e opportunità e, nelle attuali circostanze, offre luce e speranza al nostro mondo frammentato e disarmonico. Anche se appartengono a tempi e luoghi diversi e hanno svolto missioni diverse, tutte hanno in comune la testimonianza di una vita santa. Docili allo Spirito, per la grazia del Battesimo, hanno seguito il loro cammino di fede, mosse non da ideologie mutevoli, ma da un’incrollabile adesione all’“umanità di Cristo” che permeava le loro azioni. Anche loro si sono sentite a volte incapaci e limitate, “piccole donne deboli” come direbbe Teresa di Gesù, di fronte a un’impresa che le superava. Da dove attingevano la forza per portarla a termine, se non dall’amore di Dio che riempiva il loro cuore? Come Teresa di Lisieux, hanno potuto realizzare pienamente la loro vocazione, la loro “piccola via”, il loro progetto di vita. Una via accessibile a tutti, quella della santità ordinaria.
La sensibilità attuale del mondo esige che siano restituite alla donna la dignità e il valore intrinseco di cui l’ha dotata il Creatore. L’esempio di vita di queste sante mette in evidenza alcuni elementi che delineano quella femminilità così necessaria nella Chiesa e nel mondo: la forza per affrontare le difficoltà, la capacità di concretezza, una naturale disposizione a essere propositive per ciò che è più bello e umano, secondo il piano di Dio, e una visione lungimirante del mondo e della storia — profetica — che le ha rese seminatrici di speranza e costruttrici di futuro.
La loro dedizione al servizio dell’umanità era accompagnata da un grande amore per la Chiesa e per il “dolce Cristo in terra”, come Caterina da Siena amava chiamare il Papa. Si sentirono corresponsabili nel porre rimedio ai peccati e alle miserie del loro tempo, e contribuirono alla missione di evangelizzazione in piena armonia e comunione ecclesiale.
(ESTRATTO DAL MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO INTERNAZIONALE INTERUNIVERSITARIO
SULLE DONNE DOTTORI DELLA CHIESA E LE COMPATRONE D’EUROPA)
1 marzo 2022
Essere felici..
Madeleine Delbrel
Le due vie sono sempre esistite.
Sempre il Signore dirà agli uni: "A causa di me e del mio amore tu avrai una moglie, dei figli, una casa, dei beni da amministrare da parte mia nel mondo".
Sempre il Signore dirà agli altri:
"Tu non avrai che me e io sarò il tuo tutto".
Sempre il Signore dirà agli uni:
"Io so ciò che ti conviene, ti darò ogni giorno la tua pena il tuo pane quotidiano, perché dovunque tu sarai ci sia anche la mia croce".
Sempre il Signore dirà agli altri:
"Prendi la tua croce e seguimi".
Prendila con le tre braccia della povertà, dell'obbedienza e della castità.
Perché? Perché questo io voglio: che tu mi ami e che noi, insieme, amiamo il mondo.
La maggior parte di coloro ai quali Cristo tiene un tal discorso stanno sotto vesti scure, bianche o nere, discepoli d'un santo che fu attraverso il tempo compagno di strada del Signore.
Altri sono persone come voi e come me, persone affondate il più a fondo possibile nello spessore del mondo, separate da questo mondo da nessuna regola nessun voto, nessun abito nessun convento.
Povere, ma simili alle persone d'ogni luogo. Pure, ma simili a persone di qualsiasi ambiente.
Obbedienti, ma simili a persone di qualsiasi paese.
Sono per tutto e per tutti: ne troverete che insegnano, che emanano leggi, che curano e consolano, che lavorano in officina.
Per essi un mondo vale l'altro e un'anima un'altra anima. Ma non annoiateli con metodi e tecniche…
Se noi non abbiamo programma è perché il nostro Padre del Cielo l'ha scritto prima per noi e ci basta ricevere i suoi ordini giorno per giorno.
Non dite loro che la croce è dannosa, un po' morbosa e un po' malsana, che il mondo ha bisogno di ritrovare il volto della gioia e non dei penitenti.
Vi risponderanno:
"Noi vi parleremo della gioia quando l'avremo imparata sulla croce dove ritroviamo il nostro amore.
La nostra gioia è d'un prezzo così esorbitante che è stato necessario per acquistarla vendere ciò che possedevamo e tutto noi stessi".
Noi crediamo alla gioia, il che non si riduce a dare prova di ottimismo.
Ci sembra che la gioia cristiana, quella che il Signore chiama "la mia gioia", quella che egli vuole che sia "piena", consista nel credere concretamente - per fede - che noi sempre e dovunque abbiamo tutto ciò che è necessario per essere felici.
È dedicato a cinque donne il libro dello scrittore, poeta e traduttore Erri De Luca, intitolato Le sante dello scandalo (edito da Giuntina, € 8,5).
Sono cinque donne speciali, la cui vita è raccontata nel libro sacro più letto al mondo: la Bibbia. Si chiamano Tamàr la Cananea, Rahav di Gerico, Rut la Moabita, Betsabea e infine Maria, madre di Gesù.
Il primo filo rosso che le unisce è che tutte figurano nell’albero genealogico di Cristo. “Pure il Messia è meticcio”, scrive De Luca. “È una lezione grandiosa, poco risaputa e poco ripetuta”. In effetti, alcune di queste donne non erano ebree, ma straniere.
Ma la vera sorpresa che questo piccolo e interessantissimo libro di Erri De Luca ci riserva riguarda la personalità di queste donne. In una società patriarcale, sono state delle rivoluzionarie.
Tamar vuole diventare madre e si traveste da prostituta per tentare l’uomo che si è scelta. Rahav è invece una prostituta e tradisce i suoi connazionali per aiutare gli ebrei. Rut finisce a letto con un ricco vedovo per farsi sposare. E l’adultera Betsabea tradisce il marito con il re Davide, che lo fa uccidere. Quanto a Maria, resta incinta prima delle nozze e il figlio, com’è noto, non era dello sposo.
Cinque donne che trasgrediscono, dunque. Cinque donne che con le loro scelte cambiano il destino del popolo d’Israele.Erri De Luca ci narra la loro vita in modo scientifico ma avvincente. E ci fa capire che, nei secoli, le traduzioni della Bibbia fatte dagli uomini ci hanno trasmesso un’immagine fuorviata della donna.
Il Creatore che condanna Eva a “partorire con dolore” non intendeva dire esattamente questo. Leggete Le sante dello scandalo e scoprirete che il Dio d’Israele non era così maschilista quanto ci hanno fatto credere
La santità a passo di donna
Beata Teresa Fasce
«La Chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del “genio” femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e Nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del Popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità: ringrazia per tutti i frutti di santità femminile». Così si esprimeva san Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Mulieris dignitatem a sottolineare l’attenzione della Chiesa verso tutto lo straordinario contributo che le donne nella storia della Chiesa hanno sempre dato, con il loro slancio tipicamente femminile, con il loro cuore ardente capace di un amore infinito come solo l’amore di una madre può essere. E in ogni stato di vita, sia che si tratti di una madre di famiglia, sia che si tratti di una religiosa o di una consacrata, batte forte in ogni donna il cuore di una madre. Un cuore che esprime tenerezza, attenzione, capacità di ascolto e di accoglienza, prudenza che può arrivare alla scelta del silenzio quando le parole rischiano di rovinare l’ebbrezza del Mistero.
E ancora, accanto ad arditi voli mistici, il senso pratico tipico delle donne che non si scoraggiano ma che sanno intravedere anche solo una flebile luce laddove il resto del mondo vede solo buio. Quante belle figure femminili, giganti di santità, hanno reso sempre più bello e santo il volto della Chiesa.
Ne citiamo solo alcune: Caterina da Siena, sapiente della sapienza di Dio, di cui Dio si servì per dare la pace alla Chiesa e ai popoli del suo tempo; Teresa d’Avila, donna di straordinari talenti di cuore e di mente; Chiara d’Assisi, in cui molti videro un’altra Maria come in Francesco videro un altro Cristo; Monica, modello di perseveranza nella preghiera; Rita da Cascia, invocata nei casi disperati, è una delle sante più popolari in Italia e nel mondo; della sua vita fece un capolavoro, partendo da un’intuizione fondamentale: unire la propria sofferenza a quella di Gesù per ricavarne frutti straordinari; Maria Teresa Fasce, grazie all’opera della quale la devozione a santa Rita ha raggiunto distanze infinite: una donna forte, temperante, innamorata di Cristo. Senza Maria Teresa Fasce Cascia com’è oggi non sarebbe esistita.
Ricordiamo ancora Teresa di Calcutta, definita da Benedetto XVI “dono inestimabile”; Gianna Beretta Molla, donna gioiosa e innamorata della vita che scelse di sacrificare per amore di un’altra vita che doveva nascere. E ancora Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, che con il suo pensiero e le sue opere tutte rivolte alla fraternità e alla pace, ha lasciato un’eredità diffusa in tutto il mondo; Armida Barelli, fondatrice della Gioventù Femminile cattolica milanese e che fu nel gruppo dei fondatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Presto sarà proclamata beata. Ricordiamo anche Chiara Corbello che aveva capito che «l’importante nella vita non è fare qualcosa, ma nascere e lasciarsi amare»; e, ancora, Chiara Luce Badano che, provata dai forti dolori dovuti a un tumore osseo, nelle notti insonni canta; canta perché ha la pace nel cuore, perché sa di essere tra le braccia di Gesù. Dirà dopo forse la più tragica notte: «Soffrivo molto fisicamente, ma la mia anima cantava».
Potremmo citare ed elencare tante altre straordinarie figure femminili. Straordinarie nell’ordinario. Perché è proprio lì che Dio manifesta la sua delicata presenza e vicinanza.
nella foto Santa Beretta Molla
Da Edith Stein a Teresa Benedetta..profumo di Santità
La giovinezza inquieta di una filosofa, martire cristiana
Lodovica Maria Zanet
Bad Bergzabern (Renania-Palatinato), estate 1921. In casa di amici, una trentenne intellettuale tedesca di famiglia ebraica, Edith Stein, si ritrova sola. Potrebbe uscire anche lei, incontrare qualcuno, forse andare a camminare. Decide invece di restare a casa, e fa la cosa a lei più consona: si avvicina ai rifornitissimi scaffali della biblioteca e prende un libro. Non vi presta grande attenzione, non lo sceglie dopo attenta disanima, escludendo altre opzioni: piuttosto, se lo ritrova in mano. È il Libro della Vita di Teresa de Cepeda y Ahumada, scritto dalla stessa. In quelle pagine, la grande santa di Avila, mistica, poi dottore della Chiesa – donna “inquieta e vagabonda” come i suoi nemici la definivano – racconta se stessa e le sue grazie mistiche ai direttori spirituali. Da una parte dunque sta, in quella notte di Bad Bergzabern, il raffinato siglo de oro spagnolo, con i suoi fasti e la sua cultura, la sua temibile Inquisizione e le conquiste oltre oceano; dall’altra la cupa Germania tra le due guerre, prostrata dalla sconfitta nel Primo Conflitto Mondiale e in disperata ricerca di riscatto. Da una parte c’è il cristianesimo, raccontato per via esperienziale da una donna, Teresa, che trattava Gesù come amico e definisce la preghiera come il frequente trattenersi, da soli a Solo, con Colui da cui sappiamo d’essere amati. E dall’altra c’è lei, Edith Stein: nata a Breslavia (oggi Wrocław in Polonia) il 12 ottobre 1891, ebrea di famiglia, atea dichiarata sin dalla prima adolescenza, esploratrice in punta di concetto tra le tesi della fenomenologia tedesca dell’epoca, professata dal celebre e incompreso Edmund Husserl.
Non c’è dunque nulla, in Edith, che paia ricollegarla al mondo di Teresa. Non la fede, non la tradizione culturale. E senz’altro non il carattere: riservato e schivo per Edith, solare ed espansivo per Teresa. Teresa chiedeva a Dio il dono di essere amata da molti. Edith ambiva a capire molto. Teresa si lasciava invadere dalla realtà. Edith muoveva alla sua conquista, con acribia non inferiore a quella che il suo maestro, Husserl appunto, amava descrivere citando l’incisione di Dürer Il cavaliere, la morte, il diavolo: una scena in bianco e nero ove per restar vivi urge superare lo scoglio dell’inganno.
Qualcosa però, in quella notte, accade. Edith divora le pagine del Libro della Vita: il mattino dopo si dice l’avesse già terminato. «Questa è la verità», afferma. Acquista un Messale e un Catechismo e si presenta al parroco del luogo, chiedendo il battesimo. Lo riceverà alcuni mesi più tardi, il 1° gennaio 1922. Morirà, carmelitana scalza e martire, ad Auschwitz nell’agosto 1942. Nel 1933, nell’infuriare della follia nazista, quando ogni strada di docenza le era ormai preclusa, dopo 12 anni di attesa sarebbe entrata lei stessa nel Carmelo, riformato da Teresa nella sua Castiglia nel 1562.
Chi è Edith
Chi è, però, Edith Stein? E perché quel passo, in apparenza così azzardato e illogico – che non cesserà di stupire gli amici e scandalizzare i familiari –, dall’ebraismo al cristianesimo transitando da oltre quindici anni di convinto ateismo? «Secretum meum mihi», lei dice: confermando che le cose più importanti stanno dentro, e nessun le saprà mai. Sappiamo però alcune cose. Edith è la più piccola di una numerosa famiglia slesiana. Sono ebrei e professano la fede dei padri. Piccolissima, spetta a lei porre le domande di rito per il Seder di Pesah. Cresce sveglia e riflessiva, interiormente vivace. Composta all’esterno, Edith custodisce però dentro le cose più vere. Le attende, le chiede, le accoglie. Solo dopo le comunica, se necessario. Grande osservatrice, esamina i comportamenti umani con scientifica analiticità: ma sa comprendere e scusare, e ha una spiccata intelligenza emotiva. Tredicenne, la prima svolta: non avrebbe più creduto in Dio. L’atto del credere aveva smarrito per lei ogni ragionevolezza. Edith non si riconosceva nelle tradizioni di famiglia, non riusciva a farle proprie ed era interessata ad altro. E allora se ne distacca, con una radicalità per certi aspetti sconcertante, ma sua tipica: la (reale o supposta) chiarezza di pensiero determina qui un’assoluta linearità della volontà, un’inflessibilità della scelta che non ammette ripensamenti. Ed Edith comincia allora a cercare nell’umano la risposta al divino ormai assente, senza ancora sapere che in Cristo essi erano già ricongiunti.
Sceglie così di studiare letteratura tedesca, storia, psicologia. Ma è brava e si stanca presto di maestri che esauriscono davanti a lei gli argomenti e il fascino. Le parlano allora della fenomenologia, un nuovo modo di fare filosofia praticato a Gottinga da Edmund Husserl, Adolf Reinach e un gruppo di temerari giovani, che criticavano Kant, le altre grandi autorità del pensiero e volevano ritornare alle cose stesse. «Ritornare alle cose stesse» significava: privilegiare la realtà per come appare e si manifesta, rispetto alle teorie (pur necessarie) che ambiscono a comprenderla. Era come se avessero detto ad Edith di tornare a camminare in montagna anziché studiare il tracciato dei sentieri sulla cartina. Lascia tutto e parte. Trova un mondo molto diverso, di confronto ampio, di amicizie al femminile e al maschile. Di amore, anche, che farà però fatica ad accogliere e a integrare nel proprio vissuto, senza riuscire ad arrendersi a un sentimento che diventasse progetto di vita.
Edith Stein ha quasi 23 anni quando scoppia la guerra. Lei diventa crocerossina volontaria al fronte. Husserl perde un figlio. Muore il suo migliore amico, Adolf Reinach: era sposato con Anna, una della poche donne laureate in Fisica del tempo. Ed Edith, un giorno, la va a trovare. È convinta di incontrare una donna annientata dal dolore. Forse prova a prepararsi parole consolatorie, senza però sapere bene – e si tratta per lei di un’esperienza inedita! – cosa dire. Quando però incontra Anna capisce che le sue sarebbero state parole vuote, parole vane. La luce della Croce di Cristo si staglia davanti a lei, per la prima volta, come un mistero affascinante di dolore e di amore.
Edith intanto è una studentessa che si avvia a diventare una studiosa. Si laurea infatti, con una tesi sull’empatia: quel fondamentale atto umano per cui siamo capaci di gioire con chi è nella gioia, di piangere con chi è nel pianto, di farci tutto a tutti, di avere gli stessi sentimenti: sono parole di San Paolo – che la Stein allora non conosce –: in un mondo che precipitava in quegli anni nell’odio, lei si era scelta questo problema, il «problema dell’empatia», per indagare il fondamento delle relazioni sociali cooperative. Scommetteva così sul fatto che esistesse qualcosa oltre l’odio, la rabbia cieca, l’irragionevole furia, o anche solo l’indifferenza che uccide; indaga ciò che accomuna invece di ciò che divide. Inserita in un gruppo di ricerca dove ci si occupa del tema dei valori, degli atti sociali, del bello estetico, della filosofia della natura, Edith aveva cominciato ad allenare nella vita quotidiana quella fondamentale attitudine che la fenomenologia le aveva trasmesso: guardare la realtà a occhi sgranati, se possibile senza pregiudizi, dandole la possibilità di rivelarsi non per quello che si vorrebbe fosse, ma per quello che è. Quando a Bergzabern legge Teresa, in fondo Edith ha solo concesso al diverso la possibilità di bussare alla sua porta.
La conversione
La conversione è folgorante, totale: Edith passa dal nulla al tutto, anche se il tutto era stato lungamente preparato dalla pazienza del cercare laico e dal rigore altamente sfidante della filosofia. Per lei conversione al cattolicesimo e chiamata al Carmelo sono un tutt’uno: il Carmelo di Teresa, ma soprattutto il Carmelo che si rifà ad Elia, alla Terra del Santo, a quell’Israele parte della sua vita: Edith cristiana recupera così l’ebraismo, che diviene per lei angolo prospettico privilegiato per capire Gesù; e ritorna in sinagoga con la madre, lacerata dalla scelta della figlia ma stupita di ritrovarsela accanto.
Se dai 20 ai 30 Edith aveva bruciato le tappe, in una giovinezza folgorante e dalle molte conversioni – intellettuali, affettive, volitive, religiosa infine –, ora però deve di nuovo affidarsi: quando i suoi coetanei costruiscono e concretizzano una famiglia o una carriera (o entrambe), a lei è chiesto di pazientare. Vorrebbe entrare al Carmelo, ma ne è trattenuta da sacerdoti che la esortano a servire la Germania del tempo come studiosa e docente; ambisce all’Università, ma non riuscirà mai a fare una vera carriera e le leggi razziali ve la estrometteranno definitivamente; legge i santi carmelitani, ma trascorre ogni anno la Settimana Santa nell’abbazia benedettina di Beuron, grande centro di studio. Edith pensa alla consacrazione, eppure il suo cuore di donna le fa intuire la bellezza di un rapporto affettivo, anche se sarà sempre ferma nell’attenersi al proposito di dedizione esclusiva a Cristo e alla Chiesa e sperimenta intanto le tappe esigenti di una maturazione verso il cuore indiviso. Sono passaggi che potrebbero riportarla a un momento di grave crisi simile a quello attraversato da studentessa e allora intrecciato al suo indagare filosofico, quando era arrivata ad auspicare che la morte sopraggiungesse a por fine alle sue sofferenze («Non riuscivo più a percorrere una strada senza avere il desiderio che una macchina mi investisse»). Ma la santità non ha nemici nemmeno nella fatica, nello svuotamento, nella notte oscura dell’anima e della psiche: e ora Edith ha la fede a sorreggerla e il sogno del Carmelo sempre all’orizzonte. Attraverso le ferite della vita e del cuore di Edith Stein, comincia quindi a passare una grazia che consola e conforta le persone che le stanno accanto: allontanatasi per scelta dal mondo della filosofia in senso stretto, insegna per otto anni dalle Domenicane di Spira, divenendo importante punto di riferimento (lei laica) per le giovani in formazione; quindi all’Istituto di Pedagogia scientifica di Münster.
Solo nel 1933, per il precipitare della situazione e la crescente esasperazione della persecuzione antiebraica, l’insegnamento verrà definitivamente precluso ad Edith. Potrebbe forse continuare a insegnare in Sud America: ma lei, abituata a cercare la verità nelle evidenze positive, adesso inizia a comprendere che rappresentano altrettanti segni anche quelle negative, cioè i vincoli, i limiti e le mancanze. Che le indicano ora un tipo di fecondità diversa. Anche chi la dirige spiritualmente (celebre il rapporto con il grande Gesuita padre Erich Przywara) l’aiuta a capire che è venuto il momento di entrare in quel Carmelo dal quale era sempre stata trattenuta per potere servire di più – e meglio – attraverso i doni di parola e di scrittura che aveva ricevuto.
Il Carmelo
Edith entra al Carmelo di Colonia il 14 ottobre 1933, a 42 anni appena compiuti. La anima il chiarissimo convincimento che non l’attività umana, ma solo la passione di Cristo possa salvare: ad essa intende ora prendere parte. Professa perpetua nel 1938 con il nome di Suor Teresa Benedetta dalla Croce, al Carmelo continua l’attività di scrittrice approntando anche la sua ultima e più celebre opera, Essere finito ed Essere eterno: un testo originalissimo, lontano dai parametri della critica scientifica, in cui Edith cita Aristotele con Tommaso, Heidegger con Teresa, insegnando che se la sintesi viene fatta nella vita, essa ha diritto di esistere anche sulla pagina scritta.
Per aver salva la vita passa quindi al Carmelo di Echt, in Olanda. Ma anche qui viene raggiunta, all’inizio dell’agosto 1942. Le SS le intimano di uscire dalla clausura: Edith, con la sorella Rosa (anch’ella convertita al cattolicesimo), superato il campo di smistamento di Westerbork, morirà nel campo di sterminio di Auschwitz pochi giorni dopo: aveva superato i 50 anni e, non rientrando nei criteri di efficienza da lavoro dei prigionieri al campo, era semplicemente stata gettata via come un oggetto inutile. Chi la ricorda, afferma che Edith in quegli ultimi frangenti si prese cura dei bambini, abbandonati dalle loro mamme rese folli dall’ebbrezza del dolore.
Beatificata il 1° maggio 1987, Edith Stein viene canonizzata l’11 ottobre 1998, come martire: infatti ad Auschwitz era arrivata sì come ebrea, ma come ebrea convertita al cattolicesimo, catturata in ritorsione a un proclama ufficiale con cui i Vescovi olandesi prendevano posizione contro le efferatezze del Terzo Reich. L’umano e il divino, dunque, arrivano ora anche in Edith a perfetta sintesi: nel patire della propria carne, è testimone di un mondo che nega Dio e in cui ad Auschwitz anche il silenzio di Dio diventa assordante.
Spiegando cosa fosse il Carmelo, Edith Stein un giorno aveva scritto: «Chiunque entri al Carmelo deve consegnarsi tutto al Signore, solo chi valuta il suo posticino in coro, davanti al Tabernacolo, più di tutte le magnificenze del mondo può vivervi e trovarvi di certo allora una felicità quale nessuna magnificenza può offrirle […]. Quanto Dio opera nelle ore di preghiera silenziosa nell’anima si sottrae ad ogni sguardo umano, è grazia per grazia e tutte le altre ore della vita ne sono il ringraziamento». Era il ritornare di Edith – con consapevolezza nuova e la piena maturità dell’età adulta – su quella custodia di sé che non nasceva da un rifiuto della visibilità o dell’amicizia, ma era animato dalla più profonda consapevolezza che non si può dare agli altri quello che non si è; che occorre custodire per donare; che le cose più importanti e vere non vanno mai esibite.
Verrà un giorno in cui ciò che ora fai, pensi e dici lo dovrai presentare a Dio ... Il tempo fugge, la vita passa come un'ombra.
Santa Elena Guerra
"Non cambiano le cose che facciamo, cambia come le facciamo: restano le stesse, ma profumano di cielo e il quotidiano è trasfigurato dall’eterno. Se mettiamo l’eterno nelle piccole cose, esse si trasfigurano, così da poter fare l’esperienza di Nicodemo, ossia nascere a vita nuova, e questo lo può compiere solo lo Spirito Santo".
Vieni spirito divino
La nostra vita in Dio
è l’attuarsi, per opera
dello Spirito Santo,
di una piccola incarnazione.
Vieni spirito di Cristo
L’ Eucarestia è come la fornace
che mantiene sulla terra
il Fuoco che Gesù
venne a portarvi.
Vieni dolce Ospite
Il tuo cuore è
un nuovo e vero Cenacolo
nel quale lo Spirito Santo dimora
in qualità di Ospite dolcissimo
e di fedelissimo Amico.
Vieni ottimo Consolatore
La venuta dello Spirito Santo
nel Cenacolo fu come
un bacio di riconciliazione
dato da Dio all’ umanità,
redenta con il Sangue
di Gesù Cristo.
Vieni Padre dei poveri
Perché tu non fallisca la via,
né sii preda dei tuoi nemici,
Dio ti dona, t’infonde
il suo Spirito.
Vieni fuoco del cenacolo
Che il fuoco del Cenacolo
sia acceso nel mio cuore
e rimanga in esso sempre ardente
fino alla Pasqua eterna!
Il fascino del Vangelo e il desiderio ardente di raccontarlo sono stati i cardini della vita di suor Elena Guerra. Nata nel 1835 a Lucca da una famiglia appartenente alla nobiltà locale, la sua giovinezza fu divisa tra l’impulso a seguire la propria forte devozione, che più volte la spinse verso la vita religiosa, e alcuni eventi avversi, da un’iniziale contrarietà della famiglia alla grave malattia che la costrinse a mesi di immobilità. Dopo un pellegrinaggio a Roma e varie esperienze da laica, come l’assistenza ai malati di colera, la donna trovò il proprio posto nella vocazione educativa. Nel 1872 aprì una scuola per le figlie della borghesia e della nobiltà lucchese: quando l’opera si consolidò, la beata fondò con un gruppo di compagne l’Istituto di Santa Zita, una realtà laica dedita all’educazione delle fanciulle. Nel 1882 il sodalizio prese la forma di vita comunitaria, in un nuovo palazzo e con un nuovo nome: erano nate le Oblate dello Spirito Santo.
Gli anni della maturità furono per suor Elena l’occasione di affiancare all’educazione alla vita cristiana la pubblicazione di numerosi testi, che spaziavano da problemi riguardanti le donne e la scuola fino a temi ascetici e spirituali. Lo Spirito Santo fu l’argomento più trattato in questi scritti: la sua esortazione a un maggiore riconoscimento del Paraclito arrivò fino a papa Leone XIII, che con un “Breve” del 5 maggio 1895 sollecitò tutti i vescovi a predicare una novena per la festa di Pentecoste. Negli anni successivi, il confronto con la religiosa ispirò al Papa l’argomento dell’enciclica Divinum illud munus del 1897, ancora una volta tesa a raccomandare la devozione allo Spirito Santo.
Tra il 1905 e il 1906, alcuni contrasti sorti in seno alla congregazione indussero la beata a dimettersi da superiora e le proibirono di dare alle stampe altri scritti. Gli ultimi anni di vita furono segnati da una salute malferma, che la condusse alla morte l’11 aprile 1914. Dopo il decesso, la sua fama si diffuse e papa Giovanni XXIII la scelse nel 1959 come prima beatificazione del suo pontificato.
La sua causa fu riaperta dopo che nel 2010 una guarigione inspiegabile fu attribuita alla sua intercessione. A beneficiarne fu un signore brasiliano, che si era procurato un gravissimo trauma cranico mentre era intento a potare un albero. Dopo essere rimasto sospeso tra la vita e la morte per oltre due settimane, durante le quali ne era stata dichiarata anche la morte cerebrale, l’uomo ebbe un miglioramento negli stessi giorni in cui i membri del Rinnovamento carismatico del luogo completavano una novena di invocazioni alla beata Elena Guerra. Dimesso il mese successivo, controlli mensili e annuali hanno evidenziato il buono stato di salute del paziente.
«La scena finisce, ma le parole rimangono nell’aria come azioni. Nasce "una vocina nell’anima" che parla anche a noi. E anche il modo in cui abbiamo forse bandito dalla nostra mente certe idee sulla vita, o sulla morte, cede di colpo e inaspettatamente il passo a una fede, magari di natura fragile ma insistente»
Raymond Carver (autore della "Cattedrale" che ha consacrato a Teresa l’ultimo suo scritto, letto il 15 maggio 1988 all’Università di Harford, meditazione su una pensiero di santa Teresa).
S. Teresa d'Avila: maestra di orazione
S. Teresa definisce così la preghiera: “L'orazione, a mio parere, non è altro che un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci si trattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui ci si sa amati” ( Vita 8,5 ). Il nome di Teresa di Gesù viene associato all'Orazione, come quello di S. Francesco d' Assisi alla Povertà e di S. Domenico Guzman alla Predicazione. Ognuno di essi ha messo a fuoco un aspetto importante della vita cristiana alquanto trascurato nel periodo storico in cui vissero. Teresa dice alla Chiesa di tutti i tempi: Bisogna pregare e farlo bene, perchè la vocazione della creatura umana è l'unione con Dio. Il Concilio Vaticano II nel capitolo V della Lumen Gentium parla di vocazione universale alla santità. Sappiamo che Teresa è stata aiutata molto dai Domenicani e che proprio fr. Luigi di Granada O.P. ha scritto un libro nel quale espone un metodo per fare orazione, che è stato fatto proprio dalla nostra Santa e dall'Ordine Carmelitano.
Ella prescriveva nelle prime costituzioni che ogni monastero avesse tale libro di Luigi di Granada e avrebbe desiderato vedere il volto di quell'uomo che tanto bene aveva fatto alla sua anima con il suo scritto. L'orazione è sostanzialmente dono dello Spirito, ma è anche impegno nostro e, quindi, anche un'arte. Inizialmente è importante adottare un metodo per imparare a meditare e preparare in anticipo il tema della meditazione. Alla scuola del Vangelo, Teresa raccomanda la solitudine per raccogliersi in se stessi e disporsi all'incontro con il Signore (cfr. Mt 6,6): "Sua Maestà ci insegna a pregare in solitudine" (Cammino di Perfezione 24,4). "Per molto basso che l'anima parli, Egli, che le è vicino, l'ascolta sempre. E per cercarlo non ha bisogno di ali perchè basta che si ritiri in solitudine e lo contempli in se stessa" (CP 28,2).
Quindi per entrare in preghiera si può cominciare facendosi un segno di Croce con calma e consapevolezza per poi socchiudere gli occhi e mettere da parte ogni preoccupazione che non sia lo stare alla presenza di Dio : "Occore farsi un po' di violenza per raccogliersi e contemplare il Signore nel proprio interno" (CP 26,8). "Non si può parlare con Dio nel medesimo tempo che con il mondo...ascoltando ciò che si dice all'intorno, o fermandosi a quanto vien loro in mente, senza alcuna cura di raccogliersi" (CP 24,4). "Infatti i sensi si ritirano dalle cose esteriori (...). Gli occhi si chiudono spontaneamente per non vedere più nulla, mentre lo sguardo dell'anima si acuisce di più" (CP 28,6).
antonio-cocolicchio
fr. Antonio Cocolicchio, O.P.
Teresa consiglia di iniziare con un breve esame di coscienza, non per cadere nello scoraggiamento costatando la nostra povertà, ma per cantare le misericordie i Dio nella nostra vita. Schema per l'orazione mentale può essere:
- Preparazione:
Remota: evitare distrazioni e affezioni disordinate (buona coscienza – vita cristiana ordinata). Esercizio abituale della presenza di Dio.
Prossima: Fissare un soggetto, possibilmente la sera prima (agli appuntamenti importanti ci si prepara per evitare improvvisazione). Stabilire il tempo adatto e scegliere un luogo che favorisca i raccoglimento.
- Introduzione: mettersi alla Presenza di Dio
- Lettura: deve essere attenta, lenta, devota e che ci fornisca l'argomento del nostro colloquio.
- Rappresentazione : è utile “immaginare” l'episodio che si vuole meditare (es. Il Getsemani). Aiuta a fissare la fantasia, “la pazza di casa“ che vaga continuamente.
- Meditazione: è il lavoro dell'intelletto che si sforza di approfondire la verità di fede o il mistero della vita di Cristo che si sta considerando, magari ponendosi delle domande per aiutarsi. S. Teresa suggerisce: chi soffre? Cosa soffre? Perchè soffre? Con quali disposizioni soffre? La conclusione deve sempre portare ad una più viva coscienza dell'amore di Dio e disporre al...
- Colloquio affettivo: è la parte centrale dell'orazione che consiste per S. Teresa “non nel molto pensare, ma nel molto amar". Si esprime l'amore o almeno il desiderio di amare il Signore. Poiché si tratta di colloquio non si deve solamente e continuamente parlare, ma mettersi in atteggiamento di amoroso ascolto di Dio creduto realmente presente e che fa sentire non la sua voce sensibilmente, ma donando grazie di luce e di amore per intendere meglio le vie di Dio ed entrarvi con generosità. Si può concludere con: ringraziamento, offerta, petizione (parti integranti il Coll).
fr. Antonio Cocolicchio
La paura è un sentimento comune che tutti noi affrontiamo ogni giorno. Può essere la paura di una presentazione a lavoro o a scuola o quella di perdere la persona amata per una grave malattia. Qualsiasi paura o ansia possiate provare, Dio è lì per alleviare quel peso.
Gesù stesso ha detto: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Matteo 11, 29-30).
Dio desidera che la nostra vita sia pacifica, e uno dei modi più efficaci per trovare questa pace è invocare il suo aiuto. Dio vuole aiutarci, ma il nostro cuore dev’essere aperto all’assistenza divina.
Santa Teresa d’Avila ha scritto una splendida poesia, da secoli usata come preghiera. Ha un formato semplice, e questo è il motivo per cui molti vi ricorrono nei momenti difficili. Se avete paura di qualcosa o vi sentite ansiosi recitatela, aprendo il vostro cuore a Dio e aggiungendo le vostre parole, invocando l’aiuto divino nel momento in cui ne avete bisogno.
Nulla ti turbi,
nulla ti spaventi.
Tutto passa,
solo Dio non cambia.
La pazienza ottiene tutto.
Chi ha Dio non manca di nulla:
solo Dio basta!
Benché sia Dio, posso trattare con Lui come con un amico
Santa Teresa D'Avila
Ritorno al cuore tramite l'orazione
Pensieri
«Appena vi comunicate chiudete gli occhi del corpo e aprite quelli dell'anima per fissarli in fondo al vostro cuore, dove il Signore è disceso»
«Non spaventatevi, figliole mie, se molte sono le cose a cui bisogna attendere per cominciare questo viaggio divino. E' la strada reale che conduce al cielo, sulla quale si guadagna un'infinità di beni, e non è certo strano che ci debba parere gravosa. Ma verrà giorno che innanzi ad un bene così prezioso ci parrà tutto da nulla quanto si sarà fatto».
«Volere o non volere figliole, tutte, benché in diversa maniera, camminiamo alla volta di questa fonte. Ma credetemi e non lasciatevi ingannare da nessuno: la strada che vi conduce è una sola, ed è l'orazione » (Cam. 21, i e 6).
« La porta del castello è l'orazione . Pretendere di entrare in cielo senza prima entrare in noi stessi per meglio conoscersi e considerare la nostra miseria, per vedere il molto che dobbiamo a Dio e il bisogno che abbiamo della sua misericordia, è una vera follia» (Mans. Il, 11).
Risoluta determinazione
«Importando molto conoscere come incominciare, dico che si deve prendere una risoluzione ferma e decisa di non mai fermarsi fino a che non si sia raggiunta quella fonte. Avvenga quel che vuole avvenire, succeda quel che vuole succedere, mormori chi vuol mormorare, si fatichi quanto bisogna faticare: ma a costo di morire a mezza strada, scoraggiati per i molti ostacoli che si presentano, si tenda sempre alla meta, ne vada il mondo intero! » (Cam. 21, 2; cfr. ivi 21,7-8).
«(L'anima) stia bene in guardia per non lasciarsi vincere dal demonio. Se il maligno la vede fermamente risoluta a perdere la vita, il riposo e tutto ciò che le presenta piuttosto di ritornare alla prima stanza (cioè indietro), lascerà presto di combatterla. Ma occorre che sia di animo virile (...). Si risolva coraggiosamente, immaginandosi di andare a combattere contro tutti i demoni, per vincere i quali non vi sono armi migliori della croce» (Mans. 11, 6).
Il castello interiore
«Possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo , nel quale vi siano molte mansioni, come molte ve ne sono in cielo. (...) al centro, in mezzo a tutte, vi è la stanza principale, quella dove si svolgono le cose di grande segretezza tra Dio e l'anima ».
«Dobbiamo ora vedere il modo di poter entrare. Sembra che dica uno sproposito, perché se il castello è la stessa anima, non si ha certo bisogno di entrare, perché si è già dentro. (...) Però dovete sapere che vi è grande differenza tra un modo di esservi e un altro, perché molte anime stanno soltanto nei dintorni, (...) senza curarsi di andare innanzi, né sapere cosa si racchiuda in quella splendida dimora, né chi l'abiti, né quali appartamenti contenga. Se avete letto in qualche libro di orazione consigliare l'anima ad entrare in se stessa, è proprio quello che intendo io».
«Per quanto io ne capisca, la porta per entrare in questo castello è l'orazione e la meditazione ».
«Le anime senza l'orazione sono come un corpo storpiato e paralitico che ha mani e piedi, ma non li può muovere. Ve ne sono di così ammalate e talmente avvezze a vivere fra le cose esteriori, da esser refrattarie a qualsiasi cura, quasi impotenti a rientrare in se stesse. Abituate a un continuo contatto con i rettili e gli animali che stanno intorno al castello, si son fatte quasi come essi e non sanno più vincersi, nonostante la nobiltà della loro natura e la possibilità che hanno di trattare nientemeno che con Dio» (Mans. I, 1,3,5, 6,7).
L'orazione: incontro di amicizia e mezzo per raggiungerla
«Dico soltanto quello che so per esperienza: cioè che chi ha cominciato a fare orazione non pensi più di tralasciarla , malgrado i peccati in cui gli avvenga di cadere. Con l'orazione potrà presto rialzarsi, ma senza di essa sarà molto difficile.
(...)Quanto a coloro che non hanno ancora incominciato, io li scongiuro per amore di Dio a non privarsi di un tanto bene.(...) Anche se non facessero progressi, né si sforzassero di essere così perfetti da meritare i favori e le delizie che Dio riserva agli altri, guadagnerebbero sempre con l'imparare il cammino del cielo; e perseverando essi in questo santo esercizio, ho molta fiducia nella misericordia di quel Dio che nessuno ha mai preso invano per amico; giacché l'orazione mentale non è altro, per me, che un intimo rapporto di amicizia, un frequente trattenimento da solo a solo con Colui dal quale sappiamo di essere amati. Ma voi direte che ancora non lo amate.
Sì, perché l'amore sia vero e l'amicizia durevole, occorrono parità di condizioni, e invece sappiamo che mentre nostro Signore non può avere alcun difetto, noi siamo viziosi, sensuali ed ingrati, per cui non lo possiamo amare quanto Egli merita. Tuttavia, considerando quanto vi sia vantaggioso averlo per amico e quanto Egli vi ami, sopportate pure la pena di stare a lungo con uno che sentite così diverso da voi» (Vit. 8, 5).
Non molto pensare, ma molto amare
«Quelli che sanno discorrere con l'intelletto non devono impiegare in questo tutto il tempo dell'orazione, benché, trattandosi di un lavoro molto meritorio e delizioso, sembri loro di non dover avere alcun (...) istante di riposo. Quando non discorrono credono di perder tempo, mentre io considero questa perdita come un guadagno assai grande».
«Come ho detto, invece, s'immaginino di essere alla presenza di Gesù Cristo, gli parlino e godano di star con Lui senza affaticare l'intelletto. Non si preoccupino di far ragionamenti, ma gli espongano semplicemente i loro bisogni, umiliandosi nella considerazione di quanto siano indegni di stare alla sua presenza ».
«Tornando alla meditazione su nostro Signore alla colonna (...) è bene fermarsi alquanto a lavorare d'intelletto, pensando chi è che soffre, come soffre, perché soffre e l'amore con cui soffre».
«Tuttavia non bisogna affaticarci troppo. Essendo così vicini al Signore, occorre che l'intelletto sappia anche tacere , immaginandoci, per quanto ci sarà possibile, che il Signore ci stia guardando. Allora facciamogli compagnia, parliamo con Lui, supplichiamolo, umiliamo ci, deliziamoci della sua presenza, ricordandoci sempre che siamo indegni di stargli innanzi. Quando un'anima può fare questi atti, ne avrà vantaggio anche se è al principio dell'orazione perché, come almeno io ho costatato, questo modo di pregare è assai utile» (Vit. 13,11.22; cfr. Vit. 15, 7).
«Vorrei far comprendere che l'anima non è il pensiero e che la volontà non è governata dall'immaginazione. Sarebbe una grave sventura se lo fosse. Ne viene, quindi, che il profitto dell'anima non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare » (Fond. 5, 2).
«Desidero avvertirvi che per inoltrarsi in questo cammino e salire alle mansioni a cui tendiamo, l'essenziale non è già nel molto pensare, ma nel molto amare, per cui le vostre preferenze devono essere soltanto in quelle cose che più eccitano all'amore» (Mans. IY 1,7).
Gesù: maestro, compagno, amico
«Anzitutto si fa il segno della croce, poi l'esame di coscienza, indi si recita il Confiteor. Poi, siccome siete sole, dovete cercarvi una compagnia. E ve n'è forse una migliore di quella del Maestro che vi ha insegnato la preghiera che state per recitare? Immaginate, quindi, che vi stia vicino, e considerate l'amore e l'umiltà con cui vi istruisce».
«Ascoltatemi, figliole; fate sempre il possibile per stargli sempre dappresso. Se vi abituerete a tenervelo vicino, ed Egli vedrà che lo fate con amore e che cercate ogni mezzo per contentarlo, non solo non vi mancherà mai, ma, come suol dirsi, non potrete più togliervelo d'attorno. L'avrete con voi dappertutto, e vi aiuterà in ogni vostro travaglio. Credete sempre che sia poca cosa aver sempre vicino un così buon amico?».
«Sorelle mie, voi che non potete discorrer molto con l'intelletto, né arrestare il pensiero sopra un punto determinato senza cadere nelle distrazioni, abituatevi, vi prego, abituatevi alla pratica che vi suggerisco! So che lo potete».
«Non chiedo già di concentrarvi tutte su di Lui, formare alti e magnifici concetti ed applicare la mente a profonde e sublimi considerazioni. Vi chiedo solo che lo guardiate. E chi vi può impedire di volgere su di Lui gli occhi della vostra anima, sia pure per un istante se non potete di più?».
«Non è forse così che deve fare una buona sposa con il suo sposo: mostrarsi triste se egli è triste, allegra se egli è allegro, anche se non ha voglia? (...) Così fa il Signore con voi, senz'alcun'ombra di finzione. Si fa vostro servo, vuole che voi siate le padrone e si accomoda in tutto alla vostra volontà. Se siete nella gioia potete contemplarlo risorto, e nel vederlo uscire dal sepolcro, la vostra allegrezza abbonderà. (...) Se invece siete afflitte o fra i travagli, potete considerarlo mentre si reca al giardino degli ulivi (...), legato alla colonna (...), perseguitato dagli uni e sputacchiato dagli altri, rinnegato, abbandonato dagli amici (...) ridotto a tanta solitudine che ben potete avvicinarlo e consolarvi a vicenda. Oppure consideratelo con la croce sulle spalle, quando i carnefici non gli permettono nemmeno di respirare. Egli allora vi guarderà con quei suoi occhi tanto belli, compassionevoli e ripieni di lacrime; dimenticherà i suoi dolori per consolare i vostri, purché voi Lo guardiate e Lo preghiate di consolarvi».
«Vedendolo in quello stato il vostro cuore si sentirà intenerire, e allora non solo lo guarderete ma vi verrà pure di parlargli (...), non con preghiere studiate, ma con parole sgorganti dal cuore , che sono sempre quelle che Egli stima di più (...)».
«Mi domanderete, sorelle, come ciò possa essere, e mi direte che abbraccereste volentieri il mio consiglio se vedeste il Signore come quando era sulla terra, nel qual caso non cessereste mai di guardarlo. Ma non credetelo. Chi rifiuta oggi di farsi un po' di violenza per raccogliersi e contemplare il Signore nel proprio interno, quando lo può fare senza alcun pericolo ma soltanto con un po' di diligenza, pensate se poteva durarla ai piedi della croce con la Maddalena, minacciata di morte da ogni parte» (Cam. 26, 1,2,3, 4, 5, 6, 8, 10; Vit., 12, 2).
Presenza di Dio
«Dobbiamo ritrovarci in noi stesse anche in mezzo alle occupazioni, essendoci sempre di gran vantaggio ricordarci di tanto in tanto, sia pure di sfuggita, dell'Ospite che abbiamo in noi, persuadendoci insieme che per parlare con Lui non occorre alzare la voce. Se ne prenderemo l'abitudine Egli si farà sentire presente».
«Così le nostre preghiere vocali le reciteremo con maggior quiete ed eviteremo molta noia. Dopo esserci sforzate per alcun tempo di tener compagnia al Signore, Egli ci capirà anche per via di segni».
«Il Signore si degni di insegnare questa specie di orazione a quelle tra voi che ancora non la conoscono. Io per me vi confesso che mai seppi cosa volesse dire pregare con soddisfazione fino a quando il Signore non mi pose su questa via» (Cam. 29, 5, 6, 7).
Gesù presente nella fede
«Il mio metodo di orazione era nel far di tutto per tener presente dentro di me Gesù Cristo, nostro Bene e Signore. Se meditavo una scena della sua vita, cercavo di rappresentarmela nell'anima. Però mi piaceva di più leggere buoni libri, nei quali era tutto il mio sollievo.
Il Signore non mi ha dato di poter discorrere con l'intelletto e neppure di valermi dell'immaginazione, la quale è in me così debole, che per quanto facessi per rappresentarmi l'Umanità di nostro Signore, non vi riuscivo per nulla» (Vit. 4, 7).
«Ero così poco abile a raffigurarmi gli oggetti con l'intelletto che se non li avevo visti con i miei occhi, ne ero affatto incapace, mentre altre persone, potendosi aiutare nell'immaginazione, si formano immagini su cui raccogliersi. Io non potevo pensare che a Gesù Cristo come uomo, ma anche qui, per quanto leggessi della sua bellezza e contemplassi le sue immagini, non mi riusciva di rappresentarmelo se non come un cieco o come uno che stia al buio il quale, parlando con una persona, sente di essere alla sua presenza in quanto sa, capisce ed è sicuro che gli sta dinanzi, ma non la vede. Così appunto mi avveniva quando pensavo a nostro Signore. Ed è per questo che io amo molto le immagini» (Vit. 9, 6).
Portatori di Dio
«Dovete convincervi che nel nostro interno abbiamo veramente qualche cosa. E piaccia Dio che sian soltanto le donne ad ignorarlo! Se procurassimo di ricordarci spesso dell'Ospite che abbiamo in noi, sarebbe impossibile, secondo me, abbandonarci con tanta passione alle cose del mondo, perché, paragonate a quelle che portiamo in noi, apparirebbero in tutta la loro spregevolezza. Ma noi imitiamo il bruto animale che appena vede un'esca di suo gusto, si precipita su di essa a saziare la sua fame. Eppure, quanto diversi dovremmo essere dai bruti!
«Alcune forse si rideranno di me, diranno che la cosa è assai chiara e ne avranno ragione. Eppure per me non è sempre stata così. Sapevo benissimo di avere un'anima, ma non ne capivo il valore, né chi l'abitava, perché le vanità della vita mi avevano bendati gli occhi per non lasciarmi vedere. Se avessi inteso, come ora, che nel piccolo albergo dell'anima mia abitava un Re così grande, mi sembra che non lo avrei lasciato tanto solo, ma che di quando in quando gli avrei tenuto compagnia, e sarei stata più diligente per conservarmi senza macchia» (Cam. 28, 10-11; cfr. Esclam. 7,1).
Lo Sposo dell'anima
«Si, o bontà infinita del mio Dio, (...) come sopportate chi vi permette di stargli vicino! Che buon amico dimostrate di essergli, Signore! Come lo favorite, e con quanta pazienza sopportate la sua condizione aspettando che si conformi alla vostra! Tenete in conto ogni istante che egli trascorre in amarvi e per un attimo di pentimento dimenticate le offese che vi ha fatte. Questo io so per esperienza, e non capisco, o mio Creatore, perché il mondo non corra tutto ai vostri piedi per intrecciare con Voi questa particolare amicizia. Se vi avvicinassero, diverrebbero buoni anche i cattivi, quelli cioè che non sono della vostra condizione, purché vi permettessero di star con loro un due ore al giorno, nonostante che il loro spirito andasse agitato da mille sollecitudini e pensieri di mondo come il mio» (Vit. 8,6; cfr. 22,14).
«Sappiate, figliole mie, che questo vostro Sposo non vi perde mai di vista, né sono bastate, perché lasciasse di guardarvi, le mille brutture e abominazioni che gli avete fatto soffrire. Ora, è forse gran cosa che togliendo gli occhi dagli oggetti esteriori, li fissiate alquanto su di Lui? Ricordate ciò che dice alla Sposa: non aspetta che un vostro sguardo per subito mostrarvisi quale voi la bramate. Stima tanto questo sguardo, che per averlo non lascia nulla di intentato» (Cam. 26, 3; cfr. Rel. 33, 3).
«Considero spesso, o mio Cristo, come siano dolci e pieni di incanto gli occhi che mostrate all'anima che vi ama e che Voi, o mio Bene, volete guardare con amore. Uno solo di quei dolcissimi sguardi, posato all'anima che già tenete per vostra, basta, mi pare, per ripagarla di molti anni di servizio» (Esclam. 14, 1).
L'orazione insegnata da Gesù: il Pater
«Non voglio parlarvi di certe preghiere assai lunghe, perché le anime incapaci di fissarsi in Dio può darsi che si stanchino anche di quelle; ma soltanto delle preghiere che come cristiani dobbiamo necessariamente recitare: il Pater Noster e l'Ave Maria».
«Non bisogna che si dica di noi che parliamo senza sapere quello che diciamo (...). Quando dico il Pater Noster, mi sembra che l'amore debba esigere che io intenda chi sia questo Padre e chi il Maestro che ci ha insegnata tal preghiera. (...) Come dimenticarci del Maestro che ci ha insegnata questa preghiera, e ce l'ha insegnata con tanto amore e con un così vivo desiderio che ci sia utile?».
«In primo luogo - come sapete bene anche voi Sua Maestà ci insegna a pregare in solitudine. Così anch'Egli faceva, benché non ne avesse bisogno, ma solo a nostro insegnamento».
«È chiaro, del resto, che non si può parlare con Dio nel medesimo tempo che con il mondo, come fanno coloro che mentre recitano preghiere, ascoltano ciò che si dice d'intorno, o si fermano a quanto viene loro nella mente, senza cura di raccogliersi».
«E' bene inoltre considerare che il Signore ha insegnato e continua ad insegnare questa sua preghiera a ciascuno in particolare. Il Maestro non è così lontano dal discepolo d'aver bisogno di alzare la voce... Anzi, gli è molto vicino, ed io vorrei che per bene recitare il Pater Noster, foste intimamente persuase di non dovervi mai allontanare da Chi ve lo ha insegnato».
«Direte che questo è meditare, mentre voi non potete né volete fare altro che pregare vocalmente.
«Vi sono infatti persone così amanti del proprio comodo da non volersi dare alcuna pena. Non essendo abituate a meditare e trovando in principio qualche difficoltà a raccogliersi, preferiscono sostenere, per evitarne la molestia, che esse ne sono incapaci e che sanno pregare solo vocalmente».
«Dite bene quando affermate che il metodo anzidetto è già meditazione; ma io vi dichiaro che non so comprendere come l'orazione vocale possa essere ben fatta, quando sia separata dal pensiero di Colui al quale ci rivolgiamo. O che forse non è doveroso, quando si prega, pregare con attenzione? Piaccia a Dio che riusciamo a dire bene il Pater Noster anche con questi mezzi, senza cadere in mille pensieri stravaganti! Io ne ho fatto spesso l'esperienza, e so che il miglior rimedio alle distrazioni è di applicarmi a tenermi fissa in Colui a cui mi rivolgo . Abbiate dunque pazienza, e procurate di abituarvi a questa pratica che è tanto necessaria» (Cam. 24, 2, 3, 4, 5, 6).
Immagini devote e libri di meditazione
«Buon mezzo per mantenervi alla presenza di Dio è di procurarvi una sua immagine o pittura che vi faccia devozione, non già per portarla sul petto senza mai guardarla, ma per servirvene e intrattenervi spesso con Lui; ed Egli vi suggerirà quello che gli dovete dire» (Cam. 26, 9).
«Quando il Signore è assente ce lo dà a vedere con le aridità. Allora sì che ci è utile di contemplare le immagini di colui che amiamo. Per conto mio vorrei incontrarmi con il suo sembiante in qualunque parte mi rivolgessi, non essendovi nulla di più bello e di più giocondo che impiegare i nostri sguardi nell'affissarsi in Colui che tanto ci ama e che in sé racchiude ogni bene » (Cam. 34, 11).
«Altro ottimo mezzo per raccogliervi e pregar bene vocalmente è di aiutarvi con un buon libro in volgare. Così con questi mezzi e attrattive vi abituerete gradualmente alla meditazione, senza troppo preoccuparvi» (Cam. 26, 10; cfr. Vit. 4, 8-9).
Miseria umana e misericordia divina
«Che spettacolo, Gesù mio, vedere un'anima che, caduta in peccato da tanta altezza, viene di nuovo sollevata dalla vostra grande misericordia! Come conosce bene allora la moltitudine delle vostre grandezze e misericordie e la profondità della sua miseria (...). Tutto ciò la rapisce. Del resto chi non andrebbe rapito, o Signore dell'anima mia, nel vedervi ripagare un così nero e abominevole tradimento con tanta abbondanza di misericordia e di favori?» (Vit. 9, 5).
«E in chi, o Signore, può meglio risplendere la vostra misericordia se non in me che con le mie opere cattive ho profanato tante volte le grandi grazie che avete cominciato a farmi? Guai a me, Creator mio! Se cerco scuse, non ne trovo. La colpa è di nessuno, ma tutta mia, perché se avessi corrisposto, anche in parte, all'amore che mi dimostravate, non avrei amato altri che Voi, e tutto sarebbe andato per il meglio. Ma se di tanta sventura non mi sono mostrata meritevole, mi valga almeno, o Signore, la vostra misericordia!...» (Vit. 4,4).
«Da ciò la vostra infinita clemenza ha già ricavato del bene, perché dove più grande è la miseria, più risplendono i benefici delle vostre misericordie. Oh, le vostre misericordie, con quanta ragione dovrei io sempre cantarle! Signore, datemi di poterle cantare in eterno, giacché vi siete compiaciuto di prodigarmele con tanta munificenza da meravigliare tutti coloro che le vedono. Io poi ne rimango trasecolata, tanto che le lodi mi sgorgano effusamente. Senza di Voi, o mio Bene, io non posso far altro che sradicare di nuovo i fiori del mio giardino, e ricondurre questa mia terra miserabile allo stato di un letamaio come prima. Ma non permettetelo, o Signore. Non permettete che vada perduta quest'anima che, redenta un giorno con tanti vostri dolori, avete poi riscattata tante altre volte e strappata di bocca al dragone infernale» (Vit. 14,10).
Il libro della natura
«Alle anime che battono questa strada giova molto un buon libro per raccogliersi presto. Per me bastava anche la vista dei campi, dell'acqua e dei fiori: cose che mi ricordavano il Creatore, mi scuotevano, mi raccoglievano, mi servivano da libro. Oltre a ciò mi giovava pure pensare alla mia ingratitudine e ai miei peccati» (Vit. 9, 5).
«Godevo spesso di considerare la mia anima sotto la figura di un giardino e immaginarmi il Signore che vi prendesse i suoi passeggi. Allora lo pregavo di voler aumentare il profumo dei piccoli fiori di virtù che sembravano li per sbocciare e rinforzarli per amore della sua gloria, giacché nulla io volevo per me. Lo pregavo pure di tagliare quelli che voleva, sicura che sarebbero ricresciuti più belli (...). Bisogna far poco conto della nostra miseria, che è meno di nulla: allora l'anima progredirà in umiltà, e i fiori torneranno a sbocciare» (Vit. 14, 9).
Il libro vivente: Dio
«Quando fu proibita la lettura di molti libri in volgare, mi dispiacque assai perché alcuni mi ricreavano molto e non avrei potuto più leggere, perché quelli permessi erano in latino. Ma il Signore mi disse: Non affliggerti perché io ti darò un libro vivente.
Non avendo ancora avuto alcuna visione non capivo che cosa quelle parole potessero significare. Ma lo compresi chiaramente dopo pochi giorni, perché ebbi tanto da pensare e da raccogliermi per quello che vedevo, e il Signore mi istruiva con tanta tenerezza e in così varie maniere, che quasi non ebbi più bisogno di libri o almeno di poco.
Per apprendere la verità non ebbi allora altro libro che Dio . E benedetto quel libro che lascia così bene impresso quello che si deve leggere e praticare da non dimenticarsene più» (Vit. 26, 5).
Bellezza di Gesù
«La visione di Gesù Cristo mi impresse nell'anima la sua incomparabile bellezza che ho ancora presente. (...). E ne trassi il profitto che dirò.
Avevo un difetto gravissimo, da cui mi erano venuti molti mali. Quando mi accorgevo che una persona mi voleva bene e mi era simpatica, mi affezionavo ad essa fino ad averla sempre nella mente. Non già che volessi offendere Dio, ma mi compiacevo nel vederla, nel pensare a lei e alle buone qualità che possedeva. E questo bastava perché l'anima mia ne andasse perduta, tanto quell'affezione mi era dannosa. Ma dopo aver visto la grande bellezza del Signore, non vi fu più una persona che al suo confronto mi apparisse così piacevole da occupare ancora il mio spirito. Per esserne del tutto libera, mi basta gettare uno sguardo sull'immagine che porto in me, e innanzi alla bellezza e alla perfezione del mio Signore, le cose di quaggiù non fanno che disgustarmi» (Vit. 37, 4).
La Samaritana e l'acqua divina
«Ero molto devota di S. Maria Maddalena e pensavo spesso alla sua conversione, specie quando mi comunicavo. Sapendo che il Signore stava allora con me, mi gettavo ai suoi piedi immaginandomi che le mie lacrime non meritassero di essere del tutto di-sprezzate. Non sapevo quello che dicevo, facendo Egli già molto con acconsentire che io le spargessi per Lui, giacché i miei sentimenti si dileguavano quasi subito. Intanto mi raccomandavo a questa Santa gloriosa affinché mi ottenesse perdono» (Vit. 9, 2; cfr. Cam. 34, 7).
«Quante volte mi sono ricordata dell'acqua viva di cui parlò il Signore alla Samaritana! Sono molto devota di quel fatto evangelico, e lo ero fin da bambina, tanto che senza neppur comprendere quello che dicevo, supplicavo spesso il Signore a darmi di quell'acqua: in camera mia tenevo un quadro che rappresentava Gesù vicino al pozzo con sotto le parole: « Domine, da mihi aquam!» (Vit. 30, 19).
Accogliere il Signore
«La Domenica delle Palme, appena fatta la comunione (...), mentre ne assaporavo la dolcezza straordinaria, il Signore mi disse: Figliola, voglio che il mio sangue ti giovi. Non temere che la mia misericordia ti manchi. Io l'ho versato fra acerbissimi dolori, mentre tu lo godi fra inenarrabili delizie. Vedi dunque che ti pago bene il banchetto che oggi mi prepari.
Disse così perché da più di trent'anni, il giorno delle Palme, quando potevo, mi accostavo alla comunione cercando di prepararmi l'anima in modo da poter ospitare il Signore, parendomi che gli Ebrei fossero stati troppo crudeli quando, dopo averlo accolto con tanto trionfo, lasciarono che andasse a mangiare lontano, e facevo conto di trattenerlo con me, benché non gli apprestassi che un soggiorno assai misero, come ora mi accorgo. E così mi abbandonavo ad alcune ingenue considerazioni che il Signore doveva gradire» (Rel. 26).
L'Orazione dell'orto"
«Non potendo discorrere con l'intelletto, procuravo di rappresentarmi Gesù Cristo nel mio interno, specialmente secondo quei tratti della sua vita in cui lo vedevo più solo, e mi pareva di trovarmi meglio. Mi sembrava che essendo solo ed afflitto mi avrebbe accolta più facilmente, come persona bisognosa di aiuto. Di simili ingenuità ne avevo parecchie.
Mi trovavo molto bene con 1' " Orazione dell'orto " dove gli tenevo compagnia. Pensavo al sudore e all'afflizione che vi aveva sofferto, e desideravo di potergli asciugare quel sudore così penoso. Ma ripensando ai miei gravi peccati, ricordo bene che non ne avevo il coraggio. Me ne stavo con Lui fino a quando i miei pensieri lo permettevano, perché mi disturbavano assai» (Vit. 9, 3; cfr. Cam. 27, 4).
Eucaristia
«Il Signore le aveva dato una fede così viva che quando sentiva dagli altri che avrebbero desiderato di vivere al tempo in cui nostro Signore era sulla terra, rideva tra se stessa, sembrandole che possedendo nel SS. Sacramento lo stesso Cristo che allora si vedeva, non vi fosse altro da bramare».
«So inoltre di questa persona che per parecchi anni, benché non ancora molto perfetta, le sembrava di vedere con gli stessi occhi del corpo, al momento della Comunione, nostro Signore che le entrava nell'anima. Allora ella procurava di ravvivare la fede, faceva il possibile per distaccarsi dalle cose esteriori e si ritirava col Signore nella sua anima, dove sapeva di averlo visto discendere. Cercava di raccogliere i suoi sensi per far loro comprendere il gran bene che avevano: dico che cercava di raccoglierli per evitare che impedissero all'anima di comprenderlo. Si considerava ai piedi del Signore e, quasi lo vedesse con gli occhi del corpo, piangeva con la Maddalena in casa del Fariseo. Anche allora che non aveva devozione sensibile, la fede non mancava di assicurarla che il Signore era veramente nella sua anima».
« Appena vi comunicate chiudete gli occhi del corpo e aprite quelli dell'anima per fissarli in fondo al vostro cuore, dove il Signore è disceso . Vi dico, vi torno a dire e ve lo vorrei ripetere all'infinito, che se vi abituerete a questa pratica ogni qualvolta vi accosterete alla Comunione, il Signore non si nasconderà mai così in pieno da non manifestarsi con qualcuno dei molti espedienti che ho detto. Ciò sarà sempre in proporzione al vostro desiderio, potendolo voi desiderare con tanto ardore da indurlo talvolta a manifestarsi del tutto» (Cam. 34, 6, 7, 12).
L'amicizia di Dio
«La visione di nostro Signore e la continua conversazione che avevo con Lui aumentarono di molto il mio amore e la mia fiducia: comprendevo che se è Dio, è anche Uomo, e che come tale non solo non si meraviglia della debolezza umana, ma sa pure che questa nostra misera natura va soggetta a molte cadute, causa il primo peccato che Egli è venuto a riparare».
Il 15 ottobre si festeggia Santa Teresa D'Avila
Della grande mistica spagnola, Teresa d’Ávila e Juan de la Cruz sono il culmine e il compimento. Chiudono il secolo del Rinascimento e aprono l’inquieta modernità del XVII. Di Teresa (Ávila, 28 marzo 1515 – Alba de Tormes, 15 ottobre 1582) si celebrano i 5 secoli dalla nascita, anche se la festa liturgica è fissata alla data della morte. Riformatrice dell’ordine carmelitano, mistica, Teresa è stata, non meno, scrittrice di architetture dell’anima, suscitando dietro di sé un’iconografia, dalla «Trasverberazione» del Bernini a Santa Maria della Vittoria ai ritratti di Rubens e del Guercino, che ha animato l’immaginario europeo, la filosofia, la poesia: «Di Teresa qui giace/ il core palpitante,/ morto ancora vivace,/ e senza vita amante» (G. Lubrano, Epitaffio al cuore di Santa Teresa che fuma in un reliquiario di cristallo, in Scintille poetiche, 1690).La sua Vita, scritta dal 1567, è – con gli Essais di Montaigne – la nascita di un’«analisi del sé» di vertiginosa lucidità, penetrando negli abissi dell’anima con intelletto vigile, capace di discernimento acuminato non meno che di vigoroso realismo: «Volesse Iddio che temessimo soltanto quel che è da temere, persuadendoci che può farci più danno un solo peccato veniale che non tutto l’inferno messo insieme, il che è la pura verità. Se i demoni ci fanno spavento, è perché noi stessi li rendiamo terribili col nostro attaccamento agli onori, alle ricchezze e ai piaceri» (Vita, cap. XXV).La sua fortuna è stata segnata da quell’istante di visitazione ardente di cui la Vita è testimone e Bernini supremo interprete: «Volle il Signore che, trovandomi in questo stato, avessi più volte la seguente visione. Vedevo un angelo accanto a me, a sinistra, in forma corporea: cosa che non mi accade che rarissime volte. […]. Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento» (Vita, cap. XXIX).Ma occorrerebbe ricondurre a mente quei momenti squisitamente narrativi del Castello interiore (1577) nei quali – insieme alle progressive inabitazioni nel castello dell’anima – s’aprono contemplazioni del quotidiano di rara finezza: «Amerei far intendere qualcosa di quello che sento, servendomi di similitudini, ma non credo che ve ne sia alcuna adeguata allo scopo. E tuttavia mi servirò di questa: immaginate la Wunderkammer di un re o di un gran signore nella quale vi sia un’infinità di cristalli, di vasi, e di molti altri oggetti disposti in tal maniera che uno li veda d’un colpo d’occhio entrando, come mi accadde un giorno nel palazzo della Duchessa d’Alba. Sin dall’ingresso rimasi stupefatta, e in me pensavo a cosa potesse servire tale profusione di così disparate meraviglie; e credetti che una sì grande varietà potesse servire per lodare le grandezze di Dio. […] Sebbene avessi passato gran tempo a considerare questo gabinetto di rarità, la quantità tuttavia di oggetti di cui era colmo era sì grande che dimenticai d’un tratto tutto quello che avevo visto; e non c’è un solo oggetto di cui possa ricordarmi, né dire come era fatto […]; soltanto mi ricordo, in generale, di averli visti. Così è dell’anima unita a Dio, e accolta in quell’appartamento di meraviglie del cielo empireo che noi abbiamo all’interno delle nostre anime» (Il castello interiore, sesta Dimora, cap. IV).Ha scritto Michel de Certeau che la mistica non è tanto un percorso, una condizione d’essere, ma piuttosto un istante memoriale, un tocco impalpabile; Teresa d’Ávila va ben oltre, e il suo dettato mette in ombra anche il cammino proustiano: «Vi è una sorta di rapimento nel quale, sebbene l’anima non sia in orazione, ma soltanto toccata dal ricordo di qualche parola che le ritorni alla mente, o ch’essa abbia inteso altra volta da Dio, sembra che la divina Maestà – intenerita e piena di compassione per averla vista così a lungo nella pena che la violenza dei suoi desideri le faceva patire – faccia nascere dal più profondo dell’intimo suo quella scintilla, di cui ho sopra parlato, che l’infiamma di tal sorta che essa si rinnova come una fenice in mezzo a lingue di fuoco» (Il castello interiore, VI, 4).È stata santa Teresa la più appassionata amanuense di una lunga, gelosa, divina lettera d’amore. Molti hanno scritto di questo «cor di foco» (Lubrano), anche nel XX secolo da Bataille a Julia Kristeva.
Nata nel 1904 e morta nel 1964, fu assistente sociale e scrittrice. Visse per più di 30 anni nella periferia di Parigi, abbagliata dall’incontro con il Signore.
Il cristiano che vivrà in questo modo nella città, sperimenterà con tutto il suo essere la forza dell'amore evangelico. La realtà di questo amore risplenderà in torno a lui come una evangelizzazione e in lui come una illuminazione.
Sperimenterà che agire è illuminare, ma anche essere illuminati, sperimenterà che, se pregare è lasciarsi fare da Dio, è però anche imparare a compiere l'opera di Dio.
Un cristiano simile renderà grazie, perché tutti i suoi gesti diventeranno l'espressione di un amore che non conosce né limiti né eccezioni, un amore del quale soltanto Cristo ha detto agli uomini che lo devono e ricercare e donare.
Cara Madeleine..
Papa Francesco
Madeleine Delbrêl: l’equilibrio della fede e la “spiritualità della bicicletta”
il Papa ha presentato la figura della mistica francese. «Aveva il cuore continuamente in uscita. Ci insegna che evangelizzando si viene evangelizzati»
Cari fratelli e sorelle tra i tanti testimoni della passione per l’annuncio del Vangelo, quegli evangelizzatori appassionati, oggi presento la figura di una donna francese del Novecento, la venerabile serva di Dio Madeleine Delbrêl. Nata nel 1904 e morta nel 1964, è stata assistente sociale, scrittrice e mistica, e ha vissuto per più di trent’anni nella periferia povera e operaia di Parigi. Abbagliata dall’incontro con il Signore, scrisse: «Una volta che abbiamo conosciuto la parola di Dio, non abbiamo diritto di non riceverla; una volta ricevuta non abbiamo diritto di non lasciare che si incarni in noi; una volta incarnata in noi non abbiamo diritto di tenerla per noi: da quel momento apparteniamo a coloro che la attendono» (La santità della gente comune, Milano 2020, 71). Bello: bello questo che scrisse.
Dopo un’adolescenza vissuta nell’agnosticismo – non credeva a nulla -, a circa vent’anni Madeleine incontra il Signore, colpita dalla testimonianza di alcuni amici credenti. Si mette allora alla ricerca di Dio, dando voce a una sete profonda che sentiva dentro di sé, e arriva a comprendere che quel «vuoto che gridava in lei la sua angoscia» era Dio che la cercava (Abbagliata da Dio. Corrispondenza 1910-1941, Milano 2007, 96). La gioia della fede la porta a maturare una scelta di vita interamente donata a Dio, nel cuore della Chiesa e nel cuore del mondo, semplicemente condividendo in fraternità la vita della “gente delle strade”. Poeticamente si rivolgeva a Gesù così: «Per essere con Te sulla Tua strada, occorre andare, anche quando la nostra pigrizia ci supplica di restare. Tu ci hai scelti per stare in uno strano equilibrio, un equilibrio che può stabilirsi e mantenersi solo in movimento, solo in uno slancio. Un po’ come una bicicletta, che non si regge senza girare. Possiamo star dritti solo avanzando, muovendoci, in uno slancio di carità». È quella che lei chiama la “spiritualità della bicicletta” (Umorismo nell’Amore. Meditazioni e poesie, Milano 2011, 56). Soltanto in cammino, in corsa viviamo nell’equilibrio della fede, che è uno squilibrio, ma è così: come la bicicletta. Se tu ti fermi, non regge.
Madeleine aveva il cuore continuamente in uscita e si lascia interpellare dal grido dei poveri. Sentiva che il Dio Vivente del Vangelo deve bruciarci dentro finché non avremo portato il suo nome a quanti non lo hanno ancora trovato. In questo spirito, rivolta verso i sussulti del mondo e il grido dei poveri, Madeleine si sente chiamata a «vivere l’amore di Gesù interamente e alla lettera, dall’olio del Buon samaritano fino all’aceto del Calvario, donandogli così amore per amore perché, amandolo senza riserve e lasciandosi amare fino in fondo, i due grandi comandamenti della carità si incarnino in noi e non facciano che uno» (La vocation de la charité, 1, Œuvres complètes XIII, Bruyères-le-Châtel, 138-139).
Infine, Madeleine ci insegna ancora un’altra cosa: che evangelizzando si viene evangelizzati: evangelizzando noi siamo evangelizzati. Perciò diceva, riecheggiando San Paolo: «Guai a me se evangelizzare non mi evangelizza». Evangelizzando si evangelizza se stessi. E questa è una bella dottrina.
Guardando a questa testimone del Vangelo, anche noi impariamo che in ogni situazione e circostanza personale o sociale della nostra vita, il Signore è presente e ci chiama ad abitare il nostro tempo, a condividere la vita degli altri, a mescolarci alle gioie e ai dolori del mondo. In particolare, ci insegna che anche gli ambienti secolarizzati ci sono di aiuto per la conversione, perché i contatti con i non credenti provocano il credente a una continua revisione del suo modo di credere e a riscoprire la fede nella sua essenzialità (cfr Noi delle strade, Milano 1988, 268s). Che Madeleine Delbrêl ci insegni a vivere questa fede “in moto”, diciamo così, questa fede feconda che ogni atto di fede fa un atto di carità nell’annuncio del Vangelo. Grazie.
8 novembre 2023
Tutti saranno quelli che egli è venuto a cercare.
Ciascuno, colui che è venuto a salvare.
A coloro che mi parleranno, egli avrà qualche cosa da dire.
A coloro che verranno meno, egli avrà qualche cosa da dare.
Ciascuno esisterà per lui come se fosse il solo.
Nel rumore egli avrà il suo silenzio da vivere.
Nel tumulto, la sua pace da portare.
Tutto sarà permesso in questo giorno che viene,
tutto sarà permesso ed esigerà che io dica il mio sì.
Il mondo dove Lui mi lascia per esservi con me
non può impedirmi di essere con Dio;
come un bimbo portato sulle braccia della madre
non è meno con lei
per il fatto che lei cammina tra la folla.
Gesù, dappertutto, non ha cessato d'essere inviato.
Noi non possiamo esimerci d'essere,
in ogni istante,
gli inviati di Dio nel mondo.
Gesù in noi, non cessa di essere inviato,
durante questo giorno che inizia,
a tutta l'umanità, del nostro tempo, di ogni tempo,
della mia città e del mondo.
Attraverso i fratelli più vicini ch'egli ci farà
servire amare salvare,
le onde della sua carità giungeranno
sino in capo al mondo,
andranno sino alla fine dei tempi.
Madeleine Delbrel
Liturgia laica
Mentre Tu continui
A visitare in loro la nostra scura terra,
con Te essi scalano il cielo,
votati a un'assunzione pesante,
inguaiati nel fango, bruciati dal Tuo spirito,
legati a tutti,
legati a Te,
incaricati di respirare nella vita eterna,
come alberi con radici che affondano.
Madeleine Delbrêl, 100 anni fa la sua conversione : ecco la forza della Parola.
«Madeleine Delbrêl è vissuta in un’epoca in cui si diceva ancora che bisognava arrivare prima dell’offertorio se si voleva che la Messa fosse “valida”. Un po’ come se fosse stato possibile sorvolare senza problemi la prima parte della Messa, quando venivano proclamati i testi biblici».
Scrivono così Gilles François e Bernard Pitaud, rispettivamente postulatore della causa di beatificazione e biografo della Delbrêl, in apertura di un nuovo libro, All’ascolto della Parola. La docilità di lasciarci plasmare (in uscita per Gribaudi), nel quale sono raccolti 7 testi di questa straordinaria scrittrice e mistica che ha lasciato un segno profondo nella Chiesa – non solo francese – del ‘900.
Il riferimento al contesto storico-ecclesiale permette di cogliere, per contrasto, quanto profetiche suonino le parole della Delbrêl. Come sottolinea don Luciano Luppi, prete bolognese, profondo conoscitore di Madeleine: «Uno dei frutti più belli del Concilio Vaticano II è stato rimettere nelle mani di tutto il popolo di Dio i tesori delle Sacre Scritture. Sappiamo quanto questo sia decisivo per permettere il necessario passaggio da un cristianesimo di pura tradizione e convenzione a uno di scelta e convinzione. Madeleine Delbrêl, pioniera e anticipatrice dell’insegnamento conciliare, si presenta oggi a noi come una preziosa guida a un rapporto spirituale maturo con la Parola di Dio».
C’è un brano, intitolato Testimoni, nel quale l’autrice condensa in modo formidabile il suo pensiero: «Una volta che abbiamo conosciuto la parola di Dio, non abbiamo diritto di non riceverla; una volta ricevuta non abbiamo diritto di non lasciare che si incarni in noi, una volta incarnata in noi non abbiamo diritto di tenerla per noi: da quel momento apparteniamo a coloro che la attendono». Poco prima Madeleine aveva introdotto la sua spiegazione ricorrendo, come spesso le capita, a immagini immediate, legate al quotidiano: «La parola di Dio non si porta ai confini del mondo in valigia; la si porta in sé. Non la si mette in un angolo di se stessi, come riposta sul ripiano di un armadio. La si lascia andare fino al fondo di sé, fino a quel cardine su cui tutto il nostro essere ruota. Non si può essere missionari senza aver operato in noi questa accoglienza franca, ampia, cordiale alla parola di Dio, al Vangelo. Questa parola ha la tendenza viva a farsi carne, farsi carne in noi. E quando siamo così abitati da essa, diventiamo adatti a essere missionari».
Questo testo è un passaggio tratto da uno degli scritti più celebri di Madeleine, ovvero Missionari senza barche. Redatto a fine ’43, era stato ispirato dalla pubblicazione, qualche mese prima, di La Francia paese di missione?: un testo-choc di due preti che presentava una diagnosi della scristianizzazione in atto nella Francia del tempo. «Scrivendo il suo testo – osservano i curatori del volume – Madeleine Delbrêl avrebbe voluto non tanto contestare l’opera dei due sacerdoti quanto aprire un altro campo di riflessione, suggerendo che la testimonianza evangelica, prima d’incarnarsi in metodi pastorali, deve passare per la conversione dei testimoni stessi. Può essere questo che spiega perché Madeleine, forse per discrezione, non abbia pubblicato il suo testo. E così Missionari senza barche, testo fondamentale nell’opera di Madeleine, fu conosciuto solo per degli estratti pubblicati in Noi delle strade e La gioia di credere. Bisogna attendere l’anno 2000 per avervi accesso nella sua versione completa».
Per una provvidenziale coincidenza, la pubblicazione de All’ascolto della Parola avviene a poca distanza dall’anniversario – un secolo tondo – della conversione di Delbrêl. Di lei papa Francesco, l’8 novembre 2023 ha detto: «Nata nel 1904 e morta nel 1964, è stata assistente sociale, scrittrice e mistica. Ha vissuto per più di trent’anni nella periferia povera e operaia di Parigi, abbagliata dall’incontro con il Signore». Proprio così: se nel 1922 la diciottenne Madeleine aveva scritto «Dio è morto, viva la morte» («Si è detto “Dio è morto”. Poiché è vero, bisogna avere l’onestà di non vivere più come se vivesse»), in capo a due anni la sua visione della vita e di Dio sarebbe cambiata radicalmente. Come mai? «Mi era accaduto l’incontro con parecchi cristiani che vivevano la mia stessa vita, discutevano quanto me, danzavano quanto me... Parlavano di tutto, ma anche di Dio che pareva essere a loro indispensabile come l’aria. Cristo avrebbero potuto invitarlo a sedersi, non sarebbe sembrato più vivo».
"Sei riconoscente al tuo angelo?"
Santa Teresa del Bambin Gesù
Non non potrei mai stancarmi di lui:
sarebbe come se un atomo ad un tratto
si annoiasse di stare sempre insieme
agli innumerevoli elementi dello spazio.
Come fiori in un prato-
La sua mano era più bianca dell'olio
che bruciando alimenta le luci sacre.
Emily Dickinson
Alda Merini
Siete voi angeli
che persuadete l'uomo a diventare sogno,
che spingete l'uomo verso l'amore.
Angeli,
che chiudete le porte del sogno,
angeli,
che aprite le nostre speranze,
angeli
che non avete terra né riposo mai
in quanto l’amore
è il lungo riposo del sogno.
Angeli,
che riposate in Dio
e siete la dinamica del suo pensiero,
ascoltate il sollievo della terra
e il respiro della materia,
l’ombra della luce,
il colpo della dura disperazione.
Angeli
che portate ovunque il pane celeste
e le cui labbra non sono mai
state baciate
nemmeno dal pensiero.
Voi non avete labbra né cuore
Eppure siete un sogno
del purissimo amore.
Il vostro mistero è nel volo.
Ogni volta che Dio pensa
crea un angelo e lo deforma
a seconda del suo pensiero.
Noi uomini della terra
siamo deformati da voi,
siamo gobbi, storpi, silenziosi amanti,
non avremo mai il vostro distacco
dalla terra e dal cielo.
Santa Francesca Romana (1384-1440) ebbe la grazia di avere sempre vicino a sé il suo angelo custode per 34 anni. Lo vedeva di notte e di giorno. L’angelo irradiava una luce celestiale che illuminava l’abitazione affinché potesse recitare di notte l’Ufficio divino e accudire ai mestieri di casa. Lo vedeva alla sua destra sia che stesse in casa, in chiesa o per la via. Se qualcuno faceva qualcosa di cattivo in sua presenza, si copriva il volto con le mani. Era così intensa la luce che irradiava che non lo poteva guardare direttamente in fronte se non quando pregava, quando era tentata dai demoni o quando parlava del suo celeste protettore col suo confessore.
Aveva la figura di un bambino di dieci anni, coperto da un abito bianco o tunica che gli giungeva fino alle caviglie, lasciando scoperti solo i piedi nudi; il suo volto guardava il cielo e le mani erano incrociate sul petto e i capelli sparsi sulla spalla in riccioli d’oro.
Santa Caterina Labouré (1806-1876) ebbe la fortuna di vedere il suo angelo sotto forma di un bambino, che la destò nella notte del 18 luglio 1830. Era bellissimo, vestito di bianco, e parlava con voce celestiale. Le disse: «Vai alla cappella, perché lì ti attende la beata Vergine Maria; io ti accompagno». Si veste rapidamente e segue l’angelo verso la cappella. Al suo passaggio, le lampade si accendono automaticamente e le porte si aprono. Giunti sul luogo, la cappella era già illuminata. Quando Maria appare, ella si rifugia nel suo grembo e avverte una gioia che viene dal cielo. Maria, fra le altre cose, le dice, indicandole il tabernacolo, che, se avrà dei problemi, ricorra a Gesù Sacramentato.
Santa Gemma Galgani (1878-1903) scrive nel suo diario: «Gesù non mi lascia stare sola un istante, senza che io sia sempre in compagnia con il mio angelo custode … L’angelo, dal momento in cui mi alzavo, cominciava a svolgere la funzione di mio maestro e guida: mi riprendeva sempre quando facevo qualcosa di male e mi insegnava a parlare poco». A volte, l’angelo la minacciava di non farsi più vedere se non avesse obbedito al confessore in tutto. Richiamava la sua attenzione la sua attenzione quando faceva male qualcosa e la correggeva costantemente perché fosse perfetta in tutto. In certe occasioni, stabiliva delle norme: «Chi ama Gesù, parla poco e sopporta molto. Obbedisce puntualmente al confessore in tutto senza replicare. Quando commetti qualche sbaglio, fai subito atto di accusa e chiedi scusa. Ricordati di trattenere i tuoi occhi e pensa che l’occhio mortificato vedrà le meraviglie del cielo» (28 luglio1900).
Per molti giorni, quando si svegliava al mattino, lo trovava al suo fianco mentre l’aiutava, la benediceva prima di sparire alla sua vista. Spesso le indicava che «il cammino più rapido e più sicuro [per arrivare a Gesù] è quello dell’obbedienza» (9 agosto1900). Un giorno le disse: «Sarò la tua guida e il tuo compagno inseparabile».
Santa Faustina Kowalska (1905-1939) scrive nel suo “Diario”: «Il mio angelo mi accompagnò nel viaggio fino a Varsavia. Quando entrammo nella portineria [del convento] sparì… Di nuovo quando partimmo con il treno da Varsavia fino a Cracovia, lo vidi nuovamente al mio fianco. Quando giungemmo alla porta del convento sparì» (I, 202).
«Durante il tragitto vidi che sopra ogni chiesa che si incontrava nel viaggio c’era un angelo, però di una lucentezza più tenue di quello dello spirito che mi accompagnava. Ognuno degli spiriti che custodiva i sacri edifici si inchinava davanti allo spirito che era al mio fianco. Ringraziavo il Signore per la sua bontà, dato che ci regala angeli come compagni. Oh, quanto poco la gente pensa al fatto che tiene sempre al suo fianco un così grande ospite e al tempo stesso testimone di tutto!» (II, 88).
Un giorno, mentre era inferma… «all’improvviso vidi vicino al mio letto un serafino che mi porse la santa Comunione, pronunciando queste parole: Ecco qui il Signore degli angeli. Il fatto si ripeté per tredici giorni … Il serafino era circonfuso di grande splendore e da lui traspariva l’atmosfera divina e l’amore di Dio. Aveva una tunica dorata e sopra di essa portava una cotta trasparente e una stola pure luminosa. Il calice era di cristallo ed era coperto da un velo trasparente. Appena mi diede il Signore sparì» (VI, 55). «Un giorno disse a questo Serafino : “Mi potresti confessare?” Ma egli mi rispose: nessuno spirito celeste ha questo potere» (VI, 56). «Molte volte Gesù mi fa conoscere in modo misterioso che un’anima agonizzante ha bisogno delle mie preghiere, però spesso è il mio Angelo Custode che me lo dice» (II,215).
"La mia piccola via verso Dio"
Pensieri di Santa Teresina
II Signore mi dà coraggio in proporzione al patire. Sento che, per il momento, non potrei sopportare di più, ma non ho paura, perché se il dolore aumenterà, aumenterà il coraggio.
La paura mi fa indietreggiare, con l'amore non soltanto vado avanti, ma volo.
Quale gioia pensare che il Dio è giusto, cioè che tiene conto nostre debolezze, che conosce perfettamente la fragilità della nostra natura.
Com'è dolce la via dell'amore! Senza dubbio si può cadere, si può commettere delle infedeltà, ma l'amore, sapendo trarre profitto di tutto, consuma rapidamente tutto quello che può dispiacere a Gesù, lasciando soltanto una umile profonda pace in fondo al cuore.
Soprattutto il Vangelo mi occupa durante l'orazione: in esso trovo tutto il necessario per la mia povera anima. Scopro sempre in esso luci nuove, significati nascosti e misteriosi.
La nostra vocazione non è quella di andare a mietere nei campi di grano maturo; Gesù non dice: Abbassate gli occhi, guardate i campi e andate a mietere; la nostra missione è ancora più sublime. Ecco le parole di Gesù: “Alzate gli occhi e guardate.." (Cfr. Gv 4,35) Guardate come nel cielo vi sono dei posti vuoti; spetta a voi riempirli. Voi siete i miei Mosé in preghiera sulla montagna; domandatemi operai ed io ve ne manderò. Non aspetto che una preghiera, un sospiro del vostro cuore.
Per appartenere a Gesù, bisogna essere piccoli, piccoli come una goccia di rugiada. Oh come sono poche le anime che aspirano ad essere piccole cosi!
Saint-Cheron rilegge la vita della monaca che ha spiegato come il combattimento spirituale, la lotta tra il bene e il male, sia alla portata di tutti e quindi è universale
Nata in un’epoca in cui s’imparava il catechismo a memoria, in una famiglia che non avrebbe potuto essere maggiormente cristiana, Teresa ha ben chiara in mente tutta una dottrina religiosa. Ma ciò che ben presto la distinguerà dai comuni mortali è che per lei la fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo, e nemmeno un convincimento. È una storia d’amore. E decide di viverla ogni giorno, come solo lei può viverla, nel suo paesaggio tipicamente normanno, nella sua famiglia, nella sua cameretta di adolescente, poi nel suo chiostro. Non perde tempo a inseguire chimere. La santità, la lotta del bene contro il male, gli stendardi strappati al nemico con le forze dell’amore non sono né una fiaba né una bella storia del tempo andato. Ai suoi occhi, tutto questo si coniuga al presente, nella vita concreta, anche in quella più umile, anche in quella più nascosta. Sarà il genio di Teresa provare che questa «gloriosa guerra» del combattimento spirituale è alla portata di chiunque. Che questa storia d’amore non è riservata a lei. Con l’esempio della sua via rivelerà che ciascuno può essere a sua volta, ovunque si trovi, un grande santo. Come che si vedono sulle vetrate delle cattedrali. «Sì, mi pare di non aver mai cercato che la verità», sussurrerà ventiquattr’ore prima di morire. Il suo combattimento spirituale ha dunque una portata universale, anche se prende l’umanità di contropelo: proclama che «non si può fare alcun bene quando si cerca sé stessi». Stop al narcisismo, ai calcoli meschini e alle coscienze assonnate, ecco Teresa proclamare cos’è l’amore: «Amare è dare tutto e donar sé stessi». Vorrebbe darne notizia al mondo intero. Per farlo capire bene, ha scavato fino in fondo nel senso del dono radicale di sé. La meditazione sulla morte e la risurrezione di Gesù le ha mostrato la via di un simile amore, a prima vista impraticabile: bisogna morire per vivere. Perché «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna». Se noi conosciamo così bene le scoperte spirituali di Teresa, è perché lei stessa intraprese a scrivere la sua autobiografia all’età di ventidue anni. Si potrebbe giudicare l’impresa precoce o pretenziosa. Errore. Per prima cosa, era tubercolotica e sentiva la sua fine ormai prossima. In secondo luogo, era una religiosa e doveva obbedienza alla sua madre superiora, la quale aveva espressamente domandato di mettere per iscritto la testimonianza della sua vita, di cui presentiva l’eccezionale densità spirituale. Occorre comunque ammettere che c’è un problema. Tutti i libri di spiritualità parlano dell’umiltà come di un preliminare all’amore, dunque alla santità. Ora, nei quaderni che hanno per scopo raccontare la storia della sua anima, Teresa dice di essere «nata per la gloria». Quella gloria che circonfonde di aureola geni, presidenti, dive e ricchi sfondati? Ma questi sono degli stati ancora troppo bassi per l’ambiziosa Teresa. Sta scritto nel Vangelo che «ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole». E Teresa, che cerca la vera gloria, ne parla direttamente con il creatore del cielo e della terra, il quale afferma: « L’orgoglio dell’uomo ne provoca l’umiliaquelli zione, l’umile di cuore ottiene onori». Alla fine del XIX secolo, il secolo borghese, Teresa Martin si lascia penetrare dall’antica sapienza ebraica che pervade tutto il cristianesimo; da quei paradossi che un versetto dopo l’altro vorrebbero cambiare il cuore dell’uomo, e lavargli lo sguardo. Da qui, la grande scoperta della sua vita: «Pensai che ero nata per la gloria, e mentre cercavo il mezzo per giungervi, il Buon Dio [...] mi fece capire anche che la mia gloria non sarebbe apparsa agli occhi mortali, che consisteva nel divenire una grande Santa!!!». La sua gloria sarà la santità, che è un altro nome dell’amore. «Non voglio essere una santa a metà, non mi fa paura soffrire per te», dirà a Gesù. Perché, a causa della ferita del peccato che aggredisce senza tregua l’amore, non si perviene alla gloria senza passare per il fuoco, ossia senza vincere per prima cosa l’amor proprio. «Non crediamo di poter amare senza soffrire, senza soffrire molto». Sarà questa la guerra di Teresa. Per chi si sia accostato a lei, che Teresa sia una guerriera è insomma un’evidenza. L’oggetto di questo elogio è contrastare gli increduli. Non tradiremo le candele accese da mia nonna, né la statua sulle mensole dei bistrot. Molti scrittori e predicatori nei decenni scorsi hanno voluto “rompere la statua” per portare alla luce la vera Teresa. Che sia stato necessario colpire... perché no? I luoghi comuni sono lenti da erodere. Ma non si spiana una montagna a martellate. E Teresa è sempre lì, nelle nicchie delle cappelle, in mezzo alle bottiglie di Calvados, avvolta in una tunica bianca e sotto un velo nero, con il suo sorriso triste e una croce che non mette paura. Oggi il lirismo polveroso del suo linguaggio XIX secolo non incontra il gusto dei più. Continuano a venerarla delle vecchiette sempre meno numerose. I dileggiatori (anche loro in decrescita) continuano a prenderla per una stupidotta. La maggior parte la ignorano. Eppure lei c’è sempre. E, a ripensarci, la statua non è forse poi così brutta. Bisognerebbe provare a darle una rinfrescata. Il sangue delle rose ne uscirebbe più rosso.
SULLA FIDUCIA NELL’AMORE MISERICORDIOSO DI DIO
IN OCCASIONE DEL 150º ANNIVERSARIO
DELLA NASCITA DI
SANTA TERESA DI GESÙ BAMBINO E DEL VOLTO SANTO
Papa Francesco
1. «C’est la confiance et rien que la confiance qui doit nous conduire à l’Amour»: «È la fiducia e null’altro che la fiducia che deve condurci all’Amore!».[1]
2. Queste parole così incisive di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo dicono tutto, sintetizzano il genio della sua spiritualità e sarebbero sufficienti per giustificare il fatto che sia stata dichiarata Dottore della Chiesa. Soltanto la fiducia, “null’altro”, non c’è un’altra via da percorrere per essere condotti all’Amore che tutto dona. Con la fiducia, la sorgente della grazia trabocca nella nostra vita, il Vangelo si fa carne in noi e ci trasforma in canali di misericordia per i fratelli.
3. È la fiducia che ci sostiene ogni giorno e che ci manterrà in piedi davanti allo sguardo del Signore quando Egli ci chiamerà accanto a sé: «Alla sera di questa vita, comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Ogni nostra giustizia è imperfetta ai tuoi occhi. Voglio dunque rivestirmi della tua propria Giustizia e ricevere dal tuo Amore il possesso eterno di Te stesso».[2]
4. Teresina è una delle sante più conosciute e amate in tutto il mondo. Come succede con San Francesco di Assisi, è amata perfino da non cristiani e non credenti. È stata anche riconosciuta dall’UNESCO tra le figure più significative per l’umanità contemporanea.[3] Ci farà bene approfondire il suo messaggio commemorando il 150º anniversario della sua nascita, avvenuta ad Alençon il 2 gennaio 1873, e il centenario della sua beatificazione.[4] Ma non ho voluto pubblicare questa Esortazione in una di tali date, o nel giorno della sua memoria, perché il messaggio vada al di là delle ricorrenze e sia assunto come parte del tesoro spirituale della Chiesa. La data della pubblicazione, memoria di Santa Teresa d’Avila, vuole presentare Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo come frutto maturo della riforma del Carmelo e della spiritualità della grande Santa spagnola.
5. La sua vita terrena fu breve, appena ventiquattro anni, e semplice come qualunque altra, trascorsa prima in famiglia e poi nel Carmelo di Lisieux. La straordinaria carica di luce e di amore irradiata dalla sua persona si manifestò immediatamente dopo la sua morte, con la pubblicazione dei suoi scritti e con le innumerevoli grazie ottenute dai fedeli che la invocavano.
6. La Chiesa ha riconosciuto rapidamente il valore straordinario della sua testimonianza e l’originalità della sua spiritualità evangelica. Teresa incontrò Papa Leone XIII in occasione del pellegrinaggio a Roma nel 1887 e gli chiese il permesso di entrare nel Carmelo all’età di quindici anni. Poco dopo la sua morte, San Pio X si rese conto della sua enorme statura spirituale, tanto da affermare che sarebbe diventata la più grande Santa dei tempi moderni. Dichiarata venerabile nel 1921 da Benedetto XV, che elogiò le sue virtù focalizzandole nella “piccola via” dell’infanzia spirituale,[5] fu beatificata cent’anni or sono e poi canonizzata il 17 maggio 1925 da Pio XI, il quale ringraziò il Signore per avergli permesso che Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo fosse «la prima beata da lui elevata agli onori degli altari e la prima santa da lui canonizzata»[6]. Lo stesso Papa la dichiarò patrona delle missioni nel 1927.[7] Fu annoverata tra le patrone di Francia nel 1944 dal Venerabile Pio XII,[8] che in diverse occasioni approfondì il tema dell’infanzia spirituale.[9] San Paolo VI amava ricordare il proprio battesimo ricevuto il 30 settembre 1897, giorno della morte di Santa Teresina, nel cui centenario della nascita indirizzò al Vescovo di Bayeux e Lisieux uno scritto circa la sua dottrina.[10] Durante il suo primo viaggio apostolico in Francia, nel giugno 1980, San Giovanni Paolo II si recò alla basilica a lei dedicata, e nel 1997 la dichiarò Dottore della Chiesa,[11] annoverandola poi «come esperta della scientia amoris».[12] Benedetto XVI ha ripreso il tema della sua “scienza dell’amore”, proponendola come «una guida per tutti, soprattutto per coloro che, nel Popolo di Dio, svolgono il ministero di teologi».[13] Infine, ho avuto la gioia di canonizzare i suoi genitori Luigi e Zelia, nel 2015, durante il Sinodo sulla famiglia, e recentemente ho dedicato a lei una catechesi nella serie sullo zelo apostolico.[14]
1. Gesù per gli altri
7. Nel nome che ella scelse come religiosa risalta Gesù: il “Bambino” che manifesta il mistero dell’Incarnazione e il “Volto Santo”, cioè il volto di Cristo che si dona fino alla fine sulla Croce. Lei è “Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo”.
8. Il Nome di Gesù è continuamente “respirato” da Teresa come atto di amore, fino all’ultimo soffio. Aveva anche inciso queste parole nella sua cella: “Gesù è il mio unico amore”. Era la sua interpretazione dell’affermazione culminante del Nuovo Testamento: «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16).
Anima missionaria
9. Come succede in ogni incontro autentico con Cristo, questa esperienza di fede la chiamava alla missione. Teresa ha potuto definire la sua missione con queste parole: «In Cielo desidererò la stessa cosa che in terra: amare Gesù e farlo amare».[15] Ha scritto che era entrata nel Carmelo «per salvare le anime».[16] Vale a dire che non concepiva la sua consacrazione a Dio senza la ricerca del bene dei fratelli. Lei condivideva l’amore misericordioso del Padre per il figlio peccatore e quello del Buon Pastore per le pecore perdute, lontane, ferite. Per questo è patrona delle missioni, maestra di evangelizzazione.
10. Le ultime pagine della Storia di un’anima[17] sono un testamento missionario, esprimono il suo modo di intendere l’evangelizzazione per attrazione,[18] non per pressione o proselitismo. Vale la pena leggere come lo sintetizza lei stessa: «“Attirami, noi correremo all’effluvio dei tuoi profumi”. O Gesù, dunque non è nemmeno necessario dire: Attirando me, attira le anime che amo. Questa semplice parola: “Attirami” basta. Signore, lo capisco, quando un’anima si è lasciata avvincere dall’odore inebriante dei tuoi profumi, non potrebbe correre da sola, tutte le anime che ama vengono trascinate dietro di lei: questo avviene senza costrizione, senza sforzo, è una conseguenza naturale della sua attrazione verso di te. Come un torrente che si getta impetuoso nell’oceano trascina dietro di sé tutto ciò che ha incontrato al suo passaggio, così, o mio Gesù, l’anima che si immerge nell’oceano senza sponde del tuo amore attira con sé tutti i tesori che possiede… Signore, tu lo sai, io non ho altri tesori se non le anime che ti è piaciuto unire alla mia».[19]
11. Qui lei cita le parole che la sposa rivolge allo sposo nel Cantico dei Cantici (1,3-4), secondo l’interpretazione approfondita dai due Dottori del Carmelo, Santa Teresa di Gesù e San Giovanni della Croce. Lo Sposo è Gesù, il Figlio di Dio che si è unito alla nostra umanità nell’Incarnazione e l’ha redenta sulla Croce. Lì, dal suo costato aperto, ha dato alla luce la Chiesa, sua amata Sposa, per la quale ha donato la vita (cfr Ef 5,25). Ciò che colpisce è come Teresina, consapevole di essere vicina alla morte, non viva questo mistero rinchiusa in sé stessa, solo in senso consolatorio, ma con un fervente spirito apostolico.
La grazia che ci libera dall’autoreferenzialità
12. Qualcosa di simile accade quando si riferisce all’azione dello Spirito Santo, che acquista immediatamente un senso missionario: «Ecco la mia preghiera: chiedo a Gesù di attirarmi nelle fiamme del suo amore, di unirmi così strettamente a Lui, che Egli viva ed agisca in me. Sento che quanto più il fuoco dell’amore infiammerà il mio cuore, quanto più dirò: Attirami, tanto più le anime che si avvicineranno a me (povero piccolo rottame di ferro inutile, se mi allontanassi dal braciere divino) correranno rapidamente all’effluvio dei profumi del loro Amato, perché un’anima infiammata di amore non può restare inattiva».[20]
13. Nel cuore di Teresina, la grazia del battesimo è diventata un torrente impetuoso che sfocia nell’oceano dell’amore di Cristo, trascinando con sé una moltitudine di sorelle e fratelli, ciò che è avvenuto specialmente dopo la sua morte. È stata la sua promessa «pioggia di rose». [21]
2. La piccola via della fiducia e dell’amore
14. Una delle scoperte più importanti di Teresina, per il bene di tutto il Popolo di Dio, è la sua “piccola via”, la via della fiducia e dell’amore, conosciuta anche come la via dell’infanzia spirituale. Tutti possono seguirla, in qualunque stato di vita, in ogni momento dell’esistenza. È la via che il Padre celeste rivela ai piccoli (cfr Mt 11,25).
15. Teresina racconta la scoperta della piccola via nella Storia di un’anima[22]: «Nonostante la mia piccolezza, posso aspirare alla santità. Farmi diversa da quel che sono, più grande, mi è impossibile: mi devo sopportare per quello che sono con tutte le mie imperfezioni; ma voglio cercare il modo di andare in Cielo per una piccola via bella dritta, molto corta, una piccola via tutta nuova».[23]
16. Per descriverla, usa l’immagine dell’ascensore: «L’ascensore che mi deve innalzare fino al Cielo sono le tue braccia, o Gesù! Per questo non ho bisogno di crescere, anzi bisogna che io resti piccola, che lo diventi sempre di più».[24] Piccola, incapace di fidarsi di sé stessa, anche se fermamente sicura della forza amorosa delle braccia del Signore.
17. È la “dolce via dell’Amore”,[25] aperta da Gesù ai piccoli e ai poveri, a tutti. È la via della vera gioia. Di fronte a un’idea pelagiana di santità,[26] individualista ed elitaria, più ascetica che mistica, che pone l’accento principalmente sullo sforzo umano, Teresina sottolinea sempre il primato dell’azione di Dio, della sua grazia. Così arriva a dire: «Sento sempre la stessa audace fiducia di diventare una grande Santa, perché non faccio affidamento sui miei meriti, visto che non ne ho nessuno, ma spero in Colui che è la Virtù, la Santità stessa: è Lui solo che, accontentandosi dei miei deboli sforzi, mi eleverà fino a Lui e, coprendomi dei suoi meriti infiniti, mi farà Santa».[27]
Al di là di ogni merito
18. Questo modo di pensare non contrasta con il tradizionale insegnamento cattolico circa la crescita della grazia, cioè che, giustificati gratuitamente dalla grazia santificante, siamo trasformati e resi capaci di cooperare con le nostre buone opere in un cammino di crescita nella santità. In tal modo veniamo elevati, così da poter aver reali meriti in ordine allo sviluppo della grazia ricevuta.
19. Teresina tuttavia preferisce mettere in risalto il primato dell’azione divina e invitare alla fiducia piena guardando l’amore di Cristo donatoci fino alla fine. In fondo, il suo insegnamento è che, dal momento che non possiamo avere alcuna certezza guardando a noi stessi,[28] nemmeno possiamo esser certi di possedere meriti propri. Pertanto non è possibile confidare in questi sforzi o adempimenti. Il Catechismo ha voluto citare le parole di Santa Teresina quando dice al Signore: «Comparirò davanti a te con le mani vuote»,[29] per esprimere che «i santi hanno sempre avuto una viva consapevolezza che i loro meriti erano pura grazia».[30] Questa convinzione suscita una gioiosa e tenera gratitudine.
20. Quindi, l’atteggiamento più adeguato è riporre la fiducia del cuore fuori di noi stessi: nell’infinita misericordia di un Dio che ama senza limiti e che ha dato tutto nella Croce di Gesù.[31] Per questa ragione Teresa mai usa l’espressione, frequente al suo tempo, “mi farò santa”.
21. Tuttavia, la sua fiducia senza limiti incoraggia coloro che si sentono fragili, limitati, peccatori, a lasciarsi portare e trasformare per arrivare in alto: «Ah, se tutte le anime deboli e imperfette sentissero ciò che sente la più piccola tra tutte le anime, l’anima della sua piccola Teresa, non una sola di esse dispererebbe di giungere in cima alla montagna dell’amore! Infatti Gesù non chiede grandi azioni, ma soltanto l’abbandono e la riconoscenza»[32].
22. Questa stessa insistenza di Teresina sull’iniziativa divina fa sì che, quando parla dell’Eucaristia, non ponga in primo piano il suo desiderio di ricevere Gesù nella santa Comunione, ma il desiderio di Gesù che vuole unirsi a noi e abitare nei nostri cuori.[33] Nell’Offerta all’Amore Misericordioso, soffrendo per non potere ricevere la Comunione tutti giorni, dice a Gesù: «Resta in me, come nel tabernacolo»[34]. Il centro e l’oggetto del suo sguardo non è lei stessa con i suoi bisogni, ma Cristo che ama, che cerca, che desidera, che dimora nell’anima.
L’abbandono quotidiano
23. La fiducia che Teresina promuove non va intesa soltanto in riferimento alla propria santificazione e salvezza. Ha un senso integrale, che abbraccia l’insieme dell’esistenza concreta e si applica a tutta la nostra vita, dove molte volte ci sopraffanno le paure, il desiderio di sicurezze umane, il bisogno di avere tutto sotto controllo. È qui che compare l’invito al santo “abbandono”.
24. La fiducia piena, che diventa abbandono all’Amore, ci libera dai calcoli ossessivi, dalla costante preoccupazione per il futuro, dai timori che tolgono la pace. Nei suoi ultimi giorni Teresina insisteva su questo: «Noi, che corriamo nella via dell’Amore, trovo che non dobbiamo pensare a ciò che ci può capitare di doloroso nell’avvenire, perché allora è mancare di fiducia».[35] Se siamo nelle mani di un Padre che ci ama senza limiti, questo sarà vero qualunque circostanza accada, potremo andare avanti qualsiasi cosa succeda e, in un modo o nell’altro, si compirà nella nostra vita il suo progetto di amore e di pienezza.
Un fuoco in mezzo alla notte
25. Teresina viveva la fede più forte e sicura nel buio della notte e addirittura nell’oscurità del Calvario. La sua testimonianza ha raggiunto il punto culminante nell’ultimo periodo della vita, nella grande «prova contro la fede»,[36] che cominciò nella Pasqua del 1896. Nel suo racconto,[37] ella pone questa prova in relazione diretta con la dolorosa realtà dell’ateismo del suo tempo. È vissuta infatti alla fine del XIX secolo, cioè nell’“età d’oro” dell’ateismo moderno, come sistema filosofico e ideologico. Quando scriveva che Gesù aveva permesso che la sua anima «fosse invasa dalle tenebre più fitte»,[38] stava a indicare l’oscurità dell’ateismo e il rifiuto della fede cristiana. In unione con Gesù, che accolse in sé tutta l’oscurità del peccato del mondo quando accettò di bere il calice della Passione, Teresina coglie in quel buio tenebroso la disperazione, il vuoto del nulla.[39]
26. Ma l’oscurità non può estinguere la luce: ella è stata conquistata da Colui che come luce è venuto nel mondo (cfr Gv 12,46).[40] Il racconto di Teresina manifesta il carattere eroico della sua fede, la sua vittoria nel combattimento spirituale, di fronte alle tentazioni più forti. Si sente sorella degli atei e seduta, come Gesù, alla mensa con i peccatori (cfr Mt 9,10-13). Intercede per loro, mentre rinnova continuamente il suo atto di fede, sempre in comunione amorosa con il Signore: «Corro verso il mio Gesù, gli dico che sono pronta a versare fino all’ultima goccia il mio sangue per testimoniare che esiste un Cielo. Gli dico che sono felice di non godere quel bel Cielo sulla terra, affinché Egli lo apra per l’eternità ai poveri increduli».[41]
27. Insieme alla fede, Teresa vive intensamente una fiducia illimitata nell’infinita misericordia di Dio: «La fiducia che deve condurci all’Amore».[42] Vive, anche nell’oscurità, la fiducia totale del bambino che si abbandona senza paura tra le braccia del padre e della madre. Per Teresina, infatti, Dio risplende prima di tutto attraverso la sua misericordia, chiave di comprensione di qualunque altra cosa che si dica di Lui: «A me Egli ha donato la sua Misericordia infinita ed è attraverso essa che contemplo e adoro le altre perfezioni Divine! Allora tutte mi appaiono raggianti d’amore, perfino la Giustizia (e forse anche più di ogni altra) mi sembra rivestita d’amore».[43] Questa è una delle scoperte più importanti di Teresina, uno dei più grandi contributi che ha offerto a tutto il Popolo di Dio. In modo straordinario ha penetrato le profondità della misericordia divina e di là ha attinto la luce della sua illimitata speranza.
Una fermissima speranza
28. Prima del suo ingresso nel Carmelo, Teresina aveva sperimentato una singolare vicinanza spirituale a una persona tra le più sventurate, il criminale Henri Pranzini, condannato a morte per triplice omicidio e non pentito.[44] Offrendo la Messa per lui e pregando con totale fiducia per la sua salvezza, è sicura di metterlo in contatto con il Sangue di Gesù e dice a Dio di essere sicurissima che nel momento finale Lui lo avrebbe perdonato e che lei ci avrebbe creduto «anche se non si fosse confessato e non avesse dato alcun segno di pentimento». Dà la ragione della sua certezza: «Tanto avevo fiducia nella misericordia infinita di Gesù».[45] Quale emozione, poi, nello scoprire che Pranzini, salito sul patibolo, «a un tratto, colto da una ispirazione improvvisa, si volta, afferra un Crocifisso che il sacerdote gli presenta e bacia per tre volte le sante piaghe!».[46] Questa esperienza così intensa di sperare contro ogni speranza è stata per lei fondamentale: «Ah, dopo quella grazia unica, il mio desiderio di salvare le anime crebbe ogni giorno!».[47]
29. Teresa è consapevole del dramma del peccato, benché la vediamo sempre immersa nel mistero di Cristo, con la certezza che «laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20). Il peccato del mondo è immenso, ma non è infinito. Invece, l’amore misericordioso del Redentore, questo sì, è infinito. Teresina è testimone della vittoria definitiva di Gesù su tutte le forze del male attraverso la sua passione, morte e risurrezione. Mossa dalla fiducia, osa affermare: «Gesù, fa’ che io salvi molte anime: che oggi non ce ne sia una sola dannata! […] Gesù, perdonami se dico cose che non bisogna dire: io voglio solo rallegrarti e consolarti».[48] Questo ci permette di passare a un altro aspetto di quell’aria fresca che è il messaggio di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo.
3. Sarò l’amore
30. “Più grande” della fede e della speranza, la carità non avrà mai fine (cfr 1 Cor 13,8-13). È il più grande dono dello Spirito Santo ed è «madre e radice di ogni virtù».[49]
La carità come atteggiamento personale d’amore
31. La Storia di un’anima è una testimonianza di carità, in cui Teresina ci offre un commentario circa il comandamento nuovo di Gesù: «Che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12).[50] Gesù ha sete di questa risposta al suo amore. Infatti, «non ha esitato a mendicare un po’ d’acqua dalla Samaritana. Aveva sete… Ma dicendo: “dammi da bere” era l’amore della sua povera creatura che il Creatore dell’universo invocava. Aveva sete d’amore!»[51]. Teresina vuole corrispondere all’amore di Gesù, rendergli amore per amore.[52]
32. La simbologia dell’amore sponsale esprime la reciprocità del dono di sé tra lo sposo e la sposa. Così, ispirata dal Cantico dei Cantici (2,16), scrive: «Penso che il cuore del mio sposo è solo mio, così come il mio appartiene solo a lui, e allora nella solitudine gli parlo di questo delizioso cuore a cuore, aspettando di contemplarlo un giorno a faccia a faccia!».[53] Benché il Signore ci ami insieme come Popolo, allo stesso tempo la carità agisce in modo personalissimo, “da cuore a cuore”.
33. Teresina ha la viva certezza che Gesù l’ha amata e conosciuta personalmente nella sua Passione: «Mi ha amato e ha dato sé stesso per me» (Gal 2,20). Contemplando Gesù nella sua agonia, lei gli dice: «Tu m’hai vista sempre».[54] Allo stesso modo dice a Gesù Bambino tra le braccia di sua Madre: «Con la tua mano carezzando Maria, tu reggevi il mondo e gli davi vita. E a me già pensavi».[55] Così, anche all’inizio della Storia di un’anima, ella contempla l’amore di Gesù per tutti e per ognuno come se fosse unico al mondo. [56]
34. L’atto di amore “Gesù, ti amo”, continuamente vissuto da Teresa come il respiro, è la sua chiave di lettura del Vangelo. Con questo amore s’immerge in tutti i misteri della vita di Cristo, dei quali si fa contemporanea, abitando il Vangelo insieme a Maria e Giuseppe, Maria di Magdala e gli Apostoli. Insieme a loro penetra le profondità dell’amore del Cuore di Gesù. Vediamo un esempio: «Quando vedo Maddalena avanzare in mezzo ai numerosi convitati, bagnare con le sue lacrime i piedi del suo Maestro adorato, che lei tocca per la prima volta, sento che il suo cuore ha compreso gli abissi d’amore e di misericordia del Cuore di Gesù e che, per quanto peccatrice sia, questo Cuore d’amore non solo è disposto a perdonarla, ma anche a prodigarle i benefici della sua intimità divina, ad elevarla fino alle più alte cime della contemplazione».[57]
L’amore più grande nella più grande semplicità
35. Alla fine della Storia di un’anima, Teresina ci regala la sua Offerta come Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso.[58] Quando lei si è consegnata pienamente all’azione dello Spirito ha ricevuto, senza clamori né segni vistosi, la sovrabbondanza dell’acqua viva: «I fiumi o meglio gli oceani di grazie che sono venuti a inondare la mia anima».[59] È la vita mistica che, anche priva di fenomeni straordinari, si propone a tutti i fedeli come esperienza quotidiana di amore.
36. Teresina vive la carità nella piccolezza, nelle cose più semplici dell’esistenza di ogni giorno, e lo fa in compagnia della Vergine Maria, imparando da lei che «amare è dare tutto e donar se stessi».[60] Infatti, mentre i predicatori del suo tempo parlavano spesso della grandezza di Maria in maniera trionfalistica, come lontana da noi, Teresina mostra, a partire dal Vangelo, che Maria è la più grande del Regno dei Cieli perché è la più piccola (cfr Mt 18,4), la più vicina a Gesù nella sua umiliazione. Lei vede che, se i racconti apocrifi sono pieni di episodi appariscenti e meravigliosi, i Vangeli ci mostrano una vita umile e povera, trascorsa nella semplicità della fede. Gesù stesso vuole che Maria sia l’esempio dell’anima che lo cerca con una fede spoglia.[61] Maria è stata la prima a vivere la “piccola via” in pura fede e umiltà; così che Teresa non esita a scrivere:
«So che a Nazareth, Madre di grazia piena,
povera tu eri e nulla più volevi:
non miracoli o estasi o rapimenti
t’adornan la vita, Regina dei Santi!
In terra è grande il numero dei piccoli
che guardarti possono senza tremare.
La via comune, Madre incomparabile,
percorrere tu vuoi e guidarli al Cielo».[62]
37. Teresina ci ha offerto anche racconti che testimoniano alcuni momenti di grazia vissuti in mezzo alla semplicità di ogni giorno, come la sua repentina ispirazione mentre accompagnava una suora malata con un temperamento difficile. Ma sempre si tratta di esperienze di una carità più intensa vissuta nelle situazioni più ordinarie: «Una sera d’inverno compivo come al solito il mio piccolo servizio, faceva freddo, era buio… A un tratto udii in lontananza il suono armonioso di uno strumento musicale: allora mi immaginai un salone ben illuminato tutto splendente di ori, ragazze elegantemente vestite che si facevano a vicenda complimenti e convenevoli mondani; poi il mio sguardo cadde sulla povera malata che sostenevo; invece di una melodia udivo ogni tanto i suoi gemiti lamentosi, invece degli ori, vedevo i mattoni del nostro chiostro austero, rischiarato a malapena da una debole luce. Non posso esprimere ciò che accadde nella mia anima, quello che so è che il Signore la illuminò con i raggi della verità che superano altamente lo splendore tenebroso delle feste della terra, che non potevo credere alla mia felicità… Ah, per godere mille anni di feste mondane, non avrei dato i dieci minuti impiegati a compiere il mio umile ufficio di carità».[63]
Nel cuore della Chiesa
38. Teresina ha ereditato da Santa Teresa d’Avila un grande amore per la Chiesa ed è potuta arrivare alla profondità di questo mistero. Lo vediamo nella sua scoperta del “cuore della Chiesa”. In una lunga preghiera a Gesù,[64] scritta l’8 settembre 1896, sesto anniversario della sua professione religiosa, la Santa confida al Signore che si sentiva animata da un immenso desiderio, da una passione per il Vangelo che nessuna vocazione da sola poteva soddisfare. E così, cercando il suo “posto” nella Chiesa, aveva riletto i capitoli 12 e 13 della Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi.
39. Nel capitolo 12 l’Apostolo utilizza la metafora del corpo e delle sue membra per spiegare che la Chiesa porta in sé una gran varietà di carismi composti secondo un ordine gerarchico. Ma questa descrizione non è sufficiente per Teresina. Ella prosegue la sua indagine, legge l’“inno alla carità” del capitolo 13, là trova la grande risposta e scrive questa pagina memorabile: «Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ero riconosciuta in nessuno dei membri descritti da San Paolo: o meglio, volevo riconoscermi in tutti!... La Carità mi diede la chiave della mia vocazione. Capii che se la Chiesa aveva un corpo, composto da diverse membra, il più necessario, il più nobile di tutti non le mancava: capii che la Chiesa aveva un Cuore, e che questo Cuore era acceso d’Amore. Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa: che se l’Amore si dovesse spegnere, gli Apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i Martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue… Capii che l’Amore racchiudeva tutte le Vocazioni, che l’Amore era tutto, che abbracciava tutti i tempi e tutti i luoghi!… Insomma che è Eterno!… Allora, nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore…, la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore!… Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa e questo posto, o mio Dio, sei tu che me l’hai dato: nel Cuore della Chiesa, mia Madre, sarò l’Amore!… Così sarò tutto… Così il mio sogno sarà realizzato!!!».[65]
40. Non è il cuore di una Chiesa trionfalistica, è il cuore di una Chiesa amante, umile e misericordiosa. Teresina mai si mette al di sopra degli altri, ma all’ultimo posto con il Figlio di Dio, che per noi è diventato servo e si è umiliato, facendosi obbediente fino alla morte su una croce (cfr Fil 2,7-8).
41. Tale scoperta del cuore della Chiesa è una grande luce anche per noi oggi, per non scandalizzarci a causa dei limiti e delle debolezze dell’istituzione ecclesiastica, segnata da oscurità e peccati, ed entrare nel suo cuore ardente d’amore, che si è incendiato nella Pentecoste grazie al dono dello Spirito Santo. È il cuore il cui fuoco si ravviva ancora con ogni nostro atto di carità. “Io sarò l’amore”: questa è l’opzione radicale di Teresina, la sua sintesi definitiva, la sua identità spirituale più personale.
Pioggia di rose
42. Dopo molti secoli in cui schiere di santi hanno espresso con tanto fervore e bellezza le loro aspirazioni ad “andare in cielo”, Santa Teresina riconosce, con grande sincerità: «Allora avevo grandi prove interiori di ogni genere (fino a chiedermi talvolta se c’era un Cielo)».[66] In un altro momento dice: «Quando canto la felicità del Cielo, il possesso eterno di Dio, non provo alcuna gioia, perché canto semplicemente ciò che voglio credere».[67] Cosa è successo? Che lei stava ascoltando la chiamata di Dio a mettere fuoco nel cuore della Chiesa più di quanto sognasse la propria felicità.
43. La trasformazione che avvenne in lei le permise di passare da un fervido desiderio del Cielo a un costante e ardente desiderio del bene di tutti, culminante nel sogno di continuare in Cielo la sua missione di amare Gesù e di farlo amare. In questo senso, in una delle ultime lettere scrisse: «Conto proprio di non restare inattiva in Cielo: il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime».[68] E in quegli stessi giorni, in modo più diretto, disse: «Il mio Cielo trascorrerà sulla terra sino alla fine del mondo. Sì, voglio passare il mio Cielo a fare del bene sulla terra».[69]
44. Così Teresina esprimeva la sua risposta più convinta al dono unico che il Signore le stava regalando, alla luce sorprendente che Dio stava riversando in lei. In tal modo giungeva all’ultima sintesi personale del Vangelo, che partiva dalla piena fiducia per culminare nel dono totale agli altri. Ella non dubitava della fecondità di questa dedizione: «Penso a tutto il bene che potrò fare dopo la mia morte».[70] «Il buon Dio non mi darebbe questo desiderio di fare del bene sulla terra dopo la morte, se non volesse realizzarlo».[71] «Sarà come una pioggia di rose».[72]
45. Si chiude il cerchio. «C’est la confiance». È la fiducia che ci conduce all’Amore e così ci libera dal timore, è la fiducia che ci aiuta a togliere lo sguardo da noi stessi, è la fiducia che permette di porre nelle mani di Dio ciò che soltanto Lui può fare. Questo ci lascia un immenso torrente d’amore e di energie disponibili per cercare il bene dei fratelli. E così, in mezzo alla sofferenza dei suoi ultimi giorni, Teresa poteva dire: «Non conto più che sull’amore».[73] Alla fine conta soltanto l’amore. La fiducia fa sbocciare le rose e le sparge come un traboccare della sovrabbondanza dell’amore divino. Chiediamola come dono gratuito, come regalo prezioso della grazia, perché si aprano nella nostra vita le vie del Vangelo.
4. Nel cuore del Vangelo
46. Nella Evangelii gaudium ho insistito sull’invito a ritornare alla freschezza della sorgente, per porre l’accento su ciò che è essenziale e indispensabile. Ritengo opportuno riprendere e proporre nuovamente quell’invito.
Il Dottore della sintesi
47. Questa Esortazione su Santa Teresina mi consente di ricordare che in una Chiesa missionaria «l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa».[74] Il nucleo luminoso è «la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto».[75]
48. Non tutto è ugualmente centrale, perché c’è un ordine o gerarchia tra le verità della Chiesa, e «questo vale tanto per i dogmi di fede quanto per l’insieme degli insegnamenti della Chiesa, ivi compreso l’insegnamento morale».[76] Il centro della morale cristiana è la carità, che è la risposta all’amore incondizionato della Trinità, per cui «le opere di amore al prossimo sono la manifestazione esterna più perfetta della grazia interiore dello Spirito».[77] Alla fine conta solo l’amore.
49. Precisamente, il contributo specifico che Teresina ci regala come Santa e come Dottore della Chiesa non è analitico, come potrebbe essere, per esempio, quello di San Tommaso d’Aquino. Il suo contributo è piuttosto sintetico, perché il suo genio consiste nel portarci al centro, a ciò che è essenziale, a ciò che è indispensabile. Ella, con le sue parole e con il suo personale percorso, mostra che, benché tutti gli insegnamenti e le norme della Chiesa abbiano la loro importanza, il loro valore, la loro luce, alcuni sono più urgenti e più costitutivi per la vita cristiana. È lì che Teresa ha fissato lo sguardo e il cuore.
50. Come teologi, moralisti, studiosi di spiritualità, come pastori e come credenti, ciascuno nel proprio ambito, abbiamo ancora bisogno di recepire questa intuizione geniale di Teresina e di trarne le conseguenze teoriche e pratiche, dottrinali e pastorali, personali e comunitarie. Servono audacia e libertà interiore per poterlo fare.
51. Talvolta di questa Santa si citano soltanto espressioni che sono secondarie, o si menzionano temi che lei può avere in comune con qualunque altro santo: la preghiera, il sacrificio, la pietà eucaristica, e tante altre belle testimonianze, ma in questo modo potremmo privarci di ciò che vi è di più specifico nel dono da lei fatto alla Chiesa, dimenticando che «ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo».[78] Pertanto, «per riconoscere quale sia quella parola che il Signore vuole dire mediante un santo, non conviene soffermarsi sui particolari […]. Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita, il suo intero cammino di santificazione, quella figura che riflette qualcosa di Gesù Cristo e che emerge quando si riesce a comporre il senso della totalità della sua persona».[79] Questo vale a maggior ragione per Santa Teresina, essendo lei un “Dottore della sintesi”.
52. Dal cielo alla terra, l’attualità di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo rimane in tutta la sua “piccola grandezza”.
In un tempo che invita a chiudersi nei propri interessi, Teresina ci mostra la bellezza di fare della vita un dono.
In un momento nel quale prevalgono i bisogni più superficiali, lei è testimone della radicalità evangelica.
In un tempo di individualismo, lei ci fa scoprire il valore dell’amore che diventa intercessione.
In un momento nel quale l’essere umano è ossessionato dalla grandezza e da nuove forme di potere, lei indica la via della piccolezza.
In un tempo nel quale si scartano tanti esseri umani, lei ci insegna la bellezza della cura, di farsi carico dell’altro.
In un momento di complessità, lei può aiutarci a riscoprire la semplicità, il primato assoluto dell’amore, della fiducia e dell’abbandono, superando una logica legalista ed eticista che riempie la vita cristiana di obblighi e precetti e congela la gioia del Vangelo.
In un tempo di ripiegamenti e chiusure, Teresina ci invita all’uscita missionaria, conquistati dall’attrazione di Gesù Cristo e del Vangelo.
53. Un secolo e mezzo dopo la sua nascita, Teresina è più viva che mai in mezzo alla Chiesa in cammino, nel cuore del Popolo di Dio. Sta pellegrinando con noi, facendo il bene sulla terra, come ha tanto desiderato. Il segno più bello della sua vitalità spirituale sono le innumerevoli “rose” che va spargendo, cioè le grazie che Dio ci dona per la sua intercessione piena d’amore, per sostenerci nel percorso della vita.
Cara Santa Teresina,
la Chiesa ha bisogno di far risplendere
il colore, il profumo, la gioia del Vangelo.
Mandaci le tue rose!
Aiutaci ad avere fiducia sempre,
come hai fatto tu,
nel grande amore che Dio ha per noi,
perché possiamo imitare ogni giorno
la tua piccola via di santità.
Amen.
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 15 ottobre, memoria di Santa Teresa d’Avila, dell’anno 2023, undicesimo del mio Pontificato.
FRANCESCO
_________________________
[1] Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Opere Complete. Scritti e ultime parole, LT 197, A suor Maria del Sacro Cuore (17 settembre 1896), Roma 1997, 538.
Per la versione italiana degli scritti della Santa si fa sempre riferimento a tale edizione, che utilizza le seguenti sigle: Ms A: Manoscritto “A”; Ms B: Manoscritto “B”; Ms C: Manoscritto “C”; LT: Lettere; P: Poesie; Pr: Preghiere; PR: Pie Ricreazioni; QG: Quaderno giallo di Madre Agnese; UC: Ultimi Colloqui.
[2] Pr 6, Offerta di me stessa come Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso del Buon Dio (9 giugno 1895): 943.
[3] Per il biennio 2022-2023, l’UNESCO ha inserito Santa Teresa di Gesù Bambino tra le personalità da celebrare, in occasione del 150º anniversario della nascita.
[4] 29 aprile 1923.
[5] Cfr Decreto di Virtù, 14 agosto 1921: AAS 13 (1921), 449-452.
[6] Omelia per la canonizzazione (17 maggio 1925): AAS 17 (1925), 211. Testo italiano in Discorsi di Pio XI, a cura di D. Bertetto, vol. I, Torino 1959, 383-384.
[7] Cfr AAS 20 (1928), 147-148.
[8] Cfr AAS 36 (1944), 329-330.
[9] Cfr Lettera a Mons. François-Marie Picaud, Vescovo di Bayeux y Lisieux (7 agosto 1947). Testo francese in Analecta OCD 19 (1947), 168-171. Testo italiano nella traduzione di Rivista di Vita Spirituale 1 (1947), 444-448. Radiomessaggio per la consacrazione della Basilica di Lisieux (11 luglio 1954): AAS 46 (1954), 404-407.
[10] Cfr Lettera a Mons. Jean-Marie-Clément Badré, Vescovo di Bayeux y Lisieux, in occasione del centenario della nascita di Santa Teresa del Bambino Gesù (2 gennaio 1973): AAS 65 (1973), 12-15.
[11] Cfr AAS 90 (1998), 409-413, 930-944.
[12] Lett. ap. Novo millennio ineunte, 42: AAS 93 (2001), 296.
[13] Catechesi (6 aprile 2011): L’Osservatore Romano (7 aprile 2011), 8.
[14] Catechesi (7 giugno 2023): L’Osservatore Romano (7 giugno 2023), 2-3.
[15] LT 220, Al reverendo M. Bellière (24 febbraio 1897): 561.
[16] Ms A, 69vº: 187.
[17] Cfr Ms C, 33vº-37rº: 274-279.
[18] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 14; 264: AAS 105 (2013), 1025-1026.
[19] Ms C, 34rº: 275.
[20] Ibid., 36rº: 277-278.
[21] QG, 9 giugno 1897, 3: 991.
[22] Cfr Ms C, 2vº-3rº: 235-236.
[23] Ibid., 2vº: 235.
[24] Ibid., 3rº: 236.
[25] Cfr Ms A, 84vº: 210.
[26] Cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 47-62: AAS 110 (2018), 1124-1129.
[27] Ms A, 32rº: 124.
[28] Lo ha spiegato il Concilio di Trento: «Così ciascuno nel considerare se stesso, la propria debolezza e le cattive disposizioni, ha motivo di avere paura e di temere circa la propria grazia» (Decreto sulla giustificazione, IX: DS, 1534). Lo riprende il Catechismo della Chiesa Cattolica quando insegna che è impossibile avere certezza guardando a sé stessi o alle proprie azioni (cfr n. 2005). La certezza della fiducia non si trova in sé stessi, il proprio io non offre basi per questa sicurezza, che non si fonda sull’introspezione. In qualche modo lo esprimeva San Paolo: «Io neppure giudico me stesso, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore!» (1 Cor 4,3-4). San Tommaso d’Aquino lo spiegava nel modo seguente: visto che la grazia «non risana l’uomo totalmente» (Summa Theologiae, I-II, q. 109, art. 9, ad 1), «rimane una certa ombra d’ignoranza nell’intelletto» (ibid., co).
[29] Pr 6: 943.
[30] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2011.
[31] Lo afferma anche con chiarezza il Concilio di Trento: «Nessun uomo pio può dubitare della misericordia di Dio» (Decreto sulla giustificazione, IX: DS 1534). «Tutti debbano nutrire e riporre fiducia fermissima nell’aiuto di Dio» (Ibid., XIII: DS 1541).
[32] Ms B, 1vº: 218.
[33] Cfr Ms A, 48vº: 151; LT 92, A Maria Guérin (30 maggio 1889): 384-385.
[34] Pr 6: 941.
[35] QG, 23 luglio 1897, 3: 1032.
[36] Ms C, 31rº: 271.
[37] Cfr ibid., 5rº-7vº: 238-241.
[38] Ibid., 5vº: 239.
[39] Cfr ibid., 6vº: 240.
[40] Cfr Lett. enc. Lumen fidei (29 giugno 2013), 17: AAS 105 (2013), 564-565.
[41] Ms C, 7rº: 240-241.
[42] LT 197, A suor Maria del Sacro Cuore (17 settembre 1896): 538.
[43] Ms A, 83vº: 209.
[44] Cfr ibid., 45vº-46vº: 146-147.
[45] Ibid., 46rº: 146.
[46] Ibid., 46rº: 146-147.
[47] Ibid., 46vº: 147.
[48] Pr 2: 937.
[49] Summa Theologiae, I-II, q. 62, art. 4.
[50] Cfr Ms C, 11vº-31rº: 256-271.
[51] Ms B, 1vº: 218.
[52] Cfr ibid., 4rº: 224.
[53] LT 122, A Celina (14 ottobre 1890): 421.
[54] P 24, 21: 674.
[55] Ibid., 6: 670.
[56] Cfr Ms A, 3rº: 80-81.
[57] LT 247, Al reverendo M. Bellière (21 giugno 1897): 587.
[58] Cfr Pr 6: 941-943.
[59] Ms A, 84r: 210.
[60] P 54, 22: 726.
[61] Cfr ibid., 15: 725.
[62] Ibid., 17: 725.
[63] Ms C, 29vº-30rº: 269.
[64] Cfr Ms B, 2r°-5v°: 219-229.
[65] Ibid., 3vº: 223.
[66] Ms A, 80vº: 204. Non era una mancanza di fede. San Tommaso insegna che nella fede operano la volontà e l’intelligenza. L’adesione della volontà può essere molto solida e radicata, mentre l’intelligenza può essere oscurata. Cfr De Veritate 14, 1.
[67] Ms C, 7vº: 241.
[68] LT 254, A padre A. Roulland (14 luglio 1897): 593.
[69] QG, 17 luglio 1897: 1028.
[70] Ibid., 13 luglio 1897, 17: 1020.
[71] Ibid., 18 luglio 1897, 1: 1028.
[72] UC, 9 giugno 1897: 1158.
[73] LT 242, A suor Maria della Trinità (6 giugno 1897): 582.
[74] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 35: AAS 105 (2013), 1034.
[75] Ibid., 36: AAS 105 (2013), 1035.
[76] Ibid.
[77] Ibid., 37: AAS 105 (2013), 1035.
[78] Esort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 19: AAS 110 (2018), 1117.
[79] Ibid., 22: AAS 110 (2018), 1117.
[01566-IT.01] [Testo originale: Spagnolo]
"Rimasta monaca, educando le sue sorelle, attraverso il teatro e il canto, a esprimersi in bellezza santità e fede. Critiche e disagi non le sono mancati, tuttavia oggi è sorgente inesauribile di ispirazione per laici e consacrati.
Rimiro la donna medievale seduta nel giardino, vedo la sua mano tesa verso un uomo, mentre offre fiori del suo mondo diverso. Sì, mancano persone così: figure politiche, maschili e femminili, figure religiose capaci di produrre frutti costituiti da fatti, non parole. Persone dalle scelte coraggiose e contro corrente che tornino ai principi fondanti una vita umana degna di questo nome e una politica che offra al cittadino la garanzia di vita, sana nel corpo e nella mente. Così, come l'antico Giovenale, saggiamente consigliava di chiedere a Dio Orandum est ut sit mens sana in corpore sano."
Gloria Riva
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Ildegarda di Bingen profetessa della viriditas – Michela Pereira
Di Autrici di Civiltà
Il pensiero di Ildegarda, seppure molto lontano nei secoli, ci parla ancora oggi perché è un pensiero sapienziale, un pensiero che non si separa dalla vita, ma ne accompagna e ne riflette gli aspetti di trasformazione, collegando consapevolmente le esigenze cognitive della ragione e le dinamiche concrete del vivere e così producendo una conoscenza che ha il suo fulcro nella relazione dell’essere umano con il mondo in tutti i suoi aspetti materiali e spirituali. In Ildegarda questa sapienza si esprime nella modalità profetica, intendendo con profezia non la divinazione del futuro, ma la trasmissione di un messaggio simbolico che proviene da una realtà più grande dell’io.
Ildegarda ne rende intuitivamente comprensibile il significato presentandosi come “la piccola tromba” attraverso cui si esprime la parola divina.
Tema centrale di tutta l’opera ildegardiana è la reintegrazione dell’armonia originaria della creazione, che essa vede spezzata, secondo il mito biblico, dalla caduta dell’angelo ribelle e dai successivi tentativi di questi di rivalersi su Dio attraverso gli esseri umani, nel peccato originale e nelle successive manifestazioni del male nella storia. La reintegrazione avviene attraverso il riconoscimento della presenza divina in tutta la creazione, e questo riconoscimento – che porta a concepire una specie di ritorno alla condizione goduta nel giardino dell’Eden – si esprime in maniera pregnante nel termine viriditas.
La viriditas, qualità che immaginativamente rinvia proprio alla bellezza del paradiso perduto e che si manifesta per Ildegarda sia nell’ambito dei corpi che in quello spirituale, deriva dall’energia infuocata, ignea vis, attraverso cui la trinità divina opera nel creato, prerogativa speciale della terza persona, lo Spirito santo. La creazione, fin nelle sue minime espressioni è animata infatti dalla linfa vitale, che proviene dal fuoco della vita divina e nella creazione si esplica fino a compiersi nella vita divino-umana del Cristo incarnato.
Al momento della creazione dell’homo, dalla terra fu tratta una terra diversa: l’essere umano. Tutti gli elementi erano al suo servizio poiché percepivano che era vivo e collaboravano con lui in tutte le sue attività, e lui con loro. La terra forniva la sua viriditas, a seconda della specie, della natura, dei comportamenti e di tutto l’ambiente umano. (Il libro delle creature, p. 39)
Così Ildegarda esprime con immediatezza l’interazione fra mondo naturale ed essere umano nel prologo della Physica, uno dei due scritti nei quali ci è stato tramandato il suo sapere naturalistico, dividendo in una parte “enciclopedica” (la Physica appunto) e in una parte medica (Cause et cure, sottinteso: delle malattie) l’opera alla quale essa aveva dato il significativo titolo di Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum, ovvero Libro degli aspetti impercettibili delle nature diverse delle creature. Perché anche la conoscenza del mondo naturale, come quella della storia e della psiche umana – che sono oggetto rispettivamente delle prime due opere profetiche, Scivias (Apprendi le vie) e Liber vite meritorum (Libro delle scelte di vita) – deriva per Ildegarda dalla “visione”, ovvero dalla capacità di vedere l’invisibile nel visibile, o meglio, attraverso il visibile.
Il sapere di Ildegarda si basa di fatto su una intuizione simbolica della realtà storica e naturale, che essa avverte come un dono divino dal quale le deriva il compito, cui non può sottrarsi, di annunciare al mondo le verità che così le sono rivelate. È una modalità di conoscenza capace di tenere insieme molteplici fonti e dimensioni del sapere, che Ildegarda comunica sia nella forma di visioni, commentate da una vox dall’alto cui intreccia la sua propria voce (nelle tre opere profetiche – le due già indicate e il Liber divinorum operum o Libro delle opere divine – e in molte delle sue epistole), sia nella forma più semplice e diretta degli scritti naturalistici, sia infine attraverso la sintesi poetica nelle liriche da lei stessa musicate che compongono la raccolta Simphonia armonie celestium revelationum (La sinfonia armoniosa delle rivelazioni celesti) e nell’Ordo virtutum (Il rituale delle virtù), il dramma di Anima che, alle prese con le tentazioni diaboliche, chiede aiuto alle Virtù.
I motivi sviluppati nel grande affresco costituito da tutte le opere ildegardiane sono: la comprensione del senso della storia (creazione, caduta, redenzione, fine dei tempi), la funzione della chiesa e dei sacramenti (Scivias); la comprensione della vita umana nei suoi aspetti psicologici e nelle sue scelte etiche, le virtù come partecipazione degli esseri umani alla vita divina da cui le virtù stesse provengono (Liber vitae meritorum); la comprensione dell’integrazione fra vita cosmica, in cui opera lo Spirito santo, e vita umana come collaborazione all’opera divina (Liber divinorum operum); e infine la sapienza pratica della reintegrazione, mediante la vita regolata dalla virtù della misura e capacità di giudizio, discretio, come insegna la Regola di San Benedetto, il nutrimento e la cura della salute (Liber subtilitatum nelle sue due parti), la pratica del canto.
Il tema della viriditas è uno dei fili che percorrono tutti gli scritti ildegardiani. Difficile da tradurre in italiano, se si vuole evitare il brutto calco “viridità”, forse la traduzione più prossima sarebbe l’arcaico termine “verzura“, poiché oltre all’immediata equivalenza con “verdura” e tutto ciò che è “verde” possiede anche il significato allegorico di “vitalità, vigore”, già presente nell’uso latino classico. Tuttavia, la gamma di significati che il termine assume nelle pagine di Ildegarda è ancora più ampia perché conserva a livello immaginale la matrice vegetale e vitale del termine in ambiti diversi, non soltanto del mondo materiale ma anche in ambito spirituale e teologico, a partire da una concezione analogica dei diversi livelli della realtà. In queste pagine, come ho fatto usualmente negli altri miei lavori su Ildegarda, ne darò traduzioni diverse a seconda del contesto, indicandole con l’uso del neretto, per evitare un uso troppo insistito del termine latino. Prima di Ildegarda il termine viriditas era stato utilizzato anche in senso allegorico, pur senza particolare rilievo, da altri autori cristiani, e nei secoli successivi ricompare talora nei testi d’alchimia per segnalare uno dei mutamenti di colore della materia nell’opus della trasmutazione. Ma nessuno, a mia conoscenza, lo utilizza nella gamma di significati e con la pregnanza che si riscontra nelle pagine ildegardiane e che trova riscontro nell’uso simbolico del colore verde nelle miniature dello Scivias, eseguite su progetto e con la supervisione della stessa Ildegarda.
Il testo della Physica sopra citato costituisce il punto di partenza per una breve ricognizione che mostrerà la funzione che il termine viriditas svolge nei testi ildegardiani, come indicatore dell’integrazione possibile di alto e basso, materiale e spirituale, immanente e trascendente. Nel prologo della Fisica, sintetizzando in pochissime parole l’atto finale della creazione narrato in Genesi I 26-27, Ildegarda mostra l’essere umano (homo) fatto di terra e terra esso stesso, «una terra diversa». Si deve sottolineare che la parola homo è sempre da lei utilizzata nel suo significato generico di umanità, di essere umano nella sua duplicità sessuata («maschio e femmina li creò», Gen. I.27). Così l’umanità, plenum opus dei, completamento dell’opera del creatore, come tutto il resto delle creature riceve dalla terra l’energia vitale e feconda che in essa si manifesta, essendovi stata immessa dalla forza cosmica del sole, il quale «spande il suo splendore su tutta la terra, per cui essa produce verzura e fiori» (Cause e cure p. 7, l. 23). Portatrice di vitalità, questa energia è presente negli altri elementi, aria e acqua, e nel cosmo intero come opposto della ariditas, della sterile improduttività; e proprio grazie a questa vitalità intrinseca tutti i frutti della terra sono nutrimento e medicina per il corpo umano. Il legame col sole, peraltro, è occasione per andare oltre il senso immediato della viriditas e coglierne il radicamento nell’ambito della trascendenza: «l’energia vitale è opera del Verbo ma essa non esisterebbe se non fosse trattenuta dal fuoco e dal calore; e ogni creatura senza sollievo sarebbe deserta, andrebbe in pezzi e cadrebbe in rovina se non fosse mantenuta salda dal fondamento della vita di fuoco dello Spirito» (Cc p. 22, l.15).
Il sole, col suo calore, è dunque l’intermediario cosmico della ignea vita che è propria dello Spirito, il quale la immette e la sostiene nell’intero universo. Ecco perché la verde fecondità della terra e di tutte le creature che la popolano, fino all’umana “terra diversa”, sono manifestazione della vita divina, come conferma un bellissimo e piuttosto noto passo che si legge nelle prime pagine del Liber divinorum operum, dove lo Spirito / Carità (manifestazione femminile del principio divino) così dice di sé:
Io sono la suprema infuocata energia […] Io, vita di fuoco della sostanza divina, fiammeggio sulla bellezza dei campi, riluco nelle acque e ardo nel sole, nella luna e nelle stelle, vivificandole con la vita invisibile che tutto sostiene. (Il libro delle opere divine, p. 139)
La viriditas è dunque la manifestazione visibile della vita invisibile ovvero dell’energia con cui lo Spirito sostiene tutto ciò che viene all’essere, come esplicita una singolare metafora arborea della Trinità: «con la radice si intende la persona del Padre, col frutto quella del Figlio, con la verde linfa lo Spirito santo, che non sono separati l’uno dall’altro, ma è un unico Dio» (Explanatio Symb. Ath., p. 123). Lo Spirito viriditas che, come abbiamo visto sostiene la vita della terra, sostiene allo stesso modo la vita spirituale umana: «i doni dello Spirito santo pervadono il cuore dell’uomo di verde vita, affinché porti buoni frutti» (Il libro delle opere divine, p. 1001).
Nel mondo umano, l’anima è linfa rispetto al corpo, «poiché il corpo umano cresce e progredisce grazie a lei» (LDO 395); fra gli stessi organi del corpo, il cervello fornisce a tutto il corpo sensibilità e vigore vitale, come il sole lo fornisce alla terra; e se tale vigore caratterizza particolarmente il corpo maschile, in quello femminile la viriditas si manifesta come fecondità attraverso la “fioritura del sangue”:
La fanciulla possiede la fecondità durante la crescita verso l’età della sua maturazione, ma non ha ancora la fioritura del sangue; tuttavia, nell’età della forza, quando le sue membra si sono consolidate, la fecondità fa manifestare la fioritura del sangue per poter concepire figli; e quando poi arriva al compimento dell’età matura il sangue diminuisce, sicché scompare anche la fecondità della fioritura del sangue (Cause et cure, p. 105).
La spiegazione naturalistica che regge l’attribuzione metaforica di viriditas allo spirito, «ogni radice ha in sé la linfa vitale da cui nasce il frutto» (Expl Symb.Ath., ibidem), non solo sostiene la fisiologia femminile, ma torna nelle attribuzioni poetiche della Vergine Maria con la pienezza del valore fisico e spirituale insieme che l’incarnazione richiede. O viridissima virga, o ramo verdissimo, «in te fiorì il bel fiore» (S 19), e «Le tue viscere si empirono di gioia / come l’erba bagnata da rugiada / s’imbeve della sua verde energia, / come fu fatto in te, / o madre della gioia.» (S 17). Nella fecondità verginale di Maria l’incarnazione, che per Ildegarda è il compimento della creazione, il “settimo giorno”, è strettamente connessa alla viriditas dello Spirito: «il Verbo infinito, che è nel Padre prima del tempo della creazione […] era destinato a incarnarsi nell’aurora della verginità beata grazie all’energia vitale della dolcezza dello Spirito santo» (Scivias p. 114), facendosi «Dio e uomo, e da lui germina il verdeggiare della santità» (Il libro delle opere divine, p. 819).
Viriditas è dunque in relazione sia con la forza, vis, che con la condizione virginale, nella quale Ildegarda vede la scelta di vita più alta per le donne (ma anche per gli uomini), intendendo la verginità come integrità psicosomatica e dunque bellezza, non riduttivamente come scelta di astinenza dal sesso: «la vergine permane nella semplicità e nell’integrità del paradiso, il bel giardino che mai si vedrà inaridito, perché la linfa degli steli dei fiori resta sempre immutata» (Epistola 52R). «O nobilissima vita feconda / che hai radici nel sole / e, luminosa e serena, / risplendi nella ruota / che nessuna altezza sulla terra / racchiude» (Symphonia 56): Ildegarda canta in questo modo la bellezza di tutte le donne, nascosta ma non cancellata dalla sottomissione all’uomo, come d’inverno la bellezza dei fiori sparisce alla vista, eppure rimane nascosta sotto la protezione della terra, fino a quando l’energia feconda che pervade tutto il creato, tornando a manifestarsi nella sua pienezza in primavera non la riporterà nuovamente alla luce. Le donne sono infatti le eredi di Eva, ultima e più perfetta delle creature, anche più dell’uomo, poiché questo venne creato dalla terra, mentre la sua compagna dalla carne già umana. Era dal corpo della donna che doveva prendere la sua “veste umana” il Verbo, incarnandosi, poiché «come il cielo contiene in sé le stelle nella loro purezza, così lei [Eva] pura e incorrotta conteneva in sé il genere umano senza dolore» (Cause et cure, p. 144). Il peccato sconvolse questo piano, che fu portato a compimento da Maria: perciò essa è insieme l’opposto di Eva e la sua realizzazione. E per questa ragione la viriditas nelle donne, come in Eva e in Maria, si manifesta nella bellezza e nella fecondità corporea e spirituale, non nella forza.
Infine, come nel mondo dei corpi l’energia vitale di origine divina è veicolata dal sole e dalle forze del firmamento, nella vita spirituale umana è veicolata dalle virtù che, nella concezione di Ildegarda, sono teofanie divine – personificate nello Scivias, globi di fuoco nel Liber vite meritorum – capaci di sostenere e corroborare l’anima nella sua continua lotta contro la tentazione, dunque sono forze vitali e donatrici di vita spirituale, che derivano dalla viriditas del Dio incarnato, «legno verde che produsse il verdeggiare di tutte le virtù» (Il libro delle opere divine, p. 1071). Ad esempio, Misericordia dice di sé «nell’aria e nella rugiada e in ogni verde linfa sono germoglio dolcissimo» (Liber vite meritorum p. 16); e Pazienza «sono l’aria dolce piena di vita feconda che produce i fiori e i frutti di tutte le virtù» (ivi, p. 18); mentre Giustizia viene definita come la viridis viriditas nella materia creata dall’opera divina (ivi, p. 85).
«Immaginate che la donna immagini», ha scritto molti anni fa Luce Irigaray, indicando una via d’uscita dal pensiero patriarcale nella possibilità di dare libero corso alla capacità femminile di creare un immaginario diverso. Ildegarda, che vedeva interiormente nell’ «ombra della luce vivente», comunicando questa visione in immagini simboliche che hanno trovato anche espressione visuale nelle miniature dello Scivias, offre un esempio particolarmente suggestivo di questo “immaginare diverso”, esprimendo nel simbolo della viriditas la sua preziosa concezione dell’unità vitale, olistica, del mondo umano, cosmico e spirituale.
Ildegarda di Bingen. Il ricordo della Santa nel mese della ricorrenza della sua morte ( 17 settembre)
Così la vita spirituale e i nostri carismi contribuiscono a costruire il bene
Matteo Liut
I nostri carismi, le nostre aspirazioni e la nostra stessa vita spirituale sono veri e propri doni destinati alla costruzione del bene comune. Risorse preziose per la comunità che si fonda sulla condivisione di ciò che ognuno vive dentro di sé e nella propria esperienza esistenziale. Così funziona anche «l’edificazione della Chiesa», un’opera della quale, come ricordava Benedetto XVI, santa Ildegarda di Bingen fu testimone particolare. Il 10 maggio 2012 proprio Ratzinger estese il culto di questa mistica tedesca alla Chiesa universale e il 7 ottobre successivo la proclamò dottore della Chiesa. Nata a Bermesheim nel 1098, tra il 1147 e il 1150 vicino a Bingen, sul Reno, Ildegarda fondò il primo monastero e nel 1165 il secondo, sulla sponda opposta del fiume. Nonostante la salute cagionevole arrivò a 81 anni, vivendo un’intensa esperienza spirituale: le sue visioni furono trascritte in appunti e poi in libri. Era interpellata per consigli e aiuto da numerose personalità del tempo, come Federico Barbarossa, Filippo d’Alsazia, san Bernardo, Eugenio III. Negli anni della maturità intraprese numerosi viaggi per visitare monasteri o per predicare nelle piazze. Morì il 17 settembre 1179. La sua testimonianza, notò Benedetto XVI nelle catechesi dedicate a questa santa il 1° e l’8 settembre 2010, ricorda «come anche la teologia possa ricevere un contributo peculiare dalle donne, perché sono capaci di parlare di Dio e dei misteri della fede con la loro peculiare intelligenza e sensibilità».
Maria nella tradizione carmelitana: Teresa d'Avila e Teresa di Lisieux
Dopo aver illustrato in un precedente articolo la nascita del culto mariano nei primi secoli della storia dell’Ordine Carmelitano (XIII-XV), ci soffermiamo ora a delineare il legame spirituale tra due grandi sante carmelitane e la Vergine Maria.
Santa Teresa d’Avila (1515-1582)
La prima figura è quella di santa Teresa d’Avila, riformatice dell’Ordine carmelitano. Nel 1565, in obbedienza al suo direttore spirituale, terminava di scrivere la sua autobiografia. Aveva ormai 50 anni e dal 1562 aveva intrapreso la riforma dell’Ordine carmelitano. Al momento della morte avrà fondato numerosi monasteri di monache e alcuni conventi di frati. Ella conosceva certamente lo speciale legame che da secoli univa l’Ordine carmelitano a Maria. I primi Carmelitani non si erano forse denominati come «Fratelli della Beata Vergine del Monte Carmelo»?
Il riferimento a Maria appare fin dal primo capitolo dell’autobiografia quando con la memoria torna alla sua fanciullezza: «Ricordo che quando mia madre morì, avevo poco meno di dodici anni. Appena ne compresi la gran perdita, mi portai afflitta ai piedi di una statua della Madonna e la supplicai con molte lacrime di voler farmi da madre». Fin qui il ricordo di un fatto lontano. Ciò che segue è il bilancio di quella richiesta: «Mi sembra che questa preghiera, fatta con tanta semplicità, sia stata accolta favorevolmente, perché non vi fu cosa in cui mi sia raccomandata a questa Vergine sovrana senza che ne venissi subito esaudita. Ella mi fece sua».
Alle sue consorelle ripeteva spesso cha la Vergine Maria era la vera «priora» del monastero, chiamandola affettuosamente, lei che aveva davvero la carica di priora, «la mia priora». Quando pensava alla sua riforma dell’Ordine, la voleva come un servizio reso alla Vergine e le sue monache non dovevamo mai dimenticarsi di vivere come «figlie» della Vergine Madre. Con il realismo tipico dei santi, che sanno di non valere nulla agli occhi di Dio, alle sue monache scriveva queste parole: «E voi, figliole mie [ …] ringraziate Iddio di essere le vere figlie di questa Signora, perché avendo in lei una Madre così grande, non siete costrette a vergognarvi di me, che sono tanto cattiva. Imitatela, considerate la grandezza e il vantaggio che abbiamo d’averla come Patrona». Spesso iniziava le sue lettere con le parole «Gesù Maria».
La Vergine fu anche al centro di alcune apparizioni, in particolare di quella che accadde poco prima della fondazione del monastero di San Giuseppe ad Avila, il primo monastero riformato di monache. Aiutata dallo stesso san Giuseppe, Maria, rivestiva di una veste bianca Teresa. Mentre quella vestizione le arrecava una «grandissima gioia e diletto», Maria le assicurava la sua protezione sul monastero che stava per nascere. La Vergine, scrisse, era di «una bellezza incantevole, vestita di bianco con grandissimo splendore, non abbagliante, ma soave».
Per Teresa Maria è anche l’immagine viva di quello che Dio può operare con ognuno di noi. Come la Scrittura insegna, nulla può contenere Dio, nemmeno i cieli. Dio è infinito, eppure può decidere di racchiudersi nel piccolo spazio di una sola anima. Dopo aver paragonato la propria a un castello destinato a diventare la dimora di Dio stesso, Teresa scriveva: «Se infatti allora avessi saputo, come comprendo chiaramente adesso, che in questo minuscolo palazzo dell’anima mia dimora un Re così eccelso, ritengo che non l’avrei lasciato tanto spesso così solo […]. Però che spettacolo meraviglioso vedere Colui il quale può riempire mille mondi della sua esistenza, rinchiudersi in uno spazio così piccolo! Allo stesso modo ha voluto rannicchiarsi nel grembo della Sua Santissima Madre».
Nel marzo del 1581, un anno e mezzo prima di morire, a una sua consorella, scriverà di aver «visto realizzato nell’Ordine della Vergine nostra Signora tutto ciò che desideravo». Bastano queste poche righe per capire il ruolo e l’importanza che Maria ebbe nella lunga vita della nostra santa.
Santa Teresa di Gesù Bambino (1873-1897)
Tre secoli dopo Teresa d’Avila, si affacciava alla vita del mondo e della Chiesa santa Teresa di Gesù Bambino. Questa giovane monaca carmelitana francese, che morirà a soli 24 anni, visse, pur dentro l’assoluta normalità di una vita familiare e claustrale, una straordinaria avventura di santità. Nel 1925 papa Pio XI la canonizzerà e due anni dopo la proclamerà, con san Francesco Saverio, «patrona di tutte le missioni cattoliche del mondo», lei che pur non era mai uscita dal suo monastero ma aveva vissuto uno sconfinato desiderio di annuncio della Buona Novella a tutto il mondo.
Il suo rapporto con Maria non si ammanta di quel facile sentimentalismo, frutto anche di una predicazione di stampo devozionale, che parlava della Vergine come di qualcosa di così perfetto da risultare inaccessibile e alla fine lontano dalla concreta esistenza della stragrande maggioranza dei cristiani. Con un certo coraggio a questo proposito scriveva: «Che i preti ci mostrino dunque delle virtù [di Maria] praticabili. È bene parlare delle sue prerogative, ma soprattutto bisogna poterla imitare. Ella preferisce l’imitazione piuttosto che l’ammirazione, e la sua vita è stata così semplice! Per quanto bella sia una predica sulla Santa Vergine, se si è obbligati tutto il tempo a fare: Ah!... Ah! Se ne ha abbastanza. Come mi piace cantarle: “Visibile hai reso la stretta via al cielo, praticando sempre le virtù più umili”».
In un’altra occasione affermò che avrebbe desiderato essere sacerdote per poter predicare sulla figura della Vergine: avrebbe detto «tutto e in una sola volta». Ad esempio così: «Perché una predica sulla Santa Vergine mi piaccia e mi faccia del bene, bisogna che veda la sua vita reale, non supposizioni sulla sua vita; e sono sicura che la sua vita reale doveva essere semplicissima. La presentano come inavvicinabile, bisognerebbe mostrarla imitabile, fare risaltare le sue virtù, dire che viveva di fede come noi, darne le prove con il Vangelo». La giovane carmelitana non faceva che anticipare di settant’anni il Concilio Vaticano II quando nella Lumen Gentium affermerà che Maria «avanzò nella peregrinazione della fede» (n. 58).
La maternità di Maria non fu per lei una verità astratta e buona solo per incomprensibili libri di teologia. Anche potendolo, non avrebbe mai cambiato il suo ruolo privilegiato di «figlia». Alla sorella Celina spiegava tutto ciò con questa parole: «A proposito della Madonna, bisogna che ti confidi una delle mie familiarità con lei. A volte mi trovo a dirle “Ma mia buona Santa Vergine, trovo che sono più fortunata di te, perché ti ho per Madre, ma tu, tu non hai una santa Vergine da amare … . È vero che tu sei la Madre di Gesù, ma questo Gesù ce lo hai donati a tutti! E Lui sulla Croce, ti ha donato a tutti come Madre. Così noi siamo più ricche di te, perché possediamo Gesù e anche tu ci appartieni […] ed ecco che io, povera piccola creatura, sono non la tua serva, ma la tua figlia, tu sei la Madre di Gesù e sei mia Madre”». Poi con un sottile senso dell’ironia, così concludeva: «Senza dubbio la Santa Vergine deve ridere della mia ingenuità e tuttavia quel che dico è proprio vero!». Molti cristiani di oggi che vivono spiritualmente «orfani», dovrebbero meditare a lungo le parole di questa semplice cristiana che dal 1997 Giovanni Paolo II ha voluto come la più giovane e l’ultima «dottore della Chiesa».
Santa Teresa D'Avila e la recita del rosario
La santa di origini spagnole - annoverata tra i dottori della Chiesa nel 1970 da Paolo VI, insieme a Caterina da Siena - ci ha lasciato un’incredibile quantità di libri e di lettere, esempi illuminanti del suo dialogo infinito con Dio e la Beata Vergine.
Un legame, quest’ultimo, nato fin dalla gioventù, quando a 13 anni Teresa perde la mamma e chiede, allora, alla Madonna di essere sua Madre. E la richiesta venne ascoltata. La santa vivrà esperienze profonde di reale presenza della Vergine che fu al centro di alcune apparizioni: in particolare, una verificatasi poco prima della fondazione del monastero di San Giuseppe ad Avila: aiutata dallo stesso san Giuseppe, Maria riveste di una veste bianca Teresa e le assicura la sua protezione sul monastero che sta per nascere. Sarà sempre la Vergine ad aiutarla nella sua riforma dell’ordine del Carmelo. Nella sua opera più celebre, Il Castello interiore – in cui Teresa utilizza l'allegoria dell'anima come un castello fatto di sette dimore da percorrere in un viaggio spirituale: ebbene la Signora di questo maniero per Teresa è la Vergine, stella che orienta il percorso. Su Maria Con Te di questa settimana l’intervista alla studiosa Maria Ruiz de Arcaute, tra i massimi esperti mondiali della santa. «Per lei», spiega, «la Vergine fu Madre, Regina e Sorella maggiore. Ne fece il suo modello per custodire come Maria “lec cose di Dio nel suo cure”. Chiamava i conventi delle carmelitane le “colombaie” della Madonna.
Uno dei ricordi dell’infanzia di Teresa è la recita del rosario. È anche uno dei tratti della pietà mariana di sua madre, donna Beatrice: «Cercavo la solitudine per recitare le mie preghiere, che erano molte, specialmente il rosario di cui mia madre era molto devota, e procurava che lo fossimo pure noi» (V 1,6). Pratica che perdurerà per tutta la vita di Teresa, anche nel suo periodo mistico. Nel nuovo Carmelo di San Giuseppe, sarà uno degli esercizi dell’orazione vocale, analogo alla recita delle Ore liturgiche, affinché aiuti ad allenare nell’orazione mentale le giovani novizie. Nel capitolo del Cammino dedicato a «dichiarare che cosasia l’orazione mentale», inculca alle lettrici: «Chi potrebbe dire che fate male, quando al momento di cominciare le Ore o il rosario, vi domandate con chi state per parlare, chi siete voi che parlate, per meglio conoscere come comportarvi? Vi dico, sorelle, che se metteste ogni cura per ben comprendere questi due punti, prima di cominciare la preghiera vocale, avreste già occupato molto tempo in quella mentale» (C 22,3: il tono polemico del passo è diretto contro i teologi contemporanei che difendevano il valore dell’orazione soltanto vocale).
Nella vita mistica della Santa ci sono almeno due episodi associati al rosario: uno dei quali presenta Teresa che ripara in questa recita mariana, nei momenti di stanchezza o malattia: «Una sera mi sentivo così male che volevo dispensarmi dall’orazione… presi il rosario per pregare vocalmente, procurando di non sforzarmi troppo per raccogliermi…Dopo alcuni istanti fui presa da un rapimento di spirito così impetuoso che mi fu impossibile resistere» (V 38,1). L’altro episodio si riferisce al rosario concreto che la Santa tiene in mano. Avviene nel periodo delle grandi inquietudini, per paura delle ingerenze del demonio nellasua vita mistica: «Una volta, mentre tenevo in mano la croce del rosario, il Signore me laprese, e quando me la restituì era formata di quattro grandi pietre, assai più preziose del diamante, anzi senza confronto, perché non ve n’è fra le cose della terra e quelle viste spiritualmente… Vi erano scolpite le cinque piaghe del Signore in modo meraviglioso. E mi disse che d’allora in poi l’avrei sempre vista così. Infatti non vedevo più il legno di cui era composto, ma solo le pietre. Però, non lo vedevo che io» (V 29,7). Riportando questo episodio, il suo primo biografo, Francesco de Ribera, commenta: «Così accadde a santa Caterina da Siena… alla qualeil Signore mise al dito un anello d’oro con perle, dove le rimase, ma lo vedeva solo lei e non le altre» (Vida de la Madre Teresa…,parte I, cap. 13, p. 86). Sul margine di questo passo di Ribera, Gracián annotò: «Questa croce venne in mio possesso in un rosario che avevo, e poi la diedi alle monache»
Bibliografia: Plácido de Santa Teresa, Una faceta de Santa Teresa, in MontCarm 24 (1920), pp. 433-435; Fabián de San José, Santa Teresa y el Rosario, in Carmelo Teresiano, Madrid 1 (1945), pp. 124-127, 154.
Il mio cuore felice per Lei.. Maria Santissima
Santa Teresa di Lisieux
"..D'un tratto la Madonna mi sembrò bella, così bella che io non avevo mai veduto nulla di così bello, il suo volto spirava una bontà ed una tenerezza ineffabili, ma quel che mi penetrò fino in fondo all'anima, fu "il sorriso incantevole della Madonna ". Allora tutte le mie pene svanirono, due lacrimoni spuntati dalle palpebre scorsero in silenzio sulle mie guance, ma erano lacrime di una gioia senza nubi... "Ah, pensai, come sono felice, la Madonna mi ha sorriso... ma non lo dirò a nessuno, perché allora la mia felicità sparirebbe
Senza alcuno sforzo abbassai gli occhi, e vidi Maria che mi guardava amorosamente: era commossa e sembrava intuire il favore accordatomi dalla Vergine santa... Era proprio ad essa, alle sue irresistibili preghiere che io dovevo la grazia del sorriso della Regina del Cielo; scorgendo il mio sguardo fisso sulla Madonna, essa si era detta: Teresa è guarita! Sì, il fiorellino stava rinascendo alla vita ed il Raggio luminoso che lo aveva riscaldato non avrebbe più arrestato i suoi benefici: non agì in un tratto solo, ma dolcemente, soavemente, raddrizzò il fiore e lo fortificò in modo tale che cinque anni dopo questo si apriva sulla fertile montagna del Carmelo.
Maria aveva dunque indovinato che la Madonna mi aveva accordato qualche grazia nascosta. Quando fui sola con lei essa mi domandò cosa avevo veduto, ed io non potendo resistere alle sue domande così tenere e pressanti, stupita, per di più, di vedere indovinato il mio segreto senza che io lo avessi rivelato, lo confidai per intero alla mia cara Maria... Ahimé, come avevo supposto, la mia felicità disparve, trasformandosi in amarezza; per quattro anni il ricordo della grazia ineffabile che avevo ricevuto, fu per me una vera pena interiore e non dovevo ritrovar la mia felicità che ai piedi di N. Signora delle Vittorie, ove mi fu resa in tutta la sua pienezza. Parlerò più innanzi di questa seconda grazia della Madonna, adesso devo dirle, Madre diletta, in che modo la mia gioia si trasformò in tristezza.
Maria, dopo avere udito il racconto ingenuo e sincero della "mia grazia", mi chiese il permesso di dirlo al Carmelo. Non potevo dire di no..."
Santissimo nome di Maria
Nell'orizzonte di chi sa guardare in alto
Le due ricorrenze liturgiche, che documentano nei secoli la devozione popolare alla Vergine, si susseguono a breve distanza di tempo: la festività del Nome di Maria, istituita dal papa comasco Innocenzo XI (1611 – 1689), è stata collocata con decreto di Pio IX nell’ottava della Natività, che, come ricorda la dedicazione del Duomo di Milano, ricorre l’8 settembre: sarà Pio X a farne «una ricorrenza fissa al 12 settembre; ma già ai tempi di Manzoni il messale ambrosiano la collocava in quella data».
Il codice degli Inni Sacri racconta la lunga e ripida elaborazione di questo secondo inno, tra il 6 novembre 1812 e il 19 aprile 1813, in un metro irripetuto da Manzoni, la strofa saffica con in quarta sede un settenario. Si tratta forse, come già suggerito, di un ricalco ritmico di un versetto del Magnificat, il salmo poetico di Maria: ecce enim ex hoc beatam me dicent /omnes generationes.
Forse lo scabro metro, non frequente nella tradizione poetica italiana, è uno dei motivi che persuasero Monaldo Leopardi a escludere Il Nome di Maria, dalla sua devotissima quanto abusiva ristampa (Macerata, 1828) dei «canti» (il figlio Giacomo ne farà il suo titolo solo nel 1831) del «poeta cristiano».
Le lettrici (e anche i lettori) possono tornare su questi 84 versi, accompagnate con religiosa e letteraria dottrina dal commento di Pierantonio Frare (2017 – Edizione Nazionale delle Opere di A. M., vol. 1). Potranno avvertire come nell’incipit, «Tacita un giorno a non so qual pendice / salìa d’un fabbro nazaren la sposa; salìa non vista …», si annunci una sconosciuta, sottaciuta, in un tempo (era detto in tre precedenti strofe espunte) in cui trionfavano nel mondo il nome di Roma e la dolce vita (è un prestito dantesco… non felliniano).
E si dovrebbe, tutti, unire questo ingresso in umiltà felice alla proclamazione provvidenziale: «tanto piacque al Signor di porre in cima / questa fanciulla ebrea»: in sintonia anche con il riconoscimento, sancito da Napoleone (e non sconfessato al Congresso di Vienna), dei pieni diritti civili a quel popolo ingiustamente ghettizzato.
L’appellativo beata scandisce l’inno, e si arresta dubbioso sull’absurdum cristiano, sempre pulsante in Manzoni, del divino «prego inesaudito» del Figlio di Maria: sono trascorsi vent’anni, siamo al congedo di Enrichetta: nella stampa 1815 «Tu pur, beata, un dì provasti il pianto», nel segretato Natale del 1833, «Ma tu pur nasci a piangere».
Manzoni improvviserà, «probabilmente» su richiesta di Giulietta, un rapido ma denso inno in ottonari, a Brusuglio, il 10 settembre 1823, dunque alla vigilia della festa del Nome di Maria: «Santo nome, in fra i mortali, / quale è il nome che ti avanza? / Tu sei nome di speranza, / tu sei nome di pietà».
Ma il più sublime, il supremo, inno alla Vergine Manzoni lo eleva (è un verbo che stacca da terra) in Ognissanti: sono versi che ’accostano in ascesa avvolgente alla Madonna sulla cuspide del Duomo: interpretando con poesia teologica (solo a Lui possibile, dopo Dante) il dogma dell’Immacolata, ne fissano lassù la proiezione al di sopra di tutti i santi, al di sopra dei colpevoli e pur perdonati limiti umani: «Tu sola più su del perdono / l’Amor che può tutto locò».
Li ha incisi Manzoni: non su una lapide, nell’orizzonte di chi sa vedere in alto.
Angelo Stella
Esaltazione del nome di Maria
Maria è uno dei nomi più diffusi nel mondo ebraico e diverse sono le interpretazioni date al suo significato. Una delle prime si deve al fatto che Anna ringraziò molto dopo aver avuto la bambina, perciò l’avrebbe chiamata “dono ricevuto da Dio”. Comunissima, inoltre, l’interpretazione che fa discendere il nome Myriam da “mrr”, cioè “essere amaro”. Questo ben si collegherebbe alla tradizione di Maria, Madre del dolore. Tra le ipotesi più accreditate, Maria si fa risalire anche alle radici “or”, luce, più “yam”, mare, e quindi vorrebbe dire “illuminatrice” ma anche ”stella del mare”, con probabilità di equivoco tra “stella” e “stilla” e quindi anche “goccia del mare”. Come la stella, infatti, indica il sereno dopo la tempesta, così la Madonna, entrando nell’anima, allontana il peccato e fa tornare il Signore nel cuore dell’uomo. In Maria, poi, è raccolto “un mare di grazie” e tutte vivono in lei. Direttamente collegata a questa, è data un’altra interpretazione, di derivazione dall’ebraico con significato di “prima pioggia stagionale”, quindi Maria è colei che è “pioggia di grazie”, che manderà sulla Terra una “pioggia di missionari”. Ed ecco anche la radice “moreh” in base alla quale Maria significherebbe “signora e padrona”; ma anche “marom”, “altezza”, e infatti Cristo è il sole che sorge dall’alto. Qual è l’interpretazione corretta? Non ci è dato saperlo, ma il fatto che Maria è nome pronunciato da Dio, tanto basta per renderlo bello e ricco di significato..
Nel 1513 per la prima volta, da Roma, Papa Giulio II concede alla diocesi di Cuenca, in Spagna, di festeggiare il Santo Nome di Maria, come erano già abituati a fare, il 12 settembre di ogni anno. Soppressa, viene poi ripristinata da Sisto V e nel 1622, estesa da Gregorio XV ad altre diocesi locali e quindi all’intera Spagna. Nel 1671 viene festeggiata anche nelle diocesi di Napoli e Milano. Nel 1683, poi, in onore della vittoria a Vienna dei polacchi sui turchi che minacciavano la cristianità, Papa Innocenzo XI, come segno di rendimento di grazie, estende la festa a tutta la Chiesa universale, fissandola però alla domenica compresa nell’Ottava della Natività. A riportala alla data tradizionale del 12 settembre sarà Pio X.
Santa è Maria
Sant'Agostino
Ecco, fratelli miei, ponete attenzione, ve ne scongiuro, a ciò che dice Cristo Signore stendendo la mano verso i suoi discepoli: Sono questi mia madre e i miei fratelli. E se uno farà la volontà del Padre mio che mi ha inviato, egli è mio fratello, mia sorella e mia madre (Mt 12,49-50). Non fece forse la volontà del Padre la vergine Maria, la quale per la fede credette, per la fede concepì, fu scelta perché da lei la salvezza nascesse per noi tra gli uomini, e fu creata da Cristo prima che Cristo fosse creato nel suo seno? Santa Maria fece la volontà del Padre e la fece interamente; e perciò vale di più per Maria essere stata discepola di Cristo anziché madre di Cristo; vale di più, è una prerogativa felice essere stata discepola anziché madre di Cristo. Maria era felice poiché, prima di darlo alla luce, portò nel ventre il Maestro. Vedi se non è come dico. Mentre il Signore passava seguito dalle folle e compiva miracoli propri di Dio, una donna esclamò: Beato il ventre che ti ha portato! (Lc 11,27). Il Signore però, perché non si cercasse la felicità nella carne, che cosa rispose? Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica (Lc 11,28). È per questo dunque che anche Maria fu beata, poiché ascoltò la parola di Dio e la mise in pratica. Custodì la verità nella mente più che la carne nel ventre. La verità è Cristo, la carne è Cristo: Cristo verità nella mente di Maria, Cristo carne nel ventre di Maria; vale più ciò che è nella mente anziché ciò che si porta nel ventre. Santa è Maria, beata è Maria, ma più importante è la Chiesa che non la vergine Maria. Perché? Maria è una parte della Chiesa, un membro santo, eccellente, superiore a tutti gli altri, ma tuttavia un membro di tutto il corpo. Se è un membro di tutto il corpo, senza dubbio più importante di un membro è il corpo. Il capo è il Signore, e capo e corpo formano il Cristo totale. Che dire? Abbiamo un capo divino, abbiamo Dio per capo."
Sermone 72/A, 7
La devozione a Maria Santissima
Dom Grea aveva per la Vergine Maria una devozione filiale che portava sempre nel suo cuore.
C’è un profondo legame Gréa instaura tra la devozione a Maria e quella a Cristo.Nelle sue stesse parole "Ricordatevi che la devozione alla Vergine è la misura della pietà che noi abbiamo per Gesù Cristo e Dio. Chi non ha la devozione per Maria, non l’ ha per Gesù…perché Maria è la Madre del bell’amore…la madre della pietà". La spiritualità del Gréa può essere racchiusa in queste parole: preghiera e sacrificio, con Maria, per amore del Cristo e della Chiesa, suo corpo mistico.
Dom Adriano Gréa non dimentica la profonda connessione che c’è tra Maria e la Chiesa: "La Chiesa è la sposa; Maria è la madre”. E’ Maria che deve formare e preparare la sposa del Figlio". In un momento particolarmente felice della sua riflessione e profondamente pieno di significato così continua:"La madre e la sposa: il sacrificio che Nostro Signore ha offerto sulla croce non è solo oblazione dell’umanità concepita nel seno di Maria, ma essendo questa umanità compendio della creazione, una tale oblazione diviene oblazione dell’intera opera di Dio. Due sono le persone per mezzo delle quali questa opera di Dio si riannoda a Cristo: Maria e la Chiesa, Maria sua madre e la Chiesa sua sposa. E’ lei che donando a Gesù un’umanità, le dona la materia per il suo sacrificio, ma donandola a Gesù, la dona anche alla Chiesa…Gesù nel suo sacrificio presenta al Padre quanto ha di più caro: sua Madre e la sua Sposa. ..la vita di Maria è un insieme misterioso ed ineffabile di dolori e di gioie…Maria è madre della Chiesa. In Gesù che si offre per la Chiesa, è Maria che si offre per lei. …Maria ha generato senza dolori Gesù nella gioia del Natale e generato noi ai piedi della croce nelle sofferenze del Figlio suo Gesù".
La sua devozione era presente quotidianamente, ad esempio amava recitare con la sua comunità Ave Maris stella tutte le sere e chiedeva di pregare per lui Maria Santissima.
In occasione della festa dell’Immacolata del 1906 definita da lui”Dolce e cara festa” Dom Adriano Grea scrive ”Non dimenticatevi mai che essendo canonici regolari dell’Immacolata Concezione,siamo di suo dominio speciale, sotto la sua protezione costante e speciale.
Noi abbiamo diritto alla sua protezione e noi abbiamo il dovere di renderle omaggio,sempre,sempre”
Dom Ignazio DelaVenna ci racconta nella festa di Natale del 1916”Nonostante il peso degli anni Dom Grea volle presiedere l’officio della mattina,delle lodi,dei vespri e prendere parola per ricordare alla popolazione di Baudin il meraviglioso amore di Nostro Signore per gli uomini”Alla fine della Messa rivolgendosi a Dom Ignazio ho dimenticato una cosa imperdonabile.Mi sono dimenticato di parlare della Santa Vergine alla fine dell’omelia. Ma,Padre la vostra intera omelia era dedicata al mistero della Santa Vergine e al notro Signore.No figli mio,no figli mio.Dobbiamo far sì che la Santa Vergine abbiamo il suo posto speciale quando parliamo al pubblico”.
Possiamo concludere con alcune bellissime parole dello stesso Dom Grea “Dio tutto ci ha donato per mezzo di Maria, poiché per suo mezzo ci ha donato Cristo:"Come Dio ci ha donato il suo Figlio unico per Maria, è per Maria che tutto abbiamo ricevuto".E ancora "Gesù ci vuole là dove Egli è, ma, prima di introdurci con Lui nella gloria del Padre, vuole che con Lui abitiamo in quella della madre".
Riflessione con estratti da Vernet "Dom Grea", la devozione alla Vergine Maria pag 226-230
Santa Monica
Santa Monica un esempio da imitare
Papa Francesco
Il Signore chiede costanza, ci chiede di essere determinati, senza vergogna.
Una preghiera costante, invadente. Pensiamo a Santa Monica per esempio, quanti anni ha pregato così, anche con le lacrime, per la conversione del figlio. Il Signore alla fine ha aperto la porta.
Nel nostro cuore dobbiamo sempre avere una “santa inquietudine” nella ricerca del vero bene che è Dio-Aiutiamo gli altri a sentire la sete di Dio. È Lui che dona pace e felicità al nostro cuore-
Agostino vive un’esperienza abbastanza comune al giorno d’oggi: abbastanza comune tra i giovani d’oggi. Viene educato dalla mamma Monica nella fede cristiana, anche se non riceve il Battesimo, ma crescendo se ne allontana, non trova in essa la risposta alle sue domande, ai desideri del suo cuore, e viene attirato da altre proposte. Nelle Confessioni leggiamo questa frase che un vescovo disse a santa Monica, la quale chiedeva di aiutare suo figlio a ritrovare la strada della fede: "Non è possibile che un figlio di tante lacrime perisca". Lo stesso Agostino, dopo la conversione, rivolgendosi a Dio, scrive: "per amore mio piangeva innanzi a te mia madre, tutta fedele, versando più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli". Donna inquieta, questa donna, che, alla fine, dice quella bella parola: cumulatius hoc mihi Deus praestitit! (il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente). Quello per cui lei piangeva, Dio glielo aveva dato abbondantemente! E Agostino è erede di Monica, da lei riceve il seme dell’inquietudine. Ecco, allora, l’inquietudine dell’amore: cercare sempre, senza sosta, il bene dell’altro, della persona amata, con quella intensità che porta anche alle lacrime" ( 27 agosto 2020)
Uniti per sempre in Dio
«La madre versava calde lacrime per lui, desiderosa di ricondurlo alla vera fede; una volta, come si legge nel terzo libro delle Confessioni, mentre essa era tanto afflitta, le apparve un giovane che le domandò la causa del suo dolore, ed essa, rispose: Piango la morte di mio figlio. Ma l’altro rispose: - Calmati, egli sarà dove sarai tu. In quel mentre il figlio le viene vicino, ed essa gli raccontò quello che aveva visto, ma il figlio le disse: - Ti inganni, mamma, quello che ti è stato detto non avverrà mai. Ma essa rispose: - No, figlio; mi è stato detto che tu sarai dove sarò io». (Jacopo da Varagine - Legenda Aurea)
E li vediamo insieme ancora adesso: anche la liturgia ce lo ricorda, facendo memoria di santa Monica il 27 agosto e del figlio, Agostino, il 28 agosto, perché l’incontro con Cristo, somma Verità, li ha resi uniti per sempre!
Santa Monica - la madre tenera, tenace e discreta, che mai abbandonò il figlio ed ebbe un ruolo decisivo nella sua conversione, con la sua straordinaria forza d’animo - era nata a Tagaste nel 331, da una famiglia benestante e cattolica. Ricevette una buona educazione religiosa; costantemente leggeva e meditava la Sacra Scrittura. Donna colta e libera, andò in sposa a Patrizio, che era pagano. La vita coniugale la portò ad affrontare un cammino aspro: la gioia dei figli - ebbe due figli e una figlia - si unì alle difficoltà che incontrò nell’educarli cristianamente, al dolore per le infedeltà coniugali del marito, il quale, però, grazie alla fedeltà di Monica, alla sua costanza e alla sua dolcezza, alla fine della vita si avvicinò alla fede e si fece battezzare.
Come ogni madre, anche Monica si lasciò conquistare dalla preoccupazione per il futuro e la carriera del figlio Agostino, di cui andava fiera: ma dovette ammettere il proprio fallimento, quando lo vide tornare a casa orgoglioso dei sui successi, ma lontano da Dio - divenne, infatti, esperto di filosofia e maestro di retorica, primeggiando sugli altri grazie a quei doni intellettivi di cui il Signore stesso lo aveva colmato-.
Sedotto dagli studi di retorica e dalle correnti filosofico-religiose diffuse in quegli anni, Agostino perse di vista gli insegnamenti della madre che, come egli stesso scrive, insieme al latte materno gli aveva dato da bere il nome di Gesù. Il suo animo insaziabile, irrequieto e un po’ ribelle, lo portò su ben altre strade: si diede a una vita sregolata, ma lei, la madre, continuò ad accompagnare il figlio con l’amore e con la preghiera.
La fede trasformerà il suo dolore, perché nella fede ogni dolore diviene dolore di parto, che contribuisce alla nascita di una nuova umanità. «Mi hai generato due volte», le dirà un giorno il figlio: alla vita e alla fede. Dal dolore di Monica, infatti, nascerà l’uomo nuovo Agostino: Padre, Dottore e Santo della Chiesa cattolica.
Dall’incontro con il vescovo Ambrogio, avvenuto nel 385 a Milano, comincerà infatti per lui il grande cambiamento: grazie alle predicazioni di Ambrogio capì di aver incontrato finalmente ciò che la sua anima cercava da sempre. Così, nel 387 ricevette il battesimo e riallacciò i legami con la madre, dalla quale non si separerà mai più.
Riuniti nella fede in Cristo, aneleranno insieme alla vita eterna!
«Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi, cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei Tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì, né sorse in cuore d’uomo. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di Te, per esserne irrorati secondo il nostro potere e quindi concepire in qualche modo una realtà così alta» (Confessioni 9, 10).
Monica si spense il 27 agosto del 387: il suo corpo rimase per secoli nella chiesa di Sant’Aurea di Ostia, poi fu traslato a Roma, nella chiesa di San Trifone, oggi di Sant'Agostino.
La vita di Agostino proseguì nella certezza che l’unico riposo è in Dio: medico per le sue infermità, guida sicura che poteva mettere ordine tra le sue contraddizioni, l’unico in grado di colmare la sua ricerca di un senso profondo del vivere.
Colui che tanto aveva amato se stesso fino a disprezzare Dio, ora amerà Dio fino al disprezzo di sé. Metterà a nudo la propria vita: i suoi errori, i suoi peccati, i moti irragionevoli della sua anima. Si glorierà solo in Dio e cercherà per sempre la gloria di Dio! Aveva compreso, infatti, che per esser veramente grande ed erigere un edificio che arrivi a toccare il Cielo devono prima esser costruite le fondamenta dell’umiltà. E così, nel servizio di Dio e degli altri e riponendo solo in Dio la propria forza, troverà la vera sapienza, che rende culto al vero Dio.
Dopo il Battesimo, decise di tornare in Africa con gli amici, con l’idea di praticare una forma di “vita comune”, di tipo monastico. Ma il Signore aveva per lui altri progetti! Rientrato in patria, si stabilì a Ippona per fondarvi un monastero e, in questa città, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero. Diede comunque inizio, con alcuni compagni, alla vita monastica tanto desiderata, trascorrendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione.
Sempre rapito dall’amore per la Verità, egli voleva dedicarsi interamente al suo servizio: comprese, però, che la vita da Pastore - che il Signore aveva predisposto per lui - gli avrebbe permesso ancora di più di portare il dono della verità agli altri.
Consacrato Vescovo, nel 395, continuò ad approfondire lo studio della Sacra Scrittura e si dedicò instancabilmente al servizio pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l’organizzazione di monasteri femminili e maschili. Esercitò, inoltre, grande influenza nella guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana e nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e misericordioso.
Trascorsi molti anni di assidua e instancabile cura delle anime, si ammalò gravemente e, dopo alcuni mesi, mentre la sua terra era assediata dai Vandali, si spense. Era il 28 agosto 430. Il suo corpo, in data incerta, fu trasferito in Sardegna e da qui, verso il 725, fu traslato a Pavia, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, dove ancora oggi riposa.
Tutta la sua vita fu mossa dal desiderio di verità: e, una volta trovata, dalla necessità di ricondurre tutti gli uomini alla speranza di incontrarla, nella certezza - acquisita con la sua stessa vita - che la Verità, che è Cristo, corrisponde alle domande di ogni uomo, anche se non tutti capiscono chiaramente, perché non si sentono a volte rispondere ciò che vorrebbero. «Servo fedele - scrive Agostino - non è tanto chi bada a sentirsi dire da Te ciò che vorrebbe, ma piuttosto chi si sforza di volere quello che da Te si è sentito dire» (Confessioni, 10,26).
Da servo fedele, fino alla fine della sua vita versò lacrime e pregò Dio perché donasse pace, per sempre, al suo cuore inquieto, lasciando che riposasse finalmente in Lui: «Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa’ che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre la tua faccia con ardore. Dammi Tu la forza di cercare, Tu che hai fatto sì di essere trovato e mi hai dato la speranza di trovarti con una conoscenza sempre più perfetta. Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa. Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto ricevimi quando entro; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso. Fa’ che mi ricordi di Te, che comprenda Te, che ami Te!» (De Trinitate XV, 28.51).
Suor M. Agostina Convertini icms
Una madre genera i figli ogni giorno
Una madre genera i figli alla vita ogni giorno, perché quotidianamente li accompagna e li “porta dentro di sé” per offrirli al mondo per tutta la vita. Per santa Monica, madre di sant’Agostino, questa esperienza fu particolarmente difficile, ma anche ricca di umanità. Questo lungo travaglio materno, icona dell’amore di Dio per ogni singolo essere umano, ebbe di sicuro il proprio apice nel momento in cui il figlio confessò alla madre di essere giunto a “disprezzare” la felicità terrena per servire Dio. Fu lei stessa a rivelare la gioia per il raggiungimento di questo traguardo da parte di Agostino nell’ultimo colloquio avvenuto nel 387 nella pace della casa di Ostia. Monica, che era nata a Tagaste nel 331, era rimasta vedova a 39 anni, quando Agostino aveva 16 anni. Conosceva bene l’oscurità che il figlio aveva attraversato prima di arrivare alla fede e si può solo immaginare la sofferenza che lei, donna dotta che conosceva le Scritture, provava nell’assistere alla “deriva” mondana di Agostino. La conversione del vescovo di Ippona avvenne di certo anche grazie alla vicinanza spirituale e alle continue preghiere della madre. Nel 387, durante il viaggio da Milano all’Africa, Agostino ebbe un ultimo profondo dialogo con la madre, che morì pochi giorni dopo.
Matteo Liut
Gentile lettrice e lettore, a seguire alcuni volti, alcune voci femminili che nel loro cammino hanno dato forma alla loro primavera, una primavera da donare a tutti. Certamente esistono molti altri nomi che anonimamente con cuore coraggioso e gentile intessono un mondo migliore con le loro scelte di ogni giorno, si certamente, è possibile per ognuno di noi.
“Non vi scoraggiate, anche se doveste scoprire che non avete le qualità necessarie per l’opera a cui siete chiamati. Colui che vi ha chiamati non vi abbandonerà, ma nel momento in cui siete nel bisogno vi tenderà la sua mano salvifica”.
Sant'Angela Merici
Angela offre alle donne del suo tempo un nuovo stile di vita, quello della Consacrazione a Dio, scelta liberamente e vissuta da “spose del Figlio di Dio” aperte alla maternità dello Spirito, pur rimanendo nel mondo in famiglia o nel proprio ambiente di lavoro.
SANT'ANGELA MERICI
Nata tra il 1470 e il 1475 a Desenzano del Garda, Angela trascorre l’infanzia e l’adolescenza nella cascina delle Grezze, tipica abitazione contadina del tempo, circondata da campi e isolata dal mondo. È qui che alla sera, nella grande cucina, ella ascolta dal padre la lettura delle vite dei santi, tra le quali ebbe certamente un posto di grande rilievo la leggenda di sant’Orsola. Ben presto e ripetutamente la morte bussa alla porta di quella casa. Infatti, nel volgere di pochi anni muoiono ad Angela tre fratelli maggiori ed entrambi i genitori. Con l’unica sorella che le è rimasta viene amorevolmente accolta dagli zii Biancossi. Questo significa per loro lasciare il paese natale e recarsi a Salò, lasciare un luogo amato e carico di ricordi per andare in una cittadina ricca e mondana. Angela in particolare avverte il disagio del cambiamento. Essendo di indole serena e affabile, si attira la simpatia e la benevolenza di tutti; tuttavia tende ad appartarsi, a nascondersi tra i pergolati, a costruire, quasi per gioco, piccoli eremi…
Questa sua propensione al silenzio e al raccoglimento non le impedisce di essere vitalmente inserita nella società, di cui a poco a poco conosce le tante forme di povertà materiali, morali e spirituali, e i problemi più “scottanti”, come ad esempio il progressivo e inesorabile isolamento delle donne. Anche questo è un periodo triste della storia: vite miseramente abbrutite e stroncate dal vizio, dal gioco, dalla passione, liti tra cittadini, lotte partitiche sono le notizie di cronaca quotidiana. Al culmine, avviene la tragica insurrezione guidata da Gastone de Foix, quel “carnevale di lacrime e di sangue” che in un giorno e una notte rende quasi deserta la città di Brescia: le fonti parlano di undicimila vittime. Anche all’interno della Chiesa vi era disordine e degrado morale, in particolare proprio là dove la vita religiosa dovrebbe maggiormente risplendere, tra il clero e nei monasteri.
“NON RIUSCITE A CAPIRE CHE QUESTA CECITÀ MI È STATA MANDATA PER IL BENE DELLA MIA ANIMA?”
In un quadro tanto squallido, spiccano per santità alcuni laici cristiani: Angela fa parte di questa nobile schiera. Già positivamente segnata dall’educazione religiosa ricevuta in famiglia, nella prima giovinezza ha una visione “vocazionale” che orienta tutta la sua vita: “Alla stagione della mietitura, mentre le compagne facevano merenda, lei si metteva in disparte per pregare. Un giorno che era assorta in preghiera, le parve che si schiudesse il cielo e ne scendesse una processione meravigliosa di angeli e di vergini, alternati a due a due; gli angeli suonavano diversi strumenti musicali mentre le vergini cantavano.
Il motivo era così distinto che ella lo ritenne a mente così da saperlo poi cantare. Snodandosi la processione, le venne incontro una vergine nella quale riconobbe la sorella morta da poco, dopo una breve vita virtuosa. Arrestatosi il corteo, ella le predisse che Dio voleva servirsi di lei per istituire una Compagnia di vergini”. Sentendo il bisogno di un sostegno spirituale, veste il saio come terziaria francescana; si nutre assiduamente di Parola di Dio e di eucaristia e ne è talmente trasformata da destare stupore e ammirazione per la sua sapienza spirituale e per la sua bontà. Angela infatti non ha istruzione, non ha frequentato la scuola; forse ha appreso a leggere soltanto stando seduta accanto al padre che leggeva le vite di santi per tutti ad alta voce.
La sua sapienza attira predicatori e teologi desiderosi di sentire le sue esposizioni, e si riflette nel suo Testamento spirituale e nei Ricordi, che dettò ad Agostino Cozzano, come pure nella Regola composta per la Compagnia delle vergini: testi semplici, intessuti di numerose e appropriate citazioni scritturistiche che denotano una conoscenza viva della Parola di Dio. Angela Merici è così un esempio quanto mai eloquente della fecondità della lectio divina – lettura pregata della Sacra Scrittura – che il concilio Vaticano II ha riproposto all’attenzione di tutti i cristiani.
Il suo desiderio di purificazione e di conversione si esprime anche nel fare frequenti pellegrinaggi. Indimenticabile tra tutti è quello in Terrasanta da lei ardentemente desiderato per poter “vedere con i propri stessi occhi” la terra di Gesù. Lungo il viaggio improvvisamente diventa cieca, ma non desiste. Donna agile e intraprendente, incurante dei disagi e avvezza alle fatiche, ora deve essere condotta per mano… Lei stessa commenta: “Non riuscite a capire che questa cecità mi è stata mandata proprio per il bene della mia anima?”. Giunta nel luogo tanto sospirato, quella sua cecità, lungi dall’essere un impedimento al suo pellegrinaggio, le permette di rivivere con mistica partecipazione le tappe della vita di Gesù e sulla via del ritorno in patria – o, secondo altre fonti, poco dopo il suo rientro – Angela riacquisterà miracolosamente, la vista. Si giunge così al 1527, quando ella, stremata da fatica e dolore, cade gravemente malata, al punto che si teme la sua morte…
FONDA L'ORDINE DELLE ORSOLINE
In realtà l’ultima pagina della sua santa vita resta ancora da scrivere. All’improvviso recupera le forze e può riprendere il suo servizio. A questo punto il suo prudente e illuminato confessore, padre Serafino da Bologna, insiste con lei perché dia vita a quella “Compagnia di vergini” di cui ha avuto intuizione fin dalla giovinezza. Angela esita un poco, poi acconsente. Moltissime in quell’epoca erano le donne che non potevano essere né spose né monache (unica forma di vita religiosa femminile allora ammessa). Il loro destino era drammaticamente segnato dall’emarginazione e dall’abbandono fino alla mendicità. Proprio per loro Angela ripropone, attingendola direttamente dalla Sacra Scrittura, la condizione sociale di “vergini consacrate nel mondo”. Non una soluzione di ripiego, ma una libera scelta di vita che risale alle origini della Chiesa.
Convocate alcune donne a lei molto legate, Angela espone loro l’ideale della nuova Compagnia di sant’Orsola, che avrà inizio ufficialmente il 25 novembre 1535. Il suo intento è – come si legge in un antico documento – di “seminare piante di verginità tra le spine del mondo”. La parola d’ordine è semplice: santificare se stesse per santificare la famiglia e la società.
Angela sa bene che non si tratta di vivere un idillio, ma di affrontare nel mondo la battaglia della fede e del buon costume. Le vergini consacrate dovranno essere unite per “essere torre inespugnabile contro tutte le avversità, persecuzioni e inganni diabolici”. Alle responsabili dice: “State in guardia et specialmente abbiate cura che siano unite e concordi di volere, come si legge degli apostoli e altri cristiani della primitiva Chiesa”. Presentendo, a un certo punto, la fine, nei suoi Ricordi lascia alle sue figlie un messaggio di fede e di amore. Separata da loro con il corpo, sarà ancor più vicina a loro nello spirito: “Jesu Christo per sua bontà immensa mi ha eletta di esser matre et viva et morta di così nobil compagnia. Et io sempre sarò in mezzo di voi”.
LA MORTE E IL METODO EDUCATIVO NEL TESTAMENTO SPIRITUALE
Nel 1539 Angela fu colpita da una malattia, che fra alti e bassi la condusse alla morte il 27 gennaio 1540; per trenta giorni, i canonici di Sant’Afra e quelli del Duomo, si contesero l’onore di seppellire nella propria chiesa, l’ex contadinella di Desenzano; la spuntarono quelli di sant’Afra e oggi la chiesa, dove riposano le sue spoglie, si chiama Santuario di Sant’Angela, meta di continui pellegrinaggi provenienti specialmente dal mondo orsolinico; la chiesa, distrutta in gran parte dai bombardamenti del 1945, è stata ricostruita nel 1953.
Nel testamento spirituale, Angela tratteggiò le linee essenziali del suo metodo educativo, basato tutto nel rapporto di sincero amore tra educatore ed educando e sul pieno rispetto delle libertà altrui. Così lasciò scritto alle sue Orsoline: “Vi supplico di voler ricordare e tenere scolpite nella mente e nel cuore, tutte le vostre figliole ad una ad una; e non solo i loro nomi, ma ancora la condizione e indole e stato e ogni cosa loro. Il che non vi sarà difficile, se le abbracciate con viva carità… Impegnatevi a tirarle su con amore e con mano soave e dolce, è non imperiosamente e con asprezza, ma in tutto vogliate essere piacevoli. Soprattutto guardatevi dal voler ottenere alcuna cosa per forza; perché Dio ha dato a ognuno il libero arbitrio e non vuole costringere nessuno, ma solamente propone, invita e consiglia…”.
LA CANONIZZAZIONE NEL 1807
Nel 1568 furono raccolte le deposizioni di quattro testimoni che avevano conosciuto Angela, ma dovettero trascorrere altri due secoli, prima che un’orsolina claustrale di Roma, si facesse postulatrice della causa di beatificazione, ottenendo il decreto di conferma del culto come Beata, il 30 aprile 1768, da parte di papa Clemente XIII. Il 24 maggio 1807, Angela Merici fu proclamata Santa da papa Pio VII e papa Pio IX nel 1861, ne estese il culto a tutta la Chiesa universale. Una statua scolpita nel 1866 dallo scultore Pietro Galli, la ricorda nella Basilica di S. Pietro in Vaticano. Nella liturgia ebbe varie date di celebrazione, prima il 31 maggio, poi dal 1955 il 10 giugno e infine il 27 gennaio, giorno della sua morte.
La fede nella bellezza dell'Amore in Simone Weil
La fede, in Simone Weil, non nasce da un itinerario conoscitivo d’ordine concettuale, ma da un vissuto personale, un'esperienza di contatto diretto col Cristo, col Dio incarnato.
Il suo percorso di fede non si presenta quindi come esito di un processo intellettuale che tenda, secondo il modello classico, tomistico, a provare, o anche solo giustificare razionalmente l'esistenza di Dio. Si potrebbe dire che Simone Weil non tenta di “catturare Dio”, né con l’acume della mente né con la tenacia della volontà. È vero piuttosto il contrario: si lascia catturare da Dio (scrive: «Dio è disceso e mi ha presa»). E da ciò ricava una convinzione di ordine teologico più generale: non è mai l'uomo che va verso Dio, è sempre Dio che va verso l'uomo - parla esplicitamente di «discesa di Dio» - mentre ciò che dovrebbe essere proprio dell'uomo è l'atteggiamento di attesa, l’apertura all’incontro. Dice nei Quaderni: «Non sta all'uomo andare verso Dio, ma a Dio andare verso di lui» (Q II, p. 212).
Lei, di formazione illuminista, una volta investita dall’esperienza di fede, non nega affatto il primato della ragione. Anzi, più volte ne conferma il valore strumentale, altissimo, nel comprendere e valutare le realtà mondane. Ma, oltre l’ambito della ragione, riconosce quello in cui può operare solo l’intelligenza soprannaturale, che nell'essere umano si attiva mediante il contatto mistico col divino. Contatto misterioso, indicibile, ma, al tempo stesso, concreto, strettamente personale. Dono, grazia: «Rivelazione e ragione, fede e ragione; la ragione è sempre l'unico strumento. Ma vi sono cose che la ragione afferra soltanto nella luce della grazia» (Q II, 159).
Ciò vale, in particolare, in rapporto ai misteri della fede cattolica, così come vengono espressi e, in un certo senso, codificati nei dogmi.
I misteri della fede cattolica (e delle altre tradizioni religiose o metafisiche) non sono fatti per essere creduti da tutte le parti dell'anima. La presenza di Cristo nell'ostia non è un fatto […] altrimenti non sarebbe soprannaturale. […] Solo la parte di me fatta per il soprannaturale deve aderire a questi misteri. Ma tale adesione è piuttosto amore che credenza. […] I misteri della fede non possono essere affermati né negati, ma posti al di sopra di ciò che affermiamo e neghiamo. Dal momento che ci troviamo, di fatto, in un'epoca di incredulità, perché trascurare l'uso purificatore dell'incredulità? (Q II, pp. 166-167).
L'agnosticismo, posizione da lei tenuta per buona parte della sua vita, fino agli ultimi anni, e l'ateismo stesso, sono esperienze di messa in discussione radicale della credenza religiosa. Eppure, non solo non ostacolano l'esperienza di fede, ma possono persino favorirla, in quanto processi di purificazione capaci di liberare la mente da quanto, in ogni credenza religiosa, finisce per rivelarsi inessenziale perché inerente a un orizzonte mitico-simbolico e linguistico di cui l'uomo d'oggi non coglie più il senso.
Inoltre, il passaggio attraverso l’esperienza dell’agnosticismo o dell’ateismo, favorendo lo sviluppo del pensiero critico, se in seguito si aderisce alla fede, dovrebbe maggiormente preservare dal rischio di viverla come mera credenza, cioè in modo rigidamente dogmatico, oppure come esperienza consolatoria: miracolismo, attesa di compensazioni ultraterrene, ecc.
Questa sua convinzione resta salda e anzi si rafforza dopo l'esperienza mistica personale. Leggiamo sempre nei Quaderni: «La religione in quanto fonte di consolazione è un ostacolo alla vera fede, e in questo senso l'ateismo è una purificazione. Io debbo essere ateo con la parte di me che non è fatta per Dio. Tra gli uomini la cui parte soprannaturale non si è destata, hanno ragione gli atei e torto i credenti» (Q II, p. 165).
Importante è però capire in che senso la sua esperienza di fede da lei stessa è qualificata con l'attributo di mistica. Non vi è nulla di sentimentale né intimistico nel suo contatto personale col Dio incarnato, nulla di ciò che abitualmente si pensa o si sa della mistica femminile. Lei stessa ha sempre avuto massima reticenza a parlarne: ne ha parlato solo, molto sobriamente, al padre Perrin e all'amico poeta Joe Bousquet. Per comprenderne qualcosa, occorre partire dal presupposto che la sua concezione di Dio è del tutto apofatica (in questo si richiama, anche in modo esplicito, alla mistica renana di Meister Eckart). Questo significa che su Dio la nostra mente non sa e non può dire nulla, in quanto non v'è concetto che sia in grado di racchiudere la realtà divina nelle maglie di una definizione logica: non solo non è possibile dimostrarne l’esistenza, ma neppure si può dire alcunché della sua essenza. Dio è l'Inconoscibile: «La fede. Credere che niente di ciò che noi possiamo afferrare è Dio. Fede negativa. Ma credere anche che ciò che non possiamo afferrare è più reale di ciò che possiamo afferrare» (Q II, p. 142). E scrive anche: «Dio e il soprannaturale sono nascosti e senza forma nell'Universo. È bene che siano nascosti e senza nome nell'anima. Altrimenti si rischia di assumere sotto questo nome qualcosa di immaginario» (Q II, p. 154).
Il mistero può essere solo accolto e contemplato con attenzione, con amore, con sete di verità, senza la pretesa di afferrarlo o, peggio ancora, di definirlo. Altrimenti la fede degenera in idolatria. Ma a Simone Weil sta a cuore precisare la nozione stessa di mistero. Lo fa in termini di passaggio al limite, ovvero salto conoscitivo da un ambito all'altro: dall'ambito della ragione dialettica, tutto umano, a quello soprannaturale (intuizione, illuminazione, grazia che si offre all'attenzione e alla contemplazione). È utile leggere come è illustrato questo salto.
La nozione di mistero è legittima quando l'uso più logico, più rigoroso dell'intelligenza porta in un vicolo cieco, a una contraddizione inevitabile, nel senso che la soppressione di un termine rende l'altro vuoto di senso e porre un termine costringe a porre l'altro. Allora la nozione di mistero, come una leva, trasporta il pensiero dall'altra parte del vicolo cieco, dall'altra parte della porta che non è possibile aprire, al di là dell'ambito dell'intelligenza, al di sopra. Ma per pervenire al di là dell'intelligenza, bisogna averlo attraversato fino in fondo, e seguendo un percorso tracciato con rigore irreprensibile. Altrimenti, non si è al di là, ma al di qua. (Q IV, pp. 164-165).
Tutti i misteri essenziali della fede (incarnazione, quindi divinità e umanità compresenti in ugual misura in Gesù; trinità, ovvero sintesi perfetta di unità e molteplicità, morte e risurrezione...), sottoposti al vaglio della ragione (come occorre che sia, e fino in fondo) culminano in una aporia, cioè un vicolo cieco, una contraddizione insolubile, una porta chiusa.
Il mistero agisce allora come una «leva», che, nella sua apparente imponderabilità, permette il salto al gradino più alto, quello dell’intelligenza soprannaturale.
Ma in qual modo ciò avviene? Qui entra in campo un'altra intuizione decisiva nella spiritualità di Simone Weil: il valore della passività, della ricettività, dell’attesa paziente di un’illuminazione, che è l'opposto dello sforzo “muscolare” di volontà e intelletto; è luce che promana dalla verità stessa. Proprio perciò, è grazia. Il concetto fondamentale è quello greco di verità intesa come alètheia, come uno svelarsi, un togliersi, uno dopo l'altro, dei veli che coprono la realtà e ne impediscono la visione. Questo processo veritativo non è un atto di forza della mente. Nei limiti e nella misura in cui si dà, esso è una visione d'insieme, un lampo di luce, grazie al quale, d’un tratto, le contraddizioni non si manifestano più come opposizioni irriducibili, ma come correlazioni: non aut/aut, ma et/et. (es. Gesù Cristo è sia uomo sia Dio; la condizione umana è segnata sia dalla sventura sia dalla gioia, la natura contiene in sé sia l’orrore distruttivo sia il dono della bellezza, ecc.). Dietro queste immagini c'è il mito platonico della caverna, su cui spesso Simone Weil torna a riflettere nelle sue pagine: la condizione corrente degli uomini è il vivere nella caverna; avere quindi, senza saperlo, una conoscenza alterata, distorta, della realtà. Uscire dalla caverna comporta uno strappo doloroso, e non solo della mente, ma di tutto se stesso, in quanto l’uomo preferisce la schiavitù alla libertà, e con le sue sole forze mai saprebbe liberarsi dalle catene. La visione piena della luce solare, all’aperto, non è frutto di sforzo, ma evento di illuminazione, che irradia dall’alto. Dopo essere stato investito dalla luce, però, l’uomo liberato dovrà tornare nella caverna ad aiutare i propri simili a liberarsi a loro volta. Quindi la dimensione metafisica dell’esperienza non è affatto scissa da quella politica, anzi. Le due realtà sono intrinsecamente connesse, al punto che l’una implica necessariamente l’altra. (Si rimanda, per chi voglia, al mito della caverna in Platone, Repubblica, Libro VII).
Va poi precisato che, per Simone Weil, non è solo nell'ambito delle verità di fede che il pensiero, passando di soglia in soglia, si scontra con contraddizioni insanabili. Lo stesso capita ogni volta che un ragionamento d’ordine filosofico, portato avanti col massimo rigore, si spinge fino al limite della comprensione razionale. Simone Weil lo dice servendosi di un linguaggio denso di paradossi.
Il metodo proprio della filosofia consiste nel concepire in modo chiaro i problemi insolubili nella loro insolubilità, quindi nel contemplarli senz'altro, fissamente, instancabilmente, per anni, senza nessuna speranza, nell'attesa. [...] Il passaggio al trascendente avviene quando le facoltà umane – intelligenza, volontà, amore umano – cozzano contro un limite, e l'essere umano resta sulla soglia, al di là della quale non può fare un passo, e questo senza lasciarsene distogliere, senza sapere che cosa desidera e teso nell'attesa. (Q IV, p. 363).
Dunque, essenziale, salvifica, si rivela l'accettazione del vuoto, la capacità di reggere a quella che lei definisce “estrema umiliazione dell'intelligenza”. Solo una mente geniale si spinge a tanto; gli esseri mediocri amano adagiarsi nelle false certezze, in filosofia come in religione, pur di non fare i conti con questo vuoto. Il vuoto è la notte oscura, della mente e del cuore, è l'esperienza mistica per eccellenza: implica la coscienza dell'inafferrabilità del mistero e, al tempo stesso, l'attesa che un raggio di luce discenda. Vale la pena ricordare che la notte oscura è l'immagine dell'esperienza mistica così come è raccontata dal grande mistico spagnolo San Giovanni della Croce, al quale la sensibilità di Simone Weil è molto vicina. I richiami, nei suoi scritti, sono frequenti.
Ma parlare del vuoto è parlare dell'assenza di Dio in questo mondo: constatarla, di fatto, nella storia, nei suoi drammi, questa tragica assenza. Il mondo contemporaneo, per Simone Weil, è caduto in preda a una totale dismisura. Lo dice del suo tempo, come anche noi possiamo dirlo del nostro. Ovunque v'è eccesso, v'è rottura dell'armonia, a tutti i livelli dell'esperienza umana: psicologico (crisi dell’identità del soggetto), sociale (frenesia consumista, accaparramento di ricchezze, esasperazione della conflittualità tra individui e gruppi (la guerra ne costituisce l'esito estremo), politico (collasso delle democrazie e dei partiti, particolarismi, localismi, lotta tra gruppi di potere, ecc.), ecologico (sfruttamento dissennato di risorse naturali), bioetico (la scienza piegata quasi interamente alle esigenze di una tecnica percepita come idolo onnipotente e, di conseguenza, l'ideologia del tutto è lecito se tecnicamente possibile), religioso (sia in termini di vecchi e nuovi integralismi, sia, al contrario, come nichilismo di massa, che poggia su un giudizio di irrilevanza di qualsiasi domanda sulla trascendenza). La dismisura, del resto, non è il tratto dominante solo del mondo contemporaneo; essa è sempre stato l’atteggiamento di fondo dell'uomo, la modernità non ha fatto che accelerarlo e renderlo comportamento di massa. Frequente, nei testi di Simone Weil, è il riferimento alla tragedia greca, in cui la hybris (dismisura, tracotanza) è alla radice del male che il protagonista attira su di sé e sulla sua comunità, nella misura in cui non riesce a liberarsene. C'è un altro termine greco con cui definisce questa stessa radice del male nell'uomo: pleonexia. «La pleonexia è il peccato originale. Desiderio d'ingrandirsi». (Q III, p. 333). La tragicità della condizione umana si lega alla contraddizione, insolubile, tra l'infinita miseria dell’uomo e la sua aspirazione al massimo della potenza: atteggiamento che induce all'uso indiscriminato della forza ogni volta che se ne dà concreta possibilità. A rendere il quadro più problematico, si aggiunge l'attaccamento, che è un atteggiamento di fondo dell'essere umano in tutti i suoi legami con la realtà che lo circonda: attaccamento alle cose, ai beni parziali, ai falsi beni, ai desideri, all'ideologia, a una determinata credenza religiosa, alla famiglia, al gruppo d'appartenenza, soprattutto attaccamento a se stessi...
L'antidoto non può che essere il distacco, che Simone Weil considera un'esperienza spirituale essenziale (in questo leggiamo sia l'influsso dello stoicismo greco, sia quello delle filosofie e religioni orientali, attentamente studiate durante il soggiorno a Marsiglia). La pratica del distacco si offre all'uomo come disciplina interiore che porta a svincolarsi da quella centralità che la nostra immaginazione, spinta dal desiderio di potenza, ci illude di occupare in questo mondo, come singoli e, ancor più, come specie umana. Leggiamo le sue parole:
Al pari di Dio, che è al di fuori dell'universo e nel contempo ne costituisce realmente il centro, ogni uomo immagina di essere al centro del mondo. […] Noi siamo nell'irrealtà, nel sogno. Rinunciare alla nostra immaginaria collocazione al centro, rinunciarvi non solo con l'intelligenza ma anche nella parte immaginativa dell'anima, significa destarsi al reale, all'eterno, vedere la vera luce, udire il vero silenzio. [...] Svuotarsi della propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare a essere con l'immaginazione il centro del mondo, riconoscere che tutti i punti del mondo sono centri a pari titolo, e che il centro vero è situato al di fuori del mondo, significa acconsentire al regno della necessità meccanica nella materia e al regno della libera scelta al centro di ciascuna anima. Un simile consenso è amore. La faccia di questo amore rivolta alle persone pensanti è carità verso il prossimo; quella rivolta alla materia è amore per l'ordine del mondo, ovvero – che è poi la stessa cosa – amore per la bellezza del mondo. (“Forme dell'amore implicito di Dio”, in Attesa di Dio, p. 119-120).
Questo brano, con un linguaggio poetico e rigoroso al tempo stesso, sintetizza alcuni punti centrali della riflessione spirituale di Simone Weil, cui in parte abbiamo già accennato. Se, rispetto al contatto mistico col divino, l'unico atteggiamento possibile da parte dell'essere umano è l'attesa, per quanto invece riguarda il tema della libertà, esso non va certo inteso come libertà d’agire anche al di là delle proprie risorse, fino all’assenza totale di limiti, fino all’arbitrio, alla prevaricazione. Al contrario, per Simone Weil, la libertà che salva – salva il singolo ma, assieme a lui, salva il mondo – è libertà di rinunciare alla potenza, di decentrarsi, di compiere una sorta di rivoluzione copernicana sul proprio io, riconoscendo pari dignità e valore a tutto ciò che è altro da noi («tutti si credono centro...»), ma riconoscendo anche che il centro del mondo non è in questo mondo, ovvero che Dio è trascendente, il suo punto di osservazione sulle cose non può coincidere con il nostro, perciò ci sfugge, non possiamo afferrarlo (Il Dio apofatico di cui si è detto).
Ma che cosa allora è possibile? Lo dice nelle ultime righe di questa citazione che abbiamo riportato: accettare, da un lato, che il mondo sia governato dalla necessità – ovvero da leggi autonome, su cui non solo noi, ma persino Dio non può intervenire, in quanto ha concesso alla natura la stessa autonomia che ha dato all'uomo – dall'altro lato, che l'unica prerogativa che ci fa essere uomini non è l'esercizio della forza, ma quello della libertà della coscienza. Consentire a questa visione del rapporto Dio-uomo-mondo non è una decisione razionale, è un atto d'amore, un consenso (parola molto importante nel lessico weiliano), un dire il proprio sì a questa rivoluzione copernicana, il cui esito, mai del tutto acquisito nella condizione umana, è la rinuncia piena all'io, quella che Simone Weil chiama decreazione. Non si tratta di singoli atti, ma di un modo d'essere, plasmato sull’imitazione del Dio creatore che, nell'atto stesso in cui ha dato vita all'universo, si è ritirato, lasciando spazio alle cose, alla natura, all'agire umano, mano a mano che questo, nel processo evolutivo, ha cominciato a esprimersi secondo libertà. Ma è imitazione anche del Dio incarnato in Cristo che, in tutto il suo percorso di vita umana, soprattutto attraverso la crocifissione, ha vissuto in modo perfetto, a noi impossibile, lo svuotamento di sé; la rinuncia all'io, alla centralità, alla forza.
Decentrarsi da sé è dare un nuovo orientamento, radicalmente diverso, al proprio sguardo sulle cose. Non v’è altro modo per liberarsi, per gradi, dalle categorie mentali che ci ingabbiano: ideologie, credenze, dogmatismi, nazionalismi, familismi, egocentrismi ed altro ancora. Più ne diventiamo capaci, più ci avviciniamo, quasi fino a farlo nostro, al punto di vista globale, che è fuori del mondo, ed è (o si immagina sia) quello di Dio. Punto di vista destinato comunque a restarci ignoto, velato, in ombra, almeno fin tanto che saremo in vita, se è vero, come dice san Paolo, che l'uomo, nella vita terrena, conosce il mondo solo «per speculum et in ænigmate».
Ma qualcosa di Dio, a quelli che lo amano, si rivela non in via diretta, ma attraverso i metaxy, ossia esperienze di vita mediatrici tra l'umano e il divino, che agiscono come ponti, come passerelle. In cosa consistono? Anzi tutto la bellezza, sia naturale che artistica, che è il modo più trasparente in cui Dio ci si rivela, e accanto ad essa la compassione, la carità verso il prossimo, ma anche la sventura, a patto che preservi nell'anima la capacità d'amare, l'eros, quando sa essere sete di conoscenza, la giustizia, quando è capacità d'ascolto verso i più deboli, e la scienza stessa, quando non è al servizio esclusivo della tecnica ma, secondo il modello greco, ormai estraneo alla modernità, sa porsi come contemplazione dell'ordine del mondo: nella materia, nell'energia, in quella tessitura nascosta della realtà che sfugge ai sensi.
Sono queste le possibili vie di salvezza per l’uomo? Simone Weil le vede con una bellissima immagine come corde che, dall’alto, sono lanciate al naufrago: egli deve saperle afferrare e, grazie ad esse, costruire un nuovo equilibrio di forze tra il mare in tempesta e i propri muscoli che lottano per resistere. L’esito della battaglia non è mai certo: c’è un gioco di forze, divine e umane, complesso, misterioso, dietro ogni processo di salvezza. Nessuna esperienza è equiparabile all’altra, tuttavia le corde in ogni caso servono, sono indispensabili.
Si capisce da qui come sia difficile per Simone Weil accettare una interpretazione della morte di croce del Cristo concepita in termini sacrificali: del capro espiatorio che, una volta per tutte nella storia, ha dato se stesso, la sua vita, in espiazione vicaria dei nostri peccati; li ha portati su di sé e ce ne ha liberati. Come spiegare allora tutto il male che, prima e dopo d’allora, ha continuato a dilagare nel mondo, trovando di certo un ostacolo nella bontà di un resto di giusti, sempre sussistente, ma non è stato né arginato né tanto meno sconfitto.
Il discorso è lo stesso anche per la Resurrezione che, a Simone Weil, pone più problemi di quanti non ne risolva, nella misura in cui la si legge come trionfo, definitivo, sul male e sulla morte stessa. Non a caso, come leggiamo nei Vangeli, Cristo riappare ai suoi, parla con loro, mangia con loro, viene da loro percepito come presenza reale, benché dapprima essi stentino a riconoscerlo, ma poi si distacca, deve allontanarsi, deve andar via, ascendere al Padre, perché lo Spirito discenda in mezzo a loro. Per dirla con la bella metafora di Simone Weil, l’uomo, a sua volta, deve imparare a lottare, nelle tempeste della vita, con le sue bracciate, deve acquisire la tecnica del movimento autonomo, sia pure grazie alle corde tese al cielo: i metaxy altro non sono che doni dello Spirito (giustizia, carità, amore, bellezza…) e nutrimento per l’uomo, un nutrimento che, per Simone Weil, opera con la potenza spirituale dei sacramenti.
Compassione e gratitudine.
Simone Weil
«Nell'amore vero non siamo noi ad amare gli sventurati in Dio, è Dio in noi che li ama. Quando siamo nella sventura, è Dio in noi che ama coloro che ci vogliono bene. La compassione e la gratitudine discendono da Dio, e quando vengono donate attraverso uno sguardo, Dio è presente nel punto in cui gli sguardi si incontrano» (1).
L’immediatezza dello sguardo umano verso la sventura -che porterebbe all'intervento, ad un gesto di solidarietà- cede il passo all'elaborazione delle accuse nei confronti dell’oppresso. La calunnia è funzionale all'indifferenza, serve a giustificare il fatto di non prendersi cura dell’altro. Il “colpevole” merita la sventura e la sua presenza può essere sorpassata senza interrompere gli affari del fariseo di ieri, del borghese di oggi. La compassione nella società che corre solo in avanti, calpestando e lasciando morti e feriti, è un atto illegale. La gratitudine nella società dello scambio e della mercificazione delle relazioni sociali è una forma di obiezione di coscienza. Infatti, la compassione e la gratitudine non essendo rilevate dal Pil, mettono a repentaglio il patto scellerato tra produttori (che sfruttano e inquinano) e consumatori (che sprecano e inquinano). Ma quando qualcuno si sofferma sul dolore del diseredato, scegliendo la condivisione e facendosi carico della propria parte di responsabilità umana, Dio può irrompere nella storia. La sbarra che preme sulle spalle degli oppressi viene, così, sollevata, riprende il respiro della speranza, si riaccende la stella che il Sistema a misura di mercato ordina di spegnere: quella della novità.
Bellezza.
«Tutto ciò che ha qualche rapporto con la bellezza deve essere sottratto al corso del tempo. La bellezza è l’eternità in questo mondo» (2).
La bellezza nella società borghese riguarda, nel migliore dei casi, l’arte e la musica; nel peggiore, i centri estetici. La bellezza, invece, è soprattutto benevolenza, per questo è eterna. Non ha bisogno di conservazione, trucchi o peggio di lifting. L’atto gentile sconfigge il male ed è incancellabile. Apre brecce da cui penetra la luce divina che rischiara le tenebre della sopraffazione. Scava fenditure in cui si rifugia l’anima in cerca di consolazione (3). L’atto gentile restituisce il senso all'esistenza continuamente negato dalla violenza del Sistema.
Compassione, gratitudine e bellezza indicano, quindi, una prospettiva diversa da quella accettata e predicata a reti unificate dall'uomo borghese. Occorre prenderne coscienza ed iniziare ad agire di conseguenza. «Una delle verità fondamentali del cristianesimo, oggi misconosciuta da tutti, è che lo sguardo è ciò che salva» (4).
Simone Weil La porta è davanti a noi
Francesca Simeoni
La porta è davanti a noi; a che serve desiderare?
Meglio sarebbe andare senza più speranza.
Non entreremo mai, siamo stanchi di vederla.
La porta aprendosi liberò tanto silenzio
Che nessun fiore apparve (...)
Solo lo spazio immenso
apparve d'improvviso da parte a parte, colmò il cuore,
lavò gli occhi quasi ciechi sotto la polvere. [3]
Una vita esigente
Simone Weil: donna forte, esagerata e scrupolosamente attenta alla bellezza del mondo, storico, fisico e interiore. Imbarazzante tentare di tracciarne un ritratto o di condensarne il pensiero: si ha l'effetto di mancanza e di insufficienza proprio dei profili di grandi pensatori, di grandi uomini e donne. La sua vita [4] ed i suoi scritti svelano un carattere poliedrico, eppure chiaramente e intimamente unificato, tratto tipico del femminile, capace di sfumature e di coesistenza nella complessità.
Nacque nella Parigi dei primi del Novecento (3 febbraio 1909) in una famiglia medio-borghese. I genitori, ebrei di origine ma non legati ad alcuna tradizione religiosa, avevano saputo creare un ambiente familiare ricco di stimoli culturali per i figli Simone e André.
Negli studi la piccola Simone era vivace e molto brillante. Durante gli anni al liceo Henry IV trovò un punto di riferimento in Alain, nome col quale si presentava il filosofo Emile Chartier, suo professore, docente il cui atteggiamento socratico, scettico e aperto segnò la formazione di diverse generazioni di intellettuali francesi, mettendo i suoi studenti a contatto diretto con i grandi filosofi e suscitando anche in Simone Weil l'amore per la libertà incondizionata del pensiero.
Nel 1928 entrò all'École Normale Supérieure e nel '31 ne uscì con il titolo per l'insegnamento della filosofia. Inizia così la sua professione di docente nei licei femminili di Le Puy, Auxerre e poi Roanne e Bourges. Sono i primi anni Trenta, anni di dura crisi economica e mentre insegna, Simone Weil avverte la necessità di condividere la sorte degli operai suoi concittadini: inizia così un'intensa attività sindacale, condivide con loro il suo stipendio, partecipa all'organizzazione di corsi serali per minatori, si mette insieme agli "sventurati", non per essere prima tra gli ultimi, ma per essere. Questa condivisione, fino all'impiego in diverse fabbriche parigine, è accompagnata da una tagliente riflessione critica, sociale e politica, sulla condizione dell'oppressione e della libertà dell'uomo contemporaneo. [5]
Partecipa intensamente alla storia e al suo tempo, si reca diverse volte in Germania per testimoniare gli effetti della crisi. Nel 1936, allo scoppio della guerra civile in Spagna, avverte l'impossibilità di restarne fuori e si arruola tra le file anti-franchiste. Per problemi fisici è costretta a rientrare e, a causa di frequenti emicranie che la colpiscono fin da bambina, si reca in Svizzera e in Italia per le cure. Così nella primavera del 1937 visita Milano, Firenze, Roma: è un periodo sereno e di grandi emozioni per la sua insaziabile ricerca.
Ad Assisi ha inizio per lei la scoperta di una parte fondamentale della sua umanità, una svolta repentina e decisiva, che riconoscerà l'anno dopo durante la Pasqua nell'abbazia benedettina di Solesmes. ln modo personalissimo e netto fa l'esperienza dell'amore divino in Cristo, che accende la sua spiritualità, già intensa e ostinata. Si immerge così nella lettura della Bibbia, riprende i classici greci, esplora gli scritti dell'antico Egitto.
Nel 1940 allo scoppio della guerra è costretta a rifugiarsi a Marsiglia con i genitori, dove rimane fino al '42 e trascorre uno dei periodi più fecondi della sua vita spirituale e della sua ricerca intellettuale e ricco di intensi scambi umani: conosce il padre domenicano Perrin e Gustave Thibon, suo grande amico. Le riflessioni prolifiche di questi anni sono raccontate nei Quaderni e negli scritti e nelle lettere raccolti in Attesa di Dio. [6]
Dopo alcuni mesi negli Stati Uniti, nel 1942 si reca in Inghilterra dove si arruola nelle file di "France Combattante", l'organizzazione della resistenza francese in esilio, desiderando di partecipare della vita dei soldati al fronte come infermiera. Muore di tubercolosi in un sanatorio di Ashford il 24 agosto del 1943.
Ogni dettaglio della sua insaziabile vita - le scelte, gli incontri, la forza critica e la determinazione nella condivisione con gli oppressi, fino alle più alte pagine vibranti di un'intensa vita spirituale - è unificato nella sua onesta ricerca di verità, sintesi della sua figura. [7]
Un'intelligenza cordiale
Attraversando gli scritti della pensatrice parigina si ha la percezione di un pensiero che evita ogni sistematizzazione, anzi, che si pone come contrario di ogni sistema, procedendo a ritmo serrato attraverso contraddizioni, corrispondenze, intuizioni penetranti ed evocazioni. L'adesione ad una nitida e cogente coerenza del pensiero lascia spazio infatti alla resistenza della realtà e delle relazioni umane, ponendo al centro una ricerca di senso che tiene insieme rigore razionale, sostanza umana e capacità di grazia. In questa filosofa, dunque, si respira l'impossibilità di una struttura di pensiero chiusa capace di spiegare il tutto, impossibilità che siede nel cuore della cultura contemporanea. Ciò accade anche perché il suo comprendere filosofico è frutto «della sua intelligenza cordiale, indissociabile dal suo essere al mondo con la massa degli oppressi, degli sfruttati, degli schiavi. Se è permesso di "ordinare" i suoi scritti, di trarci dei temi, dei motivi, degli accordi dominanti, questa filosofa di professione non aveva un progetto filosofico. Ella si vuole solamente servitrice docile di una verità che l'abita, portatrice vigorosa di un messaggio che la supera». [8] Vi è infatti un intimo e coltivato legame tra attenzione, amore del prossimo, gusto della bellezza del mondo e amore di Dio che attraversa le pagine weiliane e da cui traspare la sua intelligenza nutrita di passione e aderenza alle cose. L'insieme dei suoi scritti restituisce dunque l'impressione non tanto di un sistema, bensì di un itinerario [9] speculativo ma anche umano e spirituale, percorso che ha un vero valore performativo in chi si pone sulle sue tracce e l'ascolta.
Stare sulla soglia
Seguire Simone Weil nelle sue riflessioni impone al lettore un movimento oscillante continuo tra particolare ed universale, tra intuizioni del sovrannaturale e considerazione del peso concreto della necessità e della materia, tra grazia e pesanteur, [10] due termini chiave per tentare una lettura trasversale del suo pensiero. Nel punto di equilibrio di questa oscillazione risiede la capacità di «dimorare sulla soglia» [11], lì dove l'intelligenza e la condizione umana arrivano ad un ostacolo contro cui cozzano, ad una porta che non si apre, e si esercita la virtù del desiderio e la capacità dell'attesa. La soglia è il luogo in cui i contrari si toccano, in cui la sventura diventa esperienza della grazia, in cui la necessità dura del mondo diventa la sua bellezza, in cui lo svuotamento di sé diventa accoglienza dell'amore divino, in cui la creazione diventa atto di rinuncia di Dio al proprio potere. La centralità della soglia permette inoltre di intuire come il pensiero e l'impegno politici della giovane Weil siano inscindibili dalla parte mistica delle sue opere mature: anche quando è mistica, Simone è ben aderente alla materia; quando parla dell'amore sovrannaturale di Dio, lo associa sempre all'amore dello sventurato e alla bellezza del mondo quale è. «Del resto il suo lavoro non consiste mai nel negare l'umanità dell'uomo, la sua finitezza, il suo limite, la sua carnalità; si tratta piuttosto di concentrarsi su di essa a tal punto e con tale intensità da trasfigurarla, da trapassarla, da coglierla nella sua profondità essenziale, che fa emergere il soprannaturale come l'essenza più profonda del naturale» [12].
Anche riguardo al proprio percorso cristiano Simone Weil rimane sulla soglia: si sente chiamata a stare con gli ultimi anche quando si tratta di chi è escluso dalla Chiesa, a trovarsi nella «intersezione tra il cristianesimo e tutto ciò che è al di fuori di esso» [13]. Per questo, seppur animata da un fervente desiderio di adesione a Cristo, decide di non battezzarsi e di rimanere esterna alla Chiesa, con chi non crede o ne è escluso. Delicatezza e determinazione eloquenti per ogni uomo di fede.
Attendere e fare attenzione
L'atteggiamento della soglia è quello dell'attesa, di chi non forza la porta, ma si fa vuoto di pretese per vedervi oltre. Il tema dell'attendere emerge con nitidezza negli scritti raccolti in Attesa di Dio, dove spunta una breve dispensa [14] preparata per gli studenti dell'amico padre Perrin nella quale Simone Weil, ormai esonerata dall'insegnamento ma per molti anni docente e studente, concentra alcune preziosissime e illuminanti riflessioni per una concezione cristiana degli studi. Lo sforzo che innerva l'esercizio di studio e di comprensione, nota l'autrice, è fatto tutto d'attenzione. indipendentemente dai risultati e dalle nozioni acquisite; tale sforzo non viene mai disperso: esso costituisce una riserva, un allenamento fondamentale che porta i propri frutti, in modo inatteso, nella preghiera. Ogni sforzo d'attenzione, se abitato dal desiderio profondo di verità e se orientato dalla gioia dell'intelligenza, crea un'attitudine rara e di marca squisitamente spirituale. Il pensiero infatti si allena ad attendere, senza ancora aver ottenuto il proprio oggetto, ma semplicemente desiderandolo. In questo modo si crea quello svuotamento che è pura recettività e che permette di accogliere ciò che giunge. Questa capacità di svuotamento e attesa è la sostanza della preghiera, che costringe Dio a scendere verso l'uomo. Ed essa non fruttifica solo nel senso dell'amore di Dio, bensì anche rende capaci di quell'attenzione fine e svuotata di sé verso il prossimo e di quello sguardo capace di vedere lo sventurato, che lo salva.
Rinuncia, attesa e grazia sono dunque i movimenti dell'amore: dall'attenzione dello studio al tirocinio del prossimo, fino al "sacramento" che è l'incontro con l'oppresso: in queste soglie la ricerca di Simone Weil si sofferma, intravvedendovi nitido lo spazio implicito dell'amore di Dio. Un pensiero ferreo e delicatissimo, cui solo una pensatrice poteva donare la propria sensibilità.
"Ogni sforzo d'attenzione,
se abitato dal desiderio profondo di verità
e se orientato dalla gioia dell'intelligenza,
crea un'attitudine rara
e di marca squisitamente spirituale.
Il pensiero infatti si allena
ad attendere, senza ancora aver ottenuto il proprio oggetto,
ma semplicemente desiderandolo.
ln questo modo si crea quello svuotamento
che è pura recettività e che permette
di accogliere ciò che giunge."
Bibliografia essenziale delle Opere di Simone Weil in edizione italiana
- Attesa di Dio, a cura di M.C. Sala, Milano 2008.
- La condizione operaia, a cura di F. Fortini, Milano 1994.
- La prima radice, a cura di E. Fortini, Milano 1990.
- La Grecia e le intuizioni pre-cristiane, a cura di M. Harwell Pieracci e C. Campo, Roma 1999.
- L'ombra e la grazia, a cura di E. Fortini, Milano 2002.
- L'amore di Dio, a cura di G. Bissaca e A. Cattabiani, Roma 1979.
- Quaderni, a cura di G. Gaeta, Milano; vol. I, 1982; vol. II, 1985; vol. III, 1988; vol. IV. 1993.
3 ottobre 1942
In me non c'è un poeta, in me c'è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poeta. In un campo deve pur esserci un poeta, che da poeta viva anche quella vita e la sappia cantare.
Etty Hillesum
Dio, certe volte non si riesce a capire e ad accettare ciò che i tuoi simili su questa terra si fanno l'un l'altro, in questi tempi scatenati. Ma non per questo io mi rinchiudo nella mia stanza, Dio: continuo a guardare le cose in faccia e non voglio fuggire dinnanzi a nulla, cerco di comprendere i delitti più gravi, cerco ogni volta di rintracciare il nudo, piccolo essere umano che spesso è diventato irriconoscibile. In mezzo alle rovine delle sue azioni insensate. Io non me ne sto qui, in una stanza tranquilla ornata di fiori, a godermi Poeti e Pensatori glorificando Iddio, questo non sarebbe proprio tanto difficile, né credo di esser così “estranea al mondo” come dicono inteneriti i miei buoni amici. Ogni persona ha la sua realtà, lo so, ma io non sono una visionaria, persa nei sogni, una “bell'anima” ancora un po' adolescente (Werner diceva del mio “romanzo”: “Da una bell'anima a una grande anima”). Io guardo il Tuo mondo in faccia, Dio, e non sfuggo alla realtà per rifugiarmi nei sogni - voglio dire che anche accanto alla realtà più atroce c'è posto per i bei sogni -, e continuo a lodare la Tua creazione, malgrado tutto!
Etty Hillesum
Imparare a sperare: contro la rassegnazione giungere alla resa
Fabiola Falappa
Sognare qualcosa di improbabile
ha un proprio nome.
Lo chiamiamo speranza.
(Jostein Gaarder) [1]
Avvicinarsi alla sensibilità e alla spiritualità di Etty Hillesum contribuisce, tra i numerosi doni che da lei scaturiscono, a favorire profondamente la rinascita di una cultura della speranza, a partire dal vissuto personale fino ad espandersi all’intera società.
Mi sembra comunemente noto quanto nell’attuale panorama nazionale, e non solo, una cultura della speranza sia spesso abbandonata, dal momento che la mentalità più diffusa è impastata di depressione, rassegnazione, scoramento, cinismo e disperazione.
Probabilmente gli stessi cristiani non fanno grande eccezione; se vivessimo davvero coerentemente ciò che professiamo con la nostra fede saremmo già testimoni e portatori di semi di speranza in atto.
La fiducia è la luce di ogni relazione: con noi stessi, con gli altri, con la vita, con Dio, per chi crede in Dio. La fiducia è l’energia per vivere, la speranza è l’energia per orientare la vita in una certa direzione di bene e di valore.
Possiamo anzitutto verificare se siamo abituati a considerare un atto di fiducia come se fosse niente di più che un’illusione. In tal caso siamo anche noi già pericolosamente vicini allo scoramento, alla durezza di cuore e al cinismo.
Non c’è niente di male se ci siamo messi dentro questo sistema difensivo, il male sta nel restarci, perché se ci restiamo ne saremo soffocati. La paura taglia infatti le gambe alla speranza e le toglie il respiro.
Nessuna speranza senza fiducia
Per tornare alla libertà di fidarsi, perché potersi fidare è una delle più grandi libertà dell’essere umano, occorre avere un riferimento attendibile, credibile. Di solito non ci basta un’idea, e forse neppure un ideale. Occorre che possiamo guardare con fiducia a una persona: un compagno, un amico, un collega. Forse lo stesso Dio, se si ha questa apertura di fede.
A questo punto a qualcuno sembrerà di non trovare nessuno che sia così affidabile. Ma forse per fare questa verifica bisogna prima uscire dall’atteggiamento del giudizio: quante persone giudichiamo senza nemmeno rendercene conto. Se togliamo questa abitudine al giudizio, lasciando che ognuno sia quel che è, vedendo che è di più di quello che noi pensiamo di lei o di lui, sarà più facile capire che esiste qualcuno di cui possiamo fidarci. O almeno qualcuno con cui possiamo provare a costruire una fiducia reciproca.
Ma ogni sforzo verso gli altri sarà vano se intanto non cresce la fiducia in se stessi, di cui la presunzione, ovviamente, è soltanto una caricatura. La fiducia in sé deriva dall’essere stati amati, o dal sentirsi amati oggi, comunque dal riconoscere che, seppure con tutti i nostri difetti, siamo una persona unica al mondo, abbiamo una dignità che non possiamo disprezzare e possiamo essere per altri una fonte magari piccola ma reale di luce, di bene, di speranza a nostra volta.
Le due cose procedono insieme: la fiducia in noi stessi ci aiuta a stabilire relazioni di fiducia con gli altri, così come il fatto che altri contino su di noi fa crescere la nostra fiducia in noi stessi. Per entrare in questo circolo virtuoso non si tratta di mettersi a «fare» qualcosa, basta esporsi alle relazioni togliendosi la corazza del sospetto, della diffidenza, della previsione negativa per scegliere di andare invece verso l’altro con fiduciosa speranza.
Probabilmente è utile oggi tornare a chiedersi di che cosa è fatta la speranza, qual è il suo fondamento e verso chi o che cosa protende?
Il dinamismo sapiente della speranza
Sperare non si riduce mai ad un mero o superficiale ottimismo né solamente a un sentimento perché, in realtà, è un dinamismo specifico dell’esistenza responsabile. Non si spera mai solo per sé, ma lo sperare è autenticamente in atto quando è uno sperare per sé con altri.
«E persino nella sofferenza si può attingere forza. E con l’amore che sento per lui (per S.) posso nutrirmi una vita intera, e altri insieme con me. Bisogna essere coerenti sino alla fine. Si può dire: fin qui posso sopportare tutto, ma se gli succede qualcosa, o se devo lasciarlo, allora non posso più continuare. Anche in quel caso bisogna proseguire. O l’uno o l’altro, ora: o si pensa soltanto a se stessi e alla propria conservazione, senza riguardi, o si prendono le distanze da tutti i desideri personali, e ci si arrende. Per me, questa resa non si fonda sulla rassegnazione che è un morire, ma s’indirizza là dove Dio per avventura mi manda ad aiutare come posso – e non a macerarmi nel mio dolore e nella mia rabbia. Sono ancora in uno stato d’animo singolare. Potrei dire: è come se mi librassi invece di camminare, come se non vivessi dentro alla realtà, come se non sapessi cosa sta succedendo».[2]
Dall’ascolto delle parole di Etty Hillesum ritengo possano essere messi in evidenza almeno tre caratteri fondamentali della speranza.
Il primo ha a che fare con il suo essere già sempre una forza comunitaria. L’abbandonare le nostre preoccupazioni, non lasciare che queste soffochino il nostro respiro e il nostro sguardo tanto interiore quanto esteriore, si declina nell’abbandonare forme di puro egoismo e convertirle in forze di cooperazione e condivisione fiduciosa. Si spera, in tutti i sensi, per gli altri. Perché altri ci hanno insegnato a farlo e sono ragione di speranza per noi. Perché desideriamo una salvezza e un compimento comuni, non certo esclusivamente privati. Perché la speranza genuina non si decide, non si inventa, non è il risultato della nostra volontà, ma nasce come risposta ad una chiamata, a un invito che ci viene da un Altro.
Il secondo aspetto riguarda la radicalità della speranza: dinanzi a qualsiasi evento, di fronte ad ogni «se» la speranza è tale quando non riduce mai, neppure di una virgola, il suo potere. O la speranza è piena e totale o non è speranza. Per questo scrive Etty, riconoscendo la coerenza che la speranza stessa richiede, «anche in quel caso bisogna proseguire». E nel verbo «bisogna» è nel contempo implicato il senso sia del dovere sia dell’urgenza. È come se lei ci consigliasse di agire nella seguente direzione: nella sofferenza non puoi e non devi sostare inerme, ma è necessario che tu reagisca con rapidità e premura, perché c’è un’azione che spetta solo a te compiere e che non puoi trascurare, altrimenti genererai disperazione anziché contribuire ad irradiare speranza!
Un’altra caratteristica della speranza, secondo la spiritualità di Etty, può essere ravvisata nel suo reagire arrendendosi. Dove è chiaro che la resa non è neanche lontanamente accostabile all’essere dimessi, nel sopportare le avversità, ma piuttosto possiede tutto il valore della re-azione fondata sulla fiducia. Arrendersi non perché rassegnati, ma piuttosto perché si sperimenta un senso di abbandono fiducioso, certi che non sprofonderemo nel buio, dal momento che c’è comunque e sempre «una mano» che ci sostiene, anzi ci guida, nell’abbandonarci.
La risposta secondo speranza non ammette et et, ma è il frutto di una scelta radicale e senza mezze misure. Quest’ultime, infatti, a volte generano depressione e scoramento: «da una parte farei, dall’altra però» e ci chiudiamo in un circolo pericoloso che porta solo a concentrarsi sul nostro personale interesse, senza neanche immaginare di alzare il naso e guardare avanti, al futuro, e a chi ci sta dinanzi. Il «come se», al termine del brano scelto, mi sembra possa essere considerato in questo modo solo agli occhi di chi non ha maturato la stessa sapienza di Etty: la sapienza che scaturisce dall’abbandono fiducioso in Dio, la sapienza della speranza, appunto. È lei che ci fa vivere nella realtà «come se» non fossimo di questa realtà, ma solo a partire da una visione superficiale, perché senz’altro la speranza ci sprona ad impegnarci a fondo, in prima persona, con il sorriso però che nasce dalla lucida consapevolezza che il dolore non riesce ad oscurare la bellezza della condizione umana né possiede l’ultima inesorabile parola.
La resa come autentica reazione
Vorrei ancora brevemente sostare sul significato di «resa» per liberare tale parola da ogni pregiudizio che finisce per accostare tale termine alla costellazione semantica della facile e vile rinuncia rassegnata. Per aiutare a delucidare più profondamente la realtà che Etty desidera introdurre con «resa» faccio riferimento ad un passaggio centrale dell’opera, a mio avviso. più preziosa di Dietrich Bonhoeffer perché le loro due anime sembrano procedere di concerto e le loro voci si sovrappongono e si intrecciano perfettamente.
L’essenza dell’ottimismo non è guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando altri si rassegnano, la forza di tener alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma lo rivendica per sé.
«(…) Ci sono uomini che ritengono poco serio, e cristiani che ritengono poco pio, sperare in un futuro terreno migliore e prepararsi ad esso. Essi credono che il senso dei presenti accadimenti sia il caos, il disordine, la catastrofe, e si sottraggono nella rassegnazione o in una pia fuga dal mondo alla responsabilità per la continuazione della vita, per la ricostruzione, per le generazioni future. Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore».[3]
Ciò che Bonhoeffer riferisce all’ottimismo sapiente e lucido, non certo quello superficiale e illusorio, credo possa essere ricondotto al coraggio che in Etty sorge grazie alla forza della speranza. Il maturare nella speranza orienta l’essere umano, facendolo tendere verso una meta di senso; quando l’uomo, la donna, i giovani riconoscono la forza che in loro nasce dallo sperare e non si spaventano di vivere secondo il suo respiro profondo la loro anima diventa realmente intera, senza più scissioni. E per far questo non ci si può sentire schiacciati dal carattere angoscioso e incerto del reale, né rassegnarsi all’ansia insoddisfatta della pienezza non ancora realizzata, ma si è consolati dalla certezza che abbiamo tempo, siamo nel tempo. La speranza è mescolata tanto con la promessa quanto con il sogno, per questo chiede di essere non dimenticata o soffocata, piuttosto condivisa, incarnata e realizzata nella vita.
NOTE
[1] J. Gaarder, Appelsinpiken, Oslo 2003; tr. it. di L. Barni, La ragazza delle arance, Longanesi, Milano 2004, p. 180.
[2] E. Hillesum, Diario 1941-1942. Edizione integrale, Adelphi, Milano 2013 (II ed.), pp. 697-698, i corsivi e la parentesi sono stati da me inseriti.
[3] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, pp. 72-73.
Etty Hillesum
Middleburg 1914 - Auschwitz 1943
DI Marcella Filippa
“Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, continuavo a predicare; e non vedo nessun’altra soluzione, veramente nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver fatto prima la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove”
(giovedì pomeriggio, 19 febbraio 1942, ore due)
È una giovane donna di ventotto anni che scrive sulle pagine del suo diario (undici quaderni fitti fitti, di cui uno è andato smarrito) queste acute riflessioni, di una straordinaria attualità. Il suo nome è Esther Hillesum, nome ereditato dalla nonna paterna, meglio nota come Etty, nata a Middelburg in Olanda il 15 gennaio 1914, in una famiglia della borghesia intellettuale ebraica. Il padre Levie, schivo e silenzioso, insegna lingue classiche ed è preside di un liceo; la madre Riva Bernstein, caotica e estroversa, sfuggita ai pogrom, è insegnante di lingua russa. Etty negli anni della guerra studia giurisprudenza e lingue slave, vive dando lezioni di russo e tenendo seminari all’Università popolare. Frequenta l’ambiente universitario, impegnandosi attivamente contro il regime nazista. Nel 1941 l’incontro fondamentale con Julius Spier, allievo di Jung, e fondatore della psicochirologia – terapia analitica che si ispira alla lettura della mano – che la cambierà profondamente. Diventa sua allieva, segretaria e amante fino alla sua morte.
Di Etty ci restano le numerose lettere scritte alle persone care, e il diario, che segna puntualmente istante dopo istante, un originale percorso di cura, introspettivo, di riflessione e ricerca del sé e del senso della vita, una testimonianza sulla persecuzione ebraica, la guerra, la sua personale visione del mondo, un percorso tra i più originali, profondi e illuminanti del Novecento. Un unicum a cui intere generazioni in molte parti del mondo si ispireranno, trarranno fonte di ispirazione, conforto e risorse interiori. Testi di straordinaria attualità, che ci fanno conoscere una giovane donna fragile e forte, spirituale e fortemente attaccata alla terra, amante della vita e anticipatrice di modi di essere e stili di vita che ancor oggi ci stupiscono. Una speranza e un ottimismo coinvolgente la attraversano anche nei momenti più dolorosi e di solitudine.
“È un periodo troppo duro per persone fragili come me. So che seguirà un periodo di umanesimo. Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi. In qualche modo mi sento leggera, senza alcuna amarezza e con tanta forza e amore. Vorrei tanto vivere per aiutare a preparare questi tempi nuovi: verranno di certo, non sento forse che stanno crescendo in me, ogni giorno?” (20 luglio 1942)
In quegli anni legge Rilke, Tommaso da Kempis, Sant’Agostino, il Corano, il Talmud, il Tao The Ching. Attraverso un percorso soggettivo e originale si avvicina a Dio, portandolo e ospitandolo teneramente nel suo cuore fino agli ultimi istanti della sua vita. Attraverso una scrittura non urlata, tenera, assetata di conoscenza, oltre le rigide appartenenze, fortemente spirituale, ci offre un percorso interiore e di consapevolezza sempre più alta e complessa, capace di superare dogmatismi, appartenenze circoscritte, rigidi schematismi interpretativi, assumendo una visione universale capace di unire, anziché dividere gli esseri umani, qualunque essi siano. Rifiuta l’odio, divorante malattia dell’anima, anche nei confronti del cosiddetto nemico; conforta con il suo essere e la sua presenza delicata e empatica, uomini e donne che incontra nel suo cammino, anche solo per un attimo, nel campo di transito di Westerbork, destinazione che volontariamente sceglie per condividere fino in fondo la sorte del popolo ebraico al quale riconosce di appartenere.
Nel tempo inquietante e buio della persecuzione esorta lei stessa e gli altri a essere “una generazione vitale”, capace di riconoscere nella vita, qualunque essa sia, quella che è data da vivere a ognuno, tutto ciò che essa è capace di offrire: il buono e il cattivo, la luce e l’ombra, le vesciche ai piedi, il profumo del gelsomino bianco, capaci di offrire e arricchire l’essere umano di “nuove e inedite prospettive”. Perché la vita è bella come ha modo di ribadire più e più volte, e va vissuta fino in fondo, attimo dopo attimo, perché “abbiamo il dovere di vivere nel modo migliore e con la massima convinzione, sino all’ultimo respiro”.
Etty sa vedere oltre il filo spinato del campo le traiettorie imperscrutabili dei gabbiani, i lupini gialli che sbocciano nei prati intorno a Westerbork. Si siede davanti alla fredda e grigia baracca e alza gli occhi per gioire del cielo azzurro e nutrirsi di luce, irradiandola agli altri internati. Proprio come un’altra donna, Milena Jesenská, giornalista praghese, faceva nel lager femminile di Ravensbrück, con qualche bottone di vetro colorato, portato con sé, che metteva alla piccola finestra del suo ufficio in modo da catturare e riflettere i raggi di luce, riverberandoli e ampliandoli. O come la cantante di operetta, Marianne Golz Goldlust, donna di rara bellezza, che nel carcere praghese di Pancrac in attesa di essere ghigliottinata, come tante altre oppositrici al nazismo, per aver aiutato e salvato tanti ebrei, lei che ebrea non era, capace di intravedere le gemme sugli alberi oltre le sbarre della prigione, sentire il profumo dei lillà in fiore e scaldarsi a qualche timido raggio di sole. Piccoli gesti di resistenza esistenziale, che assumono un alto valore simbolico, ampliando le forme di resistenza e superando quelle più tradizionali, alla dittatura e al nazismo.
La scrittura di Etty si fa via via densa, ricca, ispirata e meditata. È la lingua salvata di chi vuole testimoniare l’orrore, l’indicibile, l’inenarrabile. La lingua che vuole assomigliare, come lei stessa scrive, alle antiche stampe giapponesi, per leggerezza e eleganza, la lingua della purificazione e della pulizia interiore, nel senso che le attribuisce il filosofo Martin Buber.
Etty, vera e propria coscienza ispirata, che vuole essere il “cuore pensante della baracca”, morirà a Auschwitz, insieme ai genitori, ai fratelli Jaap, medico, e Misha, valente e promettente pianista, secondo i dati della Croce Rossa il 30 novembre 1943.
In Italia la conosciamo, a partire dalle traduzioni ancora incomplete del diario e delle lettere a partire dal 1985, e finalmente integrali a partire dal 2012.
È nata e rinata tante volte, in tanti luoghi, attraverso tanti linguaggi, parole, spettacoli teatrali, docufilm, performance, in molte parti del mondo, tante quante ne avrà bisogno, per usare il suggestivo pensiero di un’altra donna, testimone luminosa del Novecento, la filosofa spagnola María Zambrano.
“Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: ‘ll Signore è il mio alto ricetto’. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Misha sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Misha. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora a Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera?
Arrivederci da noi quattro”