E Dio fece fiorire la voce delle donne

La rosa necessaria

 

Ciò che canta in me è il canto dell'eternità. Ciò che è entrato in me non può piú morire.

 

                                                  Adriana Zarri

Rinascere nella Speranza

Allo stesso modo in cui il sole illumina i grandi cedri ed i fiorucci da niente come se ciascuno fosse unico al mondo, così nostro Signore si occupa di ciascun'anima con tanto amore, quasi fosse la sola ad esistere; e come nella natu­ra le stagioni tutte sono regolate in modo da far sbocciare nel giorno stabilito la pratolina più umile, cosi tutto risponde al bene di ciascun'anima.

 

Santa Teresina del Bambin Gesù

 

 

 

“La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna”

 

 

 

La sensibilità attuale del mondo esige che siano restituite alla donna la dignità e il valore intrinseco di cui l’ha dotata il Creatore. I tanti esempi di vita mettono in evidenza alcuni elementi che delineano quella femminilità così necessaria nella Chiesa e nel mondo: la forza per affrontare le difficoltà, la capacità di concretezza, una naturale disposizione a essere propositive per ciò che è più bello e umano, secondo il piano di Dio, e una visione lungimirante del mondo e della storia — profetica — che le ha rese seminatrici di speranza e costruttrici di futuro.

 

Papa Francesco

 

 

 

 


In Te ero un immenso cielo d'estate!

Dipinto di Mary Cassatt: Tempo d’estate, 1894


"Il ritmo delle stagioni nelle Sue mani" Adriana Zarri

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Il giardino d' estate era pieno di uccelli:

io pensavo a quanto la natura non riuscisse, suo malgrado,

a falsare il segno della sua innata bontà.

Anche se noi percpivamo quei suoni come si potrebbero percepire in un Eden, dove tutto è possibile e impossibile, pure il sentirci controllati

dalla natura, il sentirci serviti dai suoi concetti, dal suo clima,

ci faceva gran bene al cuore, e, così, l'erba verde ci parlava di fiducia, e così i fiori, e così i ruscelletti che si aprivano dolcemente in mezzo a qualche piccola aiuola, e così il cielo. Tutto.

 

Alda Merini


Ho stretto la Tua mano

 

Fernanda Romagnoli 

 

Dammi la tua mano da stringere

quando erompe la rosa del sole

e dall’ombra annientata si spande

la gloria e l’indizio:

– si ridestò, non è qui! –

 

Quando il mio Dio m’assedia

da un’aurora qualunque,

al mio povero corpo imponendo

il suo innesto divino

la folle tentazione dell’eterno:

 

ed io, abbagliata, più non mi difendo,

Riprende il mattino.

 


                                       Immenso cielo d'estate

 

Antonia Pozzi

 

Ed io ero piana

quasi tu fossi un santo

che placa la vana

tempesta

e cammina sul lago.

Io ero un immenso

cielo d’estate all’alba

su sconfinate distese di grano.

Ed il mio cuore

una trillante allodola

che misurava 

in Te la serenità.

 

                                                          


Ti ringrazio 

 

Amy Lowell

 

La giornata è bella e fresca, e nell'aria si percepisce un profumo di tulipani e narcisi.

Il sole entra a fiotti dalla finestra del bagno e perfora l'acqua della vasca in solchi e piani di un bianco-verdastro. Scinde l'acqua in imperfezioni come un gioiello, e la rompe in una luce brillante.

 

Piccole macchie di sole si adagiano sulla superficie dell'acqua e danzano, danzano, e i loro riflessi ondeggiano deliziosamente sul soffitto; un movimento del mio dito le fa ronzare, ondeggiare. Muovo un piede e i piani di luce nella brocca d'acqua. Mi sdraio e rido, e lascio che l'acqua bianco-verde, l'acqua di berillo imperfetta dal sole, scorra su di me. La giornata è quasi troppo luminosa da sopportare, l'acqua verde mi copre per la luce troppo intensa. Mi sdraierei qui un po' e giocherei con l'acqua e le macchie di sole. Il cielo è azzurro e alto. Un corvo vola vicino alla finestra e nell'aria aleggia un profumo di tulipani e narcisi.


Un ramo d'ulivo nei nostri cuori 

 

Halina Kruk

 

La vita eterna inizia lì,

dove l’amore s’aggrappa

all’orlo del tettuccio con la mano del morto,

dove lungo la riva fra i morti e i vivi,

resteranno come un eterno rimprovero, i giunchi.

è vero, che tornerai, o Signore, da ciascuno di loro? e da ciascuno di noi?

ci manderai una colomba con un ramo d’ulivo?

i nostri occhi accecati dall’ira e dalla disperazione scrutano il tempo:

quanti ci sono annegati o emersi, nello stesso tempo –

il granello di senape della fede,

la croce della chiesa cosacca,

 

il doppio fondo della misericordia.


Il Tuo cuore è fatto di petali

 

Marina Cvetaeva

 

 

I versi crescono, come le stelle e come le rose,

 

come la bellezza.

 

E, alle corone e alle apoteosi –

 

una sola risposta: «Di dove questo mi viene?»

 

 

 

Noi dormiamo, ed ecco, oltre le lastre di pietra,

 

il celeste ospite, in quattro petali. Il Tuo cuore.

 

Mondo, cerca di capire! Il poeta – nel sonno – scopre

 

 

la legge della stella e la formula del fiore.


Allora prendi il mio cuore

 

Tove Ditlevsen

 

 

Allora prendi il mio cuore,

ma prendilo delicatamente, prendilo dolcemente,

il rosso cuore… ora esso è tuo.

 

Batte così sereno, batte così in sordina,

perché ha amato e sofferto,

ora è calmo… ora esso è tuo.

 

E può essere ferito, può venir meno,

può dimenticare e spesso dimenticare,

 

ma mai dimenticare che è tuo.


 

 

E rose e gigli ti attendono

 

 

 

Rosarita de Martino

 

 

  

In candore di rose e di gigli, attendono Te, Gesù,

 

imprigionato in ostia consacrata.

 

Ecco mani sacerdotali Ti trasportano su scale di fede,

 

ove brillano le sette lucerne, simboli di doni dello Spirito e dei Sacramenti.

 

Ora le fiammelle, tremule di luce, spandono intorno soffio di vento e si muove lieve

 

il dorato drappo, che adorna bellezza di Tua Madre santa,

 

che apre a Te e a noi

 

le Sue braccia d'amore.

 


Giovani sante...vivere il sogno di Dio da donare al mondo..

Questi volti di donne simbolicamente rappresentano tantissimi altri che nel passato e presente hanno aiutato e aiutano Dio a portare il cielo sulla terra.. dimostrando che ognuno di noi può farlo con cuore fedele al Suo Amore. Santità!

 

Santa Teresa del Bambin Gesù, Santa Teresa di Calcutta, Chiara Corbello Petrillo verso la beatificazione, Beata Chiara Badano, Beata Sandra Sabatini, Carlotta Nobile testimone di fede, Santa Bakhita


 

Ho svuotato la mia anfora

dall’ acqua putrida

del rimpianto,

l’ho purificata con balsamo

di perdono.

Finalmente essa è vuota!

Ora trabocca

di acqua di luce.

Privo di sterpaglia è

il giardino del mio cuore!

Improvvisi,

ma attesi

ruscelli di grazia

m’ inondano

e si materializzano

 

in fiume di preghiera.

 

Rosarita de Martino

 

Poteva accadere.

Doveva accadere.

È accaduto prima. Dopo.

Più vicino. Più lontano.

È accaduto non a te.

 

Ti sei salvato perché eri il primo.

Ti sei salvato perché eri l’ultimo.

Perché da solo. Perché la gente.

Perché a sinistra. Perché a destra.

Perché la pioggia. Perché un’ombra.

Perché splendeva il sole.

 

Per fortuna là c’era un bosco.

Per fortuna non c’erano alberi.

Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,

un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.

Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.

 

In seguito a, poiché, eppure, malgrado.

Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,

a un passo, a un pelo

da una coincidenza.

 

Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?

La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?

Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.

Ascolta

 

come mi batte forte il tuo cuore.

 

 

 

                                                                                        Wisława Szymborska

Che cosa cerco, se non la Tua luce per scontare la tenebra

di questo tempo,

per imparare dal mare e dai fiori,

per restare in una stanza trapassata

da memorie,

vedermi dall’alto nei campi elisi

coperta di gigli in fiore, quando

i miei coaguli si faranno luce.

*

Le particelle del possibile

vivono nel pensiero.

Indovino, che rovesci il tempo

e vedi prima del prima,

ti agghiaccerai se vivo nei rovi

o sotto la sabbia, se resterò cieca

per non aver visto il roseto

nella mano della sposa

e per essermi nascosta

nella punta di una spina.

*

Le particelle del possibile

vivono nel pensiero.

Indovino, che rovesci il tempo

e vedi prima del prima,

ti agghiaccerai se vivo nei rovi

o sotto la sabbia, se resterò cieca

per non aver visto il roseto

nella mano della sposa

e per essermi nascosta

nella punta di una spina.

 

 

                                                                                        Anita Piscazzi

Stella su di Te

 

La neve era sospesa tra la notte e le strade

come il destino tra la mano e il fiore.

 

In un suono soave

di campane diletto sei venuto…

Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.

O tenera tempesta

notturna, volto umano!

 

(Ora tutta la vita è nel mio sguardo,

 

stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude).

 

Cristina Campo

«Il desiderio di servire i poveri non scattava da una semplice spinta emotiva a fare beneficenza, ma scaturiva da una sorgente spirituale: l’amore di Dio. Man mano che il suo cuore si immergeva nel mare – senza fondo e senza sponde – dello sconfinato amore di Dio per i poveri, sperimentava che la vera soluzione di ogni problema è la risurrezione di Gesù, unica autentica proposta di liberazione»

 

(Scelgo Te e basta. Sandra Sabattini, il Ponte, Rimini 2019, 29).

E dacci anche di amare questa santità anonima e senza riconoscimenti ufficiali che è però il sale della vita. Ed ecco allora che le celebrazioni dei santi e dei defunti si apparentano e celebrano sovente le stesse persone: quei defunti che hanno vissuto onestamente e il cui ricordo è un'eredità di bene. Ma anche coloro che son vissuti meno rettamente, coloro per il cui epitaffio abbiamo escogitato delle pietose bugie, oggi hanno visto te, sono stati lavati nella tua misericordia e sono anch'essi santi da celebrare.

Davanti alle pietose bugie dei cimiteri uno scrittore un giorno ha sorriso con indulgenza e ha scritto: "i morti sono tutti buoni perché hanno incontrato la misericordia del Signore".

 

(Come il grembo di una donna incinta)

 

 

A. Zarri, Quasi una preghiera, Einaudi 2012 (pag. 172)

Ho teso alla santità tutta la vita, quindi non dovrebbe essere troppo difficile, ed è un peccato se non concludo.

Stamane ho ricompreso che la mia santità è Lui, Gesù abbandonato. M'attira come una calamita in quest'ultimo tempo, come la Desolata ha un fascino speciale.

M'attira il loro "nulla". È lì la santità: il nulla di noi perché trionfi Dio in noi. Nulla che trovo amando la sua volontà e i fratelli, ma anche "perdendo" tutto quanto va perso, con generosità e immediatezza.

 

 

Chiara Lubich

Ho messo la mia anima fra le tue mani.

 

Curvale a nido. Essa non vuole altro

 

che riposare in te.

 

Ma schiudile se un giorno

 

la sentirai fuggire. Fa’ che siano

 

allora come foglie e come vento,

 

assecondando il suo volo.

 

E sappi che l’affetto nell’addio

 

non è minore che nell’incontro. Rimane

 

uguale e sarà eterno. Ma diverse

 

sono talvolta le vie da percorrere

 

in obbedienza al destino.

 

 

 

 

 

 

                                                      Margherita Guidacci

Costruttrici di futuro

 

Papa Francesco

 

 

 

 

 

L’eminente dottrina di queste sante, per la quale sono state dichiarate Dottori della Chiesa o Patrone, assume un nuovo protagonismo in questi tempi per la sua permanenza, profondità e opportunità e, nelle attuali circostanze, offre luce e speranza al nostro mondo frammentato e disarmonico. Anche se appartengono a tempi e luoghi diversi e hanno svolto missioni diverse, tutte hanno in comune la testimonianza di una vita santa. Docili allo Spirito, per la grazia del Battesimo, hanno seguito il loro cammino di fede, mosse non da ideologie mutevoli, ma da un’incrollabile adesione all’“umanità di Cristo” che permeava le loro azioni. Anche loro si sono sentite a volte incapaci e limitate, “piccole donne deboli” come direbbe Teresa di Gesù, di fronte a un’impresa che le superava. Da dove attingevano la forza per portarla a termine, se non dall’amore di Dio che riempiva il loro cuore? Come Teresa di Lisieux, hanno potuto realizzare pienamente la loro vocazione, la loro “piccola via”,  il loro progetto di vita. Una via accessibile a tutti, quella della santità ordinaria.

 

La sensibilità attuale del mondo esige che siano restituite alla donna la dignità e il valore intrinseco di cui l’ha dotata il Creatore. L’esempio di vita di queste sante mette in evidenza alcuni elementi che delineano quella femminilità così necessaria nella Chiesa e nel mondo: la forza per affrontare le difficoltà, la capacità di concretezza, una naturale disposizione a essere propositive per ciò che è più bello e umano, secondo il piano di Dio, e una visione lungimirante del mondo e della storia — profetica — che le ha rese seminatrici di speranza e costruttrici di futuro. 

 

 

La loro dedizione al servizio dell’umanità era accompagnata da un grande amore per la Chiesa e per il “dolce Cristo in terra”, come Caterina da Siena amava chiamare il Papa. Si sentirono corresponsabili nel porre rimedio ai peccati e alle miserie del loro tempo, e contribuirono alla missione di evangelizzazione in piena armonia e comunione ecclesiale.

 

(ESTRATTO DAL MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO INTERNAZIONALE INTERUNIVERSITARIO

 

SULLE DONNE DOTTORI DELLA CHIESA E LE COMPATRONE D’EUROPA)

 

 

1 marzo 2022

 

 

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Una lettura speciale

È dedicato a cinque donne il libro dello scrittore, poeta e traduttore Erri De Luca, intitolato Le sante dello scandalo (edito da Giuntina, € 8,5).

 

Sono cinque donne speciali, la cui vita è raccontata nel libro sacro più letto al mondo: la Bibbia. Si chiamano Tamàr la Cananea, Rahav di Gerico, Rut la Moabita, Betsabea e infine Maria, madre di Gesù.

 

Il primo filo rosso che le unisce è che tutte figurano nell’albero genealogico di Cristo. “Pure il Messia è meticcio”, scrive De Luca. “È una lezione grandiosa, poco risaputa e poco ripetuta”. In effetti, alcune di queste donne non erano ebree, ma straniere.

 

Ma la vera sorpresa che questo piccolo e interessantissimo libro di Erri De Luca ci riserva riguarda la personalità di queste donne. In una società patriarcale, sono state delle rivoluzionarie.

 

Tamar vuole diventare madre e si traveste da prostituta per tentare l’uomo che si è scelta. Rahav è invece una prostituta e tradisce i suoi connazionali per aiutare gli ebrei. Rut finisce a letto con un ricco vedovo per farsi sposare. E l’adultera Betsabea tradisce il marito con il re Davide, che lo fa uccidere. Quanto a Maria, resta incinta prima delle nozze e il figlio, com’è noto, non era dello sposo.

 

Cinque donne che trasgrediscono, dunque. Cinque donne che con le loro scelte cambiano il destino del popolo d’Israele.Erri De Luca ci narra la loro vita in modo scientifico ma avvincente. E ci fa capire che, nei secoli, le traduzioni della Bibbia fatte dagli uomini ci hanno trasmesso un’immagine fuorviata della donna.

 

Il Creatore che condanna Eva a “partorire con dolore” non intendeva dire esattamente questo. Leggete Le sante dello scandalo e scoprirete che il Dio d’Israele non era così maschilista quanto ci hanno fatto credere

 

La santità a passo di donna

 

Beata Teresa Fasce

 

«La Chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del “genio” femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e Nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del Popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità: ringrazia per tutti i frutti di santità femminile». Così si esprimeva san Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Mulieris dignitatem a sottolineare l’attenzione della Chiesa verso tutto lo straordinario contributo che le donne nella storia della Chiesa hanno sempre dato, con il loro slancio tipicamente femminile, con il loro cuore ardente capace di un amore infinito come solo l’amore di una madre può essere. E in ogni stato di vita, sia che si tratti di una madre di famiglia, sia che si tratti di una religiosa o di una consacrata, batte forte in ogni donna il cuore di una madre. Un cuore che esprime tenerezza, attenzione, capacità di ascolto e di accoglienza, prudenza che può arrivare alla scelta del silenzio quando le parole rischiano di rovinare l’ebbrezza del Mistero.

E ancora, accanto ad arditi voli mistici, il senso pratico tipico delle donne che non si scoraggiano ma che sanno intravedere anche solo una flebile luce laddove il resto del mondo vede solo buio. Quante belle figure femminili, giganti di santità, hanno reso sempre più bello e santo il volto della Chiesa.

 

Ne citiamo solo alcune: Caterina da Siena, sapiente della sapienza di Dio, di cui Dio si servì per dare la pace alla Chiesa e ai popoli del suo tempo; Teresa d’Avila, donna di straordinari talenti di cuore e di mente; Chiara d’Assisi, in cui molti videro un’altra Maria come in Francesco videro un altro Cristo; Monica, modello di perseveranza nella preghiera; Rita da Cascia, invocata nei casi disperati, è una delle sante più popolari in Italia e nel mondo; della sua vita fece un capolavoro, partendo da un’intuizione fondamentale: unire la propria sofferenza a quella di Gesù per ricavarne frutti straordinari; Maria Teresa Fasce, grazie all’opera della quale la devozione a santa Rita ha raggiunto distanze infinite: una donna forte, temperante, innamorata di Cristo. Senza Maria Teresa Fasce Cascia com’è oggi non sarebbe esistita.

 

Ricordiamo ancora Teresa di Calcutta, definita da Benedetto XVI “dono inestimabile”;  Gianna Beretta Molla, donna gioiosa e innamorata della vita che scelse di sacrificare per amore di un’altra vita che doveva nascere. E ancora Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, che con il suo pensiero e le sue opere tutte rivolte alla fraternità e alla pace, ha lasciato un’eredità diffusa in tutto il mondo; Armida Barelli, fondatrice della Gioventù Femminile cattolica milanese e che fu nel gruppo dei fondatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Presto sarà proclamata beata. Ricordiamo anche Chiara Corbello che aveva capito che «l’importante nella vita non è fare qualcosa, ma nascere e lasciarsi amare»; e, ancora, Chiara Luce Badano che, provata dai forti dolori dovuti a un tumore osseo, nelle notti insonni canta; canta perché ha la pace nel cuore, perché sa di essere tra le braccia di Gesù. Dirà dopo forse la  più tragica notte: «Soffrivo molto fisicamente, ma la mia anima cantava».

 

 

Potremmo citare ed elencare tante altre straordinarie figure femminili. Straordinarie nell’ordinario. Perché è proprio lì che Dio manifesta la sua delicata presenza e vicinanza.

 

nella foto Santa Beretta Molla


"La Santità femminile..donne coraggiose nella Chiesa dell'800"

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Da Edith Stein a Teresa Benedetta..profumo di Santità

 

La giovinezza inquieta di una filosofa, martire cristiana

 

Lodovica Maria Zanet

 

 

 

Bad Bergzabern (Renania-Palatinato), estate 1921. In casa di amici, una trentenne intellettuale tedesca di famiglia ebraica, Edith Stein, si ritrova sola. Potrebbe uscire anche lei, incontrare qualcuno, forse andare a camminare. Decide invece di restare a casa, e fa la cosa a lei più consona: si avvicina ai rifornitissimi scaffali della biblioteca e prende un libro. Non vi presta grande attenzione, non lo sceglie dopo attenta disanima, escludendo altre opzioni: piuttosto, se lo ritrova in mano. È il Libro della Vita di Teresa de Cepeda y Ahumada, scritto dalla stessa. In quelle pagine, la grande santa di Avila, mistica, poi dottore della Chiesa – donna “inquieta e vagabonda” come i suoi nemici la definivano – racconta se stessa e le sue grazie mistiche ai direttori spirituali. Da una parte dunque sta, in quella notte di Bad Bergzabern, il raffinato siglo de oro spagnolo, con i suoi fasti e la sua cultura, la sua temibile Inquisizione e le conquiste oltre oceano; dall’altra la cupa Germania tra le due guerre, prostrata dalla sconfitta nel Primo Conflitto Mondiale e in disperata ricerca di riscatto. Da una parte c’è il cristianesimo, raccontato per via esperienziale da una donna, Teresa, che trattava Gesù come amico e definisce la preghiera come il frequente trattenersi, da soli a Solo, con Colui da cui sappiamo d’essere amati. E dall’altra c’è lei, Edith Stein: nata a Breslavia (oggi Wrocław in Polonia) il 12 ottobre 1891, ebrea di famiglia, atea dichiarata sin dalla prima adolescenza, esploratrice in punta di concetto tra le tesi della fenomenologia tedesca dell’epoca, professata dal celebre e incompreso Edmund Husserl.

Non c’è dunque nulla, in Edith, che paia ricollegarla al mondo di Teresa. Non la fede, non la tradizione culturale. E senz’altro non il carattere: riservato e schivo per Edith, solare ed espansivo per Teresa. Teresa chiedeva a Dio il dono di essere amata da molti. Edith ambiva a capire molto. Teresa si lasciava invadere dalla realtà. Edith muoveva alla sua conquista, con acribia non inferiore a quella che il suo maestro, Husserl appunto, amava descrivere citando l’incisione di Dürer Il cavaliere, la morte, il diavolo: una scena in bianco e nero ove per restar vivi urge superare lo scoglio dell’inganno.

Qualcosa però, in quella notte, accade. Edith divora le pagine del Libro della Vita: il mattino dopo si dice l’avesse già terminato. «Questa è la verità», afferma. Acquista un Messale e un Catechismo e si presenta al parroco del luogo, chiedendo il battesimo. Lo riceverà alcuni mesi più tardi, il 1° gennaio 1922. Morirà, carmelitana scalza e martire, ad Auschwitz nell’agosto 1942. Nel 1933, nell’infuriare della follia nazista, quando ogni strada di docenza le era ormai preclusa, dopo 12 anni di attesa sarebbe entrata lei stessa nel Carmelo, riformato da Teresa nella sua Castiglia nel 1562.

 

Chi è Edith

 

Chi è, però, Edith Stein? E perché quel passo, in apparenza così azzardato e illogico – che non cesserà di stupire gli amici e scandalizzare i familiari –, dall’ebraismo al cristianesimo transitando da oltre quindici anni di convinto ateismo? «Secretum meum mihi», lei dice: confermando che le cose più importanti stanno dentro, e nessun le saprà mai. Sappiamo però alcune cose. Edith è la più piccola di una numerosa famiglia slesiana. Sono ebrei e professano la fede dei padri. Piccolissima, spetta a lei porre le domande di rito per il Seder di Pesah. Cresce sveglia e riflessiva, interiormente vivace. Composta all’esterno, Edith custodisce però dentro le cose più vere. Le attende, le chiede, le accoglie. Solo dopo le comunica, se necessario. Grande osservatrice, esamina i comportamenti umani con scientifica analiticità: ma sa comprendere e scusare, e ha una spiccata intelligenza emotiva. Tredicenne, la prima svolta: non avrebbe più creduto in Dio. L’atto del credere aveva smarrito per lei ogni ragionevolezza. Edith non si riconosceva nelle tradizioni di famiglia, non riusciva a farle proprie ed era interessata ad altro. E allora se ne distacca, con una radicalità per certi aspetti sconcertante, ma sua tipica: la (reale o supposta) chiarezza di pensiero determina qui un’assoluta linearità della volontà, un’inflessibilità della scelta che non ammette ripensamenti. Ed Edith comincia allora a cercare nell’umano la risposta al divino ormai assente, senza ancora sapere che in Cristo essi erano già ricongiunti.

Sceglie così di studiare letteratura tedesca, storia, psicologia. Ma è brava e si stanca presto di maestri che esauriscono davanti a lei gli argomenti e il fascino. Le parlano allora della fenomenologia, un nuovo modo di fare filosofia praticato a Gottinga da Edmund Husserl, Adolf Reinach e un gruppo di temerari giovani, che criticavano Kant, le altre grandi autorità del pensiero e volevano ritornare alle cose stesse. «Ritornare alle cose stesse» significava: privilegiare la realtà per come appare e si manifesta, rispetto alle teorie (pur necessarie) che ambiscono a comprenderla. Era come se avessero detto ad Edith di tornare a camminare in montagna anziché studiare il tracciato dei sentieri sulla cartina. Lascia tutto e parte. Trova un mondo molto diverso, di confronto ampio, di amicizie al femminile e al maschile. Di amore, anche, che farà però fatica ad accogliere e a integrare nel proprio vissuto, senza riuscire ad arrendersi a un sentimento che diventasse progetto di vita.

Edith Stein ha quasi 23 anni quando scoppia la guerra. Lei diventa crocerossina volontaria al fronte. Husserl perde un figlio. Muore il suo migliore amico, Adolf Reinach: era sposato con Anna, una della poche donne laureate in Fisica del tempo. Ed Edith, un giorno, la va a trovare. È convinta di incontrare una donna annientata dal dolore. Forse prova a prepararsi parole consolatorie, senza però sapere bene – e si tratta per lei di un’esperienza inedita! – cosa dire. Quando però incontra Anna capisce che le sue sarebbero state parole vuote, parole vane. La luce della Croce di Cristo si staglia davanti a lei, per la prima volta, come un mistero affascinante di dolore e di amore.

Edith intanto è una studentessa che si avvia a diventare una studiosa. Si laurea infatti, con una tesi sull’empatia: quel fondamentale atto umano per cui siamo capaci di gioire con chi è nella gioia, di piangere con chi è nel pianto, di farci tutto a tutti, di avere gli stessi sentimenti: sono parole di San Paolo – che la Stein allora non conosce –: in un mondo che precipitava in quegli anni nell’odio, lei si era scelta questo problema, il «problema dell’empatia», per indagare il fondamento delle relazioni sociali cooperative. Scommetteva così sul fatto che esistesse qualcosa oltre l’odio, la rabbia cieca, l’irragionevole furia, o anche solo l’indifferenza che uccide; indaga ciò che accomuna invece di ciò che divide. Inserita in un gruppo di ricerca dove ci si occupa del tema dei valori, degli atti sociali, del bello estetico, della filosofia della natura, Edith aveva cominciato ad allenare nella vita quotidiana quella fondamentale attitudine che la fenomenologia le aveva trasmesso: guardare la realtà a occhi sgranati, se possibile senza pregiudizi, dandole la possibilità di rivelarsi non per quello che si vorrebbe fosse, ma per quello che è. Quando a Bergzabern legge Teresa, in fondo Edith ha solo concesso al diverso la possibilità di bussare alla sua porta.

 

La conversione

 

La conversione è folgorante, totale: Edith passa dal nulla al tutto, anche se il tutto era stato lungamente preparato dalla pazienza del cercare laico e dal rigore altamente sfidante della filosofia. Per lei conversione al cattolicesimo e chiamata al Carmelo sono un tutt’uno: il Carmelo di Teresa, ma soprattutto il Carmelo che si rifà ad Elia, alla Terra del Santo, a quell’Israele parte della sua vita: Edith cristiana recupera così l’ebraismo, che diviene per lei angolo prospettico privilegiato per capire Gesù; e ritorna in sinagoga con la madre, lacerata dalla scelta della figlia ma stupita di ritrovarsela accanto.

Se dai 20 ai 30 Edith aveva bruciato le tappe, in una giovinezza folgorante e dalle molte conversioni – intellettuali, affettive, volitive, religiosa infine –, ora però deve di nuovo affidarsi: quando i suoi coetanei costruiscono e concretizzano una famiglia o una carriera (o entrambe), a lei è chiesto di pazientare. Vorrebbe entrare al Carmelo, ma ne è trattenuta da sacerdoti che la esortano a servire la Germania del tempo come studiosa e docente; ambisce all’Università, ma non riuscirà mai a fare una vera carriera e le leggi razziali ve la estrometteranno definitivamente; legge i santi carmelitani, ma trascorre ogni anno la Settimana Santa nell’abbazia benedettina di Beuron, grande centro di studio. Edith pensa alla consacrazione, eppure il suo cuore di donna le fa intuire la bellezza di un rapporto affettivo, anche se sarà sempre ferma nell’attenersi al proposito di dedizione esclusiva a Cristo e alla Chiesa e sperimenta intanto le tappe esigenti di una maturazione verso il cuore indiviso. Sono passaggi che potrebbero riportarla a un momento di grave crisi simile a quello attraversato da studentessa e allora intrecciato al suo indagare filosofico, quando era arrivata ad auspicare che la morte sopraggiungesse a por fine alle sue sofferenze («Non riuscivo più a percorrere una strada senza avere il desiderio che una macchina mi investisse»). Ma la santità non ha nemici nemmeno nella fatica, nello svuotamento, nella notte oscura dell’anima e della psiche: e ora Edith ha la fede a sorreggerla e il sogno del Carmelo sempre all’orizzonte. Attraverso le ferite della vita e del cuore di Edith Stein, comincia quindi a passare una grazia che consola e conforta le persone che le stanno accanto: allontanatasi per scelta dal mondo della filosofia in senso stretto, insegna per otto anni dalle Domenicane di Spira, divenendo importante punto di riferimento (lei laica) per le giovani in formazione; quindi all’Istituto di Pedagogia scientifica di Münster.

Solo nel 1933, per il precipitare della situazione e la crescente esasperazione della persecuzione antiebraica, l’insegnamento verrà definitivamente precluso ad Edith. Potrebbe forse continuare a insegnare in Sud America: ma lei, abituata a cercare la verità nelle evidenze positive, adesso inizia a comprendere che rappresentano altrettanti segni anche quelle negative, cioè i vincoli, i limiti e le mancanze. Che le indicano ora un tipo di fecondità diversa. Anche chi la dirige spiritualmente (celebre il rapporto con il grande Gesuita padre Erich Przywara) l’aiuta a capire che è venuto il momento di entrare in quel Carmelo dal quale era sempre stata trattenuta per potere servire di più – e meglio – attraverso i doni di parola e di scrittura che aveva ricevuto.

 

Il Carmelo

 

Edith entra al Carmelo di Colonia il 14 ottobre 1933, a 42 anni appena compiuti. La anima il chiarissimo convincimento che non l’attività umana, ma solo la passione di Cristo possa salvare: ad essa intende ora prendere parte. Professa perpetua nel 1938 con il nome di Suor Teresa Benedetta dalla Croce, al Carmelo continua l’attività di scrittrice approntando anche la sua ultima e più celebre opera, Essere finito ed Essere eterno: un testo originalissimo, lontano dai parametri della critica scientifica, in cui Edith cita Aristotele con Tommaso, Heidegger con Teresa, insegnando che se la sintesi viene fatta nella vita, essa ha diritto di esistere anche sulla pagina scritta.

Per aver salva la vita passa quindi al Carmelo di Echt, in Olanda. Ma anche qui viene raggiunta, all’inizio dell’agosto 1942. Le SS le intimano di uscire dalla clausura: Edith, con la sorella Rosa (anch’ella convertita al cattolicesimo), superato il campo di smistamento di Westerbork, morirà nel campo di sterminio di Auschwitz pochi giorni dopo: aveva superato i 50 anni e, non rientrando nei criteri di efficienza da lavoro dei prigionieri al campo, era semplicemente stata gettata via come un oggetto inutile. Chi la ricorda, afferma che Edith in quegli ultimi frangenti si prese cura dei bambini, abbandonati dalle loro mamme rese folli dall’ebbrezza del dolore.

Beatificata il 1° maggio 1987, Edith Stein viene canonizzata l’11 ottobre 1998, come martire: infatti ad Auschwitz era arrivata sì come ebrea, ma come ebrea convertita al cattolicesimo, catturata in ritorsione a un proclama ufficiale con cui i Vescovi olandesi prendevano posizione contro le efferatezze del Terzo Reich. L’umano e il divino, dunque, arrivano ora anche in Edith a perfetta sintesi: nel patire della propria carne, è testimone di un mondo che nega Dio e in cui ad Auschwitz anche il silenzio di Dio diventa assordante.

 

Spiegando cosa fosse il Carmelo, Edith Stein un giorno aveva scritto: «Chiunque entri al Carmelo deve consegnarsi tutto al Signore, solo chi valuta il suo posticino in coro, davanti al Tabernacolo, più di tutte le magnificenze del mondo può vivervi e trovarvi di certo allora una felicità quale nessuna magnificenza può offrirle […]. Quanto Dio opera nelle ore di preghiera silenziosa nell’anima si sottrae ad ogni sguardo umano, è grazia per grazia e tutte le altre ore della vita ne sono il ringraziamento». Era il ritornare di Edith – con consapevolezza nuova e la piena maturità dell’età adulta – su quella custodia di sé che non nasceva da un rifiuto della visibilità o dell’amicizia, ma era animato dalla più profonda consapevolezza che non si può dare agli altri quello che non si è; che occorre custodire per donare; che le cose più importanti e vere non vanno mai esibite.


Santa Teresa di Lisieux.. la Santa della piccola via

" Non aspetto che una preghiera un sospiro del vostro cuore

"La mia piccola via verso Dio"

 

Pensieri di Santa Teresina

 

 

II Signore mi dà coraggio in proporzione al patire. Sento che, per il momento, non potrei sopportare di più, ma non ho paura, perché se il dolore au­menterà, aumenterà il coraggio.

 

La paura mi fa indietreggiare, con l'amore non soltanto vado avanti, ma volo.

 

 

Quale gioia pensare che il Dio è giusto, cioè che tiene conto nostre debolezze, che conosce perfettamente la fragilità della nostra na­tura.

 

Com'è dolce la via dell'amore! Senza dubbio si può cadere, si può commettere delle infedeltà, ma l'amore, sa­pendo trarre profitto di tutto, consuma ra­pidamente tutto quello che può dispiace­re a Gesù, lasciando soltanto una umile profonda pace in fondo al cuore.

 

 

Soprattutto il Vangelo mi occu­pa durante l'orazione: in esso trovo tutto il necessario per la mia povera anima. Scopro sempre in esso luci nuove, significati nascosti e misteriosi.

 

La nostra vocazione non è quella di andare a mietere nei campi di grano maturo; Gesù non dice: Ab­bassate gli occhi, guardate i campi e an­date a mietere; la nostra missione è ancora più sublime. Ecco le parole di Gesù: “Alzate gli occhi e guardate.." (Cfr. Gv 4,35) Guardate come nel cielo vi sono dei posti vuoti; spetta a voi riempirli. Voi siete i miei Mosé in preghiera sulla mon­tagna; domandatemi operai ed io ve ne manderò. Non aspetto che una preghiera, un sospiro del vostro cuore.

 

 

Per appartenere a Gesù, biso­gna essere piccoli, piccoli come una goccia di rugiada. Oh come sono poche le ani­me che aspirano ad essere piccole cosi!

 

Saint-Cheron rilegge la vita della monaca che ha spiegato come il combattimento spirituale, la lotta tra il bene e il male, sia alla portata di tutti e quindi è universale

 

    

 

 

 

Nata in un’epoca in cui s’imparava il catechismo a memoria, in una famiglia che non avrebbe potuto essere maggiormente cristiana, Teresa ha ben chiara in mente tutta una dottrina religiosa. Ma ciò che ben presto la distinguerà dai comuni mortali è che per lei la fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo, e nemmeno un convincimento. È una storia d’amore. E decide di viverla ogni giorno, come solo lei può viverla, nel suo paesaggio tipicamente normanno, nella sua famiglia, nella sua cameretta di adolescente, poi nel suo chiostro. Non perde tempo a inseguire chimere. La santità, la lotta del bene contro il male, gli stendardi strappati al nemico con le forze dell’amore non sono né una fiaba né una bella storia del tempo andato. Ai suoi occhi, tutto questo si coniuga al presente, nella vita concreta, anche in quella più umile, anche in quella più nascosta. Sarà il genio di Teresa provare che questa «gloriosa guerra» del combattimento spirituale è alla portata di chiunque. Che questa storia d’amore non è riservata a lei. Con l’esempio della sua via rivelerà che ciascuno può essere a sua volta, ovunque si trovi, un grande santo. Come che si vedono sulle vetrate delle cattedrali. «Sì, mi pare di non aver mai cercato che la verità», sussurrerà ventiquattr’ore prima di morire. Il suo combattimento spirituale ha dunque una portata universale, anche se prende l’umanità di contropelo: proclama che «non si può fare alcun bene quando si cerca sé stessi». Stop al narcisismo, ai calcoli meschini e alle coscienze assonnate, ecco Teresa proclamare cos’è l’amore: «Amare è dare tutto e donar sé stessi». Vorrebbe darne notizia al mondo intero. Per farlo capire bene, ha scavato fino in fondo nel senso del dono radicale di sé. La meditazione sulla morte e la risurrezione di Gesù le ha mostrato la via di un simile amore, a prima vista impraticabile: bisogna morire per vivere. Perché «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna». Se noi conosciamo così bene le scoperte spirituali di Teresa, è perché lei stessa intraprese a scrivere la sua autobiografia all’età di ventidue anni. Si potrebbe giudicare l’impresa precoce o pretenziosa. Errore. Per prima cosa, era tubercolotica e sentiva la sua fine ormai prossima. In secondo luogo, era una religiosa e doveva obbedienza alla sua madre superiora, la quale aveva espressamente domandato di mettere per iscritto la testimonianza della sua vita, di cui presentiva l’eccezionale densità spirituale. Occorre comunque ammettere che c’è un problema. Tutti i libri di spiritualità parlano dell’umiltà come di un preliminare all’amore, dunque alla santità. Ora, nei quaderni che hanno per scopo raccontare la storia della sua anima, Teresa dice di essere «nata per la gloria». Quella gloria che circonfonde di aureola geni, presidenti, dive e ricchi sfondati? Ma questi sono degli stati ancora troppo bassi per l’ambiziosa Teresa. Sta scritto nel Vangelo che «ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole». E Teresa, che cerca la vera gloria, ne parla direttamente con il creatore del cielo e della terra, il quale afferma: « L’orgoglio dell’uomo ne provoca l’umiliaquelli zione, l’umile di cuore ottiene onori». Alla fine del XIX secolo, il secolo borghese, Teresa Martin si lascia penetrare dall’antica sapienza ebraica che pervade tutto il cristianesimo; da quei paradossi che un versetto dopo l’altro vorrebbero cambiare il cuore dell’uomo, e lavargli lo sguardo. Da qui, la grande scoperta della sua vita: «Pensai che ero nata per la gloria, e mentre cercavo il mezzo per giungervi, il Buon Dio [...] mi fece capire anche che la mia gloria non sarebbe apparsa agli occhi mortali, che consisteva nel divenire una grande Santa!!!». La sua gloria sarà la santità, che è un altro nome dell’amore. «Non voglio essere una santa a metà, non mi fa paura soffrire per te», dirà a Gesù. Perché, a causa della ferita del peccato che aggredisce senza tregua l’amore, non si perviene alla gloria senza passare per il fuoco, ossia senza vincere per prima cosa l’amor proprio. «Non crediamo di poter amare senza soffrire, senza soffrire molto». Sarà questa la guerra di Teresa. Per chi si sia accostato a lei, che Teresa sia una guerriera è insomma un’evidenza. L’oggetto di questo elogio è contrastare gli increduli. Non tradiremo le candele accese da mia nonna, né la statua sulle mensole dei bistrot. Molti scrittori e predicatori nei decenni scorsi hanno voluto “rompere la statua” per portare alla luce la vera Teresa. Che sia stato necessario colpire... perché no? I luoghi comuni sono lenti da erodere. Ma non si spiana una montagna a martellate. E Teresa è sempre lì, nelle nicchie delle cappelle, in mezzo alle bottiglie di Calvados, avvolta in una tunica bianca e sotto un velo nero, con il suo sorriso triste e una croce che non mette paura. Oggi il lirismo polveroso del suo linguaggio XIX secolo non incontra il gusto dei più. Continuano a venerarla delle vecchiette sempre meno numerose. I dileggiatori (anche loro in decrescita) continuano a prenderla per una stupidotta. La maggior parte la ignorano. Eppure lei c’è sempre. E, a ripensarci, la statua non è forse poi così brutta. Bisognerebbe provare a darle una rinfrescata. Il sangue delle rose ne uscirebbe più rosso.

Ildegarda di Bingen.. mistica moderna

"Rimasta monaca, educando le sue sorelle, attraverso il teatro e il canto, a esprimersi in bellezza santità e fede. Critiche e disagi non le sono mancati, tuttavia oggi è sorgente inesauribile di ispirazione per laici e consacrati.

 

Rimiro la donna medievale seduta nel giardino, vedo la sua mano tesa verso un uomo, mentre offre fiori del suo mondo diverso. Sì, mancano persone così: figure politiche, maschili e femminili, figure religiose capaci di produrre frutti costituiti da fatti, non parole. Persone dalle scelte coraggiose e contro corrente che tornino ai principi fondanti una vita umana degna di questo nome e una politica che offra al cittadino la garanzia di vita, sana nel corpo e nella mente. Così, come l'antico Giovenale, saggiamente consigliava di chiedere a Dio Orandum est ut sit mens sana in corpore sano."

 

Gloria Riva

https://www.raiplay.it/video/2024/04/Voci-fuori-dal-coro---Ildegarda-di-Bingen-S1E1-ab1ff991-ed6d-40fc-b0fb-27396eda7adc.html

Letture!

Ildegarda di Bingen profetessa della viriditas – Michela Pereira

Di Autrici di Civiltà

 

 

Il pensiero di Ildegarda, seppure molto lontano nei secoli, ci parla ancora oggi perché è un pensiero sapienziale, un pensiero che non si separa dalla vita, ma ne accompagna e ne riflette gli aspetti di trasformazione, collegando consapevolmente le esigenze cognitive della ragione e le dinamiche concrete del vivere e così producendo una conoscenza che ha il suo fulcro nella relazione dell’essere umano con il mondo in tutti i suoi aspetti materiali e spirituali. In Ildegarda questa sapienza si esprime nella modalità profetica, intendendo con profezia non la divinazione del futuro, ma la trasmissione di un messaggio simbolico che proviene da una realtà più grande dell’io.

 

Ildegarda ne rende intuitivamente comprensibile il significato presentandosi come “la piccola tromba” attraverso cui si esprime la parola divina.

 

Tema centrale di tutta l’opera ildegardiana è la reintegrazione dell’armonia originaria della creazione, che essa vede spezzata, secondo il mito biblico, dalla caduta dell’angelo ribelle e dai successivi tentativi di questi di rivalersi su Dio attraverso gli esseri umani, nel peccato originale e nelle successive manifestazioni del male nella storia. La reintegrazione avviene attraverso il riconoscimento della presenza divina in tutta la creazione, e questo riconoscimento – che porta a concepire una specie di ritorno alla condizione goduta nel giardino dell’Eden – si esprime in maniera pregnante nel termine viriditas.

 

La viriditas, qualità che immaginativamente rinvia proprio alla bellezza del paradiso perduto e che si manifesta per Ildegarda sia nell’ambito dei corpi che in quello spirituale, deriva dall’energia infuocata, ignea vis, attraverso cui la trinità divina opera nel creato, prerogativa speciale della terza persona, lo Spirito santo. La creazione, fin nelle sue minime espressioni è animata infatti dalla linfa vitale, che proviene dal fuoco della vita divina e nella creazione si esplica fino a compiersi nella vita divino-umana del Cristo incarnato.

 

Al momento della creazione dell’homo, dalla terra fu tratta una terra diversa: l’essere umano. Tutti gli elementi erano al suo servizio poiché percepivano che era vivo e collaboravano con lui in tutte le sue attività, e lui con loro. La terra forniva la sua viriditas, a seconda della specie, della natura, dei comportamenti e di tutto l’ambiente umano. (Il libro delle creature, p. 39)

 

Così Ildegarda esprime con immediatezza l’interazione fra mondo naturale ed essere umano nel prologo della Physica, uno dei due scritti nei quali ci è stato tramandato il suo sapere naturalistico, dividendo in una parte “enciclopedica” (la Physica appunto) e in una parte medica (Cause et cure, sottinteso: delle malattie) l’opera alla quale essa aveva dato il significativo titolo di Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum, ovvero Libro degli aspetti impercettibili delle nature diverse delle creature. Perché anche la conoscenza del mondo naturale, come quella della storia e della psiche umana – che sono oggetto rispettivamente delle prime due opere profetiche, Scivias (Apprendi le vie) e Liber vite meritorum (Libro delle scelte di vita) – deriva per Ildegarda dalla “visione”, ovvero dalla capacità di vedere l’invisibile nel visibile, o meglio, attraverso il visibile.

 

Il sapere di Ildegarda si basa di fatto su una intuizione simbolica della realtà storica e naturale, che essa avverte come un dono divino dal quale le deriva il compito, cui non può sottrarsi, di annunciare al mondo le verità che così le sono rivelate. È una modalità di conoscenza capace di tenere insieme molteplici fonti e dimensioni del sapere, che Ildegarda comunica sia nella forma di visioni, commentate da una vox dall’alto cui intreccia la sua propria voce (nelle tre opere profetiche – le due già indicate e il Liber divinorum operum o Libro delle opere divine – e in molte delle sue epistole), sia nella forma più semplice e diretta degli scritti naturalistici, sia infine attraverso la sintesi poetica nelle liriche da lei stessa musicate che compongono la raccolta Simphonia armonie celestium revelationum (La sinfonia armoniosa delle rivelazioni celesti) e nell’Ordo virtutum (Il rituale delle virtù), il dramma di Anima che, alle prese con le tentazioni diaboliche, chiede aiuto alle Virtù.

 

I motivi sviluppati nel grande affresco costituito da tutte le opere ildegardiane sono: la comprensione del senso della storia (creazione, caduta, redenzione, fine dei tempi), la funzione della chiesa e dei sacramenti (Scivias); la comprensione della vita umana nei suoi aspetti psicologici e nelle sue scelte etiche, le virtù come partecipazione degli esseri umani alla vita divina da cui le virtù stesse provengono (Liber vitae meritorum); la comprensione dell’integrazione fra vita cosmica, in cui opera lo Spirito santo, e vita umana come collaborazione all’opera divina (Liber divinorum operum); e infine la sapienza pratica della reintegrazione, mediante la vita regolata dalla virtù della misura e capacità di giudizio, discretio, come insegna la Regola di San Benedetto, il nutrimento e la cura della salute (Liber subtilitatum nelle sue due parti), la pratica del canto.

 

Il tema della viriditas è uno dei fili che percorrono tutti gli scritti ildegardiani. Difficile da tradurre in italiano, se si vuole evitare il brutto calco “viridità”, forse la traduzione più prossima sarebbe l’arcaico termine “verzura“, poiché oltre all’immediata equivalenza con “verdura” e tutto ciò che è “verde” possiede anche il significato allegorico di “vitalità, vigore”, già presente nell’uso latino classico. Tuttavia, la gamma di significati che il termine assume nelle pagine di Ildegarda è ancora più ampia perché conserva a livello immaginale la matrice vegetale e vitale del termine in ambiti diversi, non soltanto del mondo materiale ma anche in ambito spirituale e teologico, a partire da una concezione analogica dei diversi livelli della realtà. In queste pagine, come ho fatto usualmente negli altri miei lavori su Ildegarda, ne darò traduzioni diverse a seconda del contesto, indicandole con l’uso del neretto, per evitare un uso troppo insistito del termine latino. Prima di Ildegarda il termine viriditas era stato utilizzato anche in senso allegorico, pur senza particolare rilievo, da altri autori cristiani, e nei secoli successivi ricompare talora nei testi d’alchimia per segnalare uno dei mutamenti di colore della materia nell’opus della trasmutazione. Ma nessuno, a mia conoscenza, lo utilizza nella gamma di significati e con la pregnanza che si riscontra nelle pagine ildegardiane e che trova riscontro nell’uso simbolico del colore verde nelle miniature dello Scivias, eseguite su progetto e con la supervisione della stessa Ildegarda.

 

Il testo della Physica sopra citato costituisce il punto di partenza per una breve ricognizione che mostrerà la funzione che il termine viriditas svolge nei testi ildegardiani, come indicatore dell’integrazione possibile di alto e basso, materiale e spirituale, immanente e trascendente. Nel prologo della Fisica, sintetizzando in pochissime parole l’atto finale della creazione narrato in Genesi I 26-27, Ildegarda mostra l’essere umano (homo) fatto di terra e terra esso stesso, «una terra diversa». Si deve sottolineare che la parola homo è sempre da lei utilizzata nel suo significato generico di umanità, di essere umano nella sua duplicità sessuata («maschio e femmina li creò», Gen. I.27). Così l’umanità, plenum opus dei, completamento dell’opera del creatore, come tutto il resto delle creature riceve dalla terra l’energia vitale e feconda che in essa si manifesta, essendovi stata immessa dalla forza cosmica del sole, il quale «spande il suo splendore su tutta la terra, per cui essa produce verzura e fiori» (Cause e cure p. 7, l. 23). Portatrice di vitalità, questa energia è presente negli altri elementi, aria e acqua, e nel cosmo intero come opposto della ariditas, della sterile improduttività; e proprio grazie a questa vitalità intrinseca tutti i frutti della terra sono nutrimento e medicina per il corpo umano. Il legame col sole, peraltro, è occasione per andare oltre il senso immediato della viriditas e coglierne il radicamento nell’ambito della trascendenza: «l’energia vitale è opera del Verbo ma essa non esisterebbe se non fosse trattenuta dal fuoco e dal calore; e ogni creatura senza sollievo sarebbe deserta, andrebbe in pezzi e cadrebbe in rovina se non fosse mantenuta salda dal fondamento della vita di fuoco dello Spirito» (Cc p. 22, l.15).

 

Il sole, col suo calore, è dunque l’intermediario cosmico della ignea vita che è propria dello Spirito, il quale la immette e la sostiene nell’intero universo. Ecco perché la verde fecondità della terra e di tutte le creature che la popolano, fino all’umana “terra diversa”, sono manifestazione della vita divina, come conferma un bellissimo e piuttosto noto passo che si legge nelle prime pagine del Liber divinorum operum, dove lo Spirito / Carità (manifestazione femminile del principio divino) così dice di sé:

 

Io sono la suprema infuocata energia […] Io, vita di fuoco della sostanza divina, fiammeggio sulla bellezza dei campi, riluco nelle acque e ardo nel sole, nella luna e nelle stelle, vivificandole con la vita invisibile che tutto sostiene. (Il libro delle opere divine, p. 139)

 

La viriditas è dunque la manifestazione visibile della vita invisibile ovvero dell’energia con cui lo Spirito sostiene tutto ciò che viene all’essere, come esplicita una singolare metafora arborea della Trinità: «con la radice si intende la persona del Padre, col frutto quella del Figlio, con la verde linfa lo Spirito santo, che non sono separati l’uno dall’altro, ma è un unico Dio» (Explanatio Symb. Ath., p. 123). Lo Spirito viriditas che, come abbiamo visto sostiene la vita della terra, sostiene allo stesso modo la vita spirituale umana: «i doni dello Spirito santo pervadono il cuore dell’uomo di verde vita, affinché porti buoni frutti» (Il libro delle opere divine, p. 1001).

 

Nel mondo umano, l’anima è linfa rispetto al corpo, «poiché il corpo umano cresce e progredisce grazie a lei» (LDO 395); fra gli stessi organi del corpo, il cervello fornisce a tutto il corpo sensibilità e vigore vitale, come il sole lo fornisce alla terra; e se tale vigore caratterizza particolarmente il corpo maschile, in quello femminile la viriditas si manifesta come fecondità attraverso la “fioritura del sangue”:

 

La fanciulla possiede la fecondità durante la crescita verso l’età della sua maturazione, ma non ha ancora la fioritura del sangue; tuttavia, nell’età della forza, quando le sue membra si sono consolidate, la fecondità fa manifestare la fioritura del sangue per poter concepire figli; e quando poi arriva al compimento dell’età matura il sangue diminuisce, sicché scompare anche la fecondità della fioritura del sangue (Cause et cure, p. 105).

 

La spiegazione naturalistica che regge l’attribuzione metaforica di viriditas allo spirito, «ogni radice ha in sé la linfa vitale da cui nasce il frutto» (Expl Symb.Ath., ibidem), non solo sostiene la fisiologia femminile, ma torna nelle attribuzioni poetiche della Vergine Maria con la pienezza del valore fisico e spirituale insieme che l’incarnazione richiede. O viridissima virga, o ramo verdissimo, «in te fiorì il bel fiore» (S 19), e «Le tue viscere si empirono di gioia / come l’erba bagnata da rugiada / s’imbeve della sua verde energia, / come fu fatto in te, / o madre della gioia.» (S 17). Nella fecondità verginale di Maria l’incarnazione, che per Ildegarda è il compimento della creazione, il “settimo giorno”, è strettamente connessa alla viriditas dello Spirito: «il Verbo infinito, che è nel Padre prima del tempo della creazione […] era destinato a incarnarsi nell’aurora della verginità beata grazie all’energia vitale della dolcezza dello Spirito santo» (Scivias p. 114), facendosi «Dio e uomo, e da lui germina il verdeggiare della santità» (Il libro delle opere divine, p. 819).

 

Viriditas è dunque in relazione sia con la forza, vis, che con la condizione virginale, nella quale Ildegarda vede la scelta di vita più alta per le donne (ma anche per gli uomini), intendendo la verginità come integrità psicosomatica e dunque bellezza, non riduttivamente come scelta di astinenza dal sesso: «la vergine permane nella semplicità e nell’integrità del paradiso, il bel giardino che mai si vedrà inaridito, perché la linfa degli steli dei fiori resta sempre immutata» (Epistola 52R). «O nobilissima vita feconda / che hai radici nel sole / e, luminosa e serena, / risplendi nella ruota / che nessuna altezza sulla terra / racchiude» (Symphonia 56): Ildegarda canta in questo modo la bellezza di tutte le donne, nascosta ma non cancellata dalla sottomissione all’uomo, come d’inverno la bellezza dei fiori sparisce alla vista, eppure rimane nascosta sotto la protezione della terra, fino a quando l’energia feconda che pervade tutto il creato, tornando a manifestarsi nella sua pienezza in primavera non la riporterà nuovamente alla luce. Le donne sono infatti le eredi di Eva, ultima e più perfetta delle creature, anche più dell’uomo, poiché questo venne creato dalla terra, mentre la sua compagna dalla carne già umana. Era dal corpo della donna che doveva prendere la sua “veste umana” il Verbo, incarnandosi, poiché «come il cielo contiene in sé le stelle nella loro purezza, così lei [Eva] pura e incorrotta conteneva in sé il genere umano senza dolore» (Cause et cure, p. 144). Il peccato sconvolse questo piano, che fu portato a compimento da Maria: perciò essa è insieme l’opposto di Eva e la sua realizzazione. E per questa ragione la viriditas nelle donne, come in Eva e in Maria, si manifesta nella bellezza e nella fecondità corporea e spirituale, non nella forza.

 

Infine, come nel mondo dei corpi l’energia vitale di origine divina è veicolata dal sole e dalle forze del firmamento, nella vita spirituale umana è veicolata dalle virtù che, nella concezione di Ildegarda, sono teofanie divine – personificate nello Scivias, globi di fuoco nel Liber vite meritorum – capaci di sostenere e corroborare l’anima nella sua continua lotta contro la tentazione, dunque sono forze vitali e donatrici di vita spirituale, che derivano dalla viriditas del Dio incarnato, «legno verde che produsse il verdeggiare di tutte le virtù» (Il libro delle opere divine, p. 1071). Ad esempio, Misericordia dice di sé «nell’aria e nella rugiada e in ogni verde linfa sono germoglio dolcissimo» (Liber vite meritorum p. 16); e Pazienza «sono l’aria dolce piena di vita feconda che produce i fiori e i frutti di tutte le virtù» (ivi, p. 18); mentre Giustizia viene definita come la viridis viriditas nella materia creata dall’opera divina (ivi, p. 85).

 

 

«Immaginate che la donna immagini», ha scritto molti anni fa Luce Irigaray, indicando una via d’uscita dal pensiero patriarcale nella possibilità di dare libero corso alla capacità femminile di creare un immaginario diverso. Ildegarda, che vedeva interiormente nell’ «ombra della luce vivente», comunicando questa visione in immagini simboliche che hanno trovato anche espressione visuale nelle miniature dello Scivias, offre un esempio particolarmente suggestivo di questo “immaginare diverso”, esprimendo nel simbolo della viriditas la sua preziosa concezione dell’unità vitale, olistica, del mondo umano, cosmico e spirituale.

Ildegarda di Bingen. Il ricordo della Santa nel mese della ricorrenza della sua morte ( 17 settembre)

Così la vita spirituale e i nostri carismi contribuiscono a costruire il bene

 

Matteo Liut

 

 

 

 

I nostri carismi, le nostre aspirazioni e la nostra stessa vita spirituale sono veri e propri doni destinati alla costruzione del bene comune. Risorse preziose per la comunità che si fonda sulla condivisione di ciò che ognuno vive dentro di sé e nella propria esperienza esistenziale. Così funziona anche «l’edificazione della Chiesa», un’opera della quale, come ricordava Benedetto XVI, santa Ildegarda di Bingen fu testimone particolare. Il 10 maggio 2012 proprio Ratzinger estese il culto di questa mistica tedesca alla Chiesa universale e il 7 ottobre successivo la proclamò dottore della Chiesa. Nata a Bermesheim nel 1098, tra il 1147 e il 1150 vicino a Bingen, sul Reno, Ildegarda fondò il primo monastero e nel 1165 il secondo, sulla sponda opposta del fiume. Nonostante la salute cagionevole arrivò a 81 anni, vivendo un’intensa esperienza spirituale: le sue visioni furono trascritte in appunti e poi in libri. Era interpellata per consigli e aiuto da numerose personalità del tempo, come Federico Barbarossa, Filippo d’Alsazia, san Bernardo, Eugenio III. Negli anni della maturità intraprese numerosi viaggi per visitare monasteri o per predicare nelle piazze. Morì il 17 settembre 1179. La sua testimonianza, notò Benedetto XVI nelle catechesi dedicate a questa santa il 1° e l’8 settembre 2010, ricorda «come anche la teologia possa ricevere un contributo peculiare dalle donne, perché sono capaci di parlare di Dio e dei misteri della fede con la loro peculiare intelligenza e sensibilità».


"Dove sei tu è anche lui".. Santa Monica, la santità di una madre tenace che conduce il figlio a Dio

"Cumulatius hoc mihi Deus praestitit!"

 

("Il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente!")

 

                                                                                      Santa Monica

Santa Monica un esempio da imitare 

 

Papa Francesco 

 

 

Il Signore chiede costanza, ci chiede di essere determinati, senza vergogna.

 

Una preghiera costante, invadente. Pensiamo a Santa Monica per esempio, quanti anni ha pregato così, anche con le lacrime, per la conversione del figlio. Il Signore alla fine ha aperto la porta.

 Nel nostro cuore dobbiamo sempre avere una “santa inquietudine” nella ricerca del vero bene che è Dio-Aiutiamo gli altri a sentire la sete di Dio. È Lui che dona pace e felicità al nostro cuore-

 

 

Agostino vive un’esperienza abbastanza comune al giorno d’oggi: abbastanza comune tra i giovani d’oggi. Viene educato dalla mamma Monica nella fede cristiana, anche se non riceve il Battesimo, ma crescendo se ne allontana, non trova in essa la risposta alle sue domande, ai desideri del suo cuore, e viene attirato da altre proposte. Nelle Confessioni leggiamo questa frase che un vescovo disse a santa Monica, la quale chiedeva di aiutare suo figlio a ritrovare la strada della fede: "Non è possibile che un figlio di tante lacrime perisca". Lo stesso Agostino, dopo la conversione, rivolgendosi a Dio, scrive: "per amore mio piangeva innanzi a te mia madre, tutta fedele, versando più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli". Donna inquieta, questa donna, che, alla fine, dice quella bella parola: cumulatius hoc mihi Deus praestitit! (il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente). Quello per cui lei piangeva, Dio glielo aveva dato abbondantemente! E Agostino è erede di Monica, da lei riceve il seme dell’inquietudine. Ecco, allora, l’inquietudine dell’amore: cercare sempre, senza sosta, il bene dell’altro, della persona amata, con quella intensità che porta anche alle lacrime" ( 27 agosto 2020)

Uniti per sempre in Dio

 

 

 

 «La madre versava calde lacrime per lui, desiderosa di ricondurlo alla vera fede; una volta, come si legge nel terzo libro delle Confessioni, mentre essa era tanto afflitta, le apparve un giovane che le domandò la causa del suo dolore, ed essa, rispose: Piango la morte di mio figlio. Ma l’altro rispose: - Calmati, egli sarà dove sarai tu. In quel mentre il figlio le viene vicino, ed essa gli raccontò quello che aveva visto, ma il figlio le disse: - Ti inganni, mamma, quello che ti è stato detto non avverrà mai. Ma essa rispose: - No, figlio; mi è stato detto che tu sarai dove sarò io». (Jacopo da Varagine - Legenda Aurea)

 

E li vediamo insieme ancora adesso: anche la liturgia ce lo ricorda, facendo memoria di santa Monica il 27 agosto e del figlio, Agostino, il 28 agosto, perché l’incontro con Cristo, somma Verità, li ha resi uniti per sempre!

 

Santa Monica - la madre tenera, tenace e discreta, che mai abbandonò il figlio ed ebbe un ruolo decisivo nella sua conversione, con la sua straordinaria forza d’animo - era nata a Tagaste nel 331, da una famiglia benestante e cattolica. Ricevette una buona educazione religiosa; costantemente leggeva e meditava la Sacra Scrittura. Donna colta e libera, andò in sposa a Patrizio, che era pagano. La vita coniugale la portò ad affrontare un cammino aspro: la gioia dei figli - ebbe due figli e una figlia - si unì alle difficoltà che incontrò nell’educarli cristianamente, al dolore per le infedeltà coniugali del marito, il quale, però, grazie alla fedeltà di Monica, alla sua costanza e alla sua dolcezza, alla fine della vita si avvicinò alla fede e si fece battezzare.

 

Come ogni madre, anche Monica si lasciò conquistare dalla preoccupazione per il futuro e la carriera del figlio Agostino, di cui andava fiera: ma dovette ammettere il proprio fallimento, quando lo vide tornare a casa orgoglioso dei sui successi, ma lontano da Dio - divenne, infatti, esperto di filosofia e maestro di retorica, primeggiando sugli altri grazie a quei doni intellettivi di cui il Signore stesso lo aveva colmato-.

 

Sedotto dagli studi di retorica e dalle correnti filosofico-religiose diffuse in quegli anni, Agostino perse di vista gli insegnamenti della madre che, come egli stesso scrive, insieme al latte materno gli aveva dato da bere il nome di Gesù. Il suo animo insaziabile, irrequieto e un po’ ribelle, lo portò su ben altre strade: si diede a una vita sregolata, ma lei, la madre, continuò ad accompagnare il figlio con l’amore e con la preghiera.

 

La fede trasformerà il suo dolore, perché nella fede ogni dolore diviene dolore di parto, che contribuisce alla nascita di una nuova umanità. «Mi hai generato due volte», le dirà un giorno il figlio: alla vita e alla fede. Dal dolore di Monica, infatti, nascerà l’uomo nuovo Agostino: Padre, Dottore e Santo della Chiesa cattolica.

 

Dall’incontro con il vescovo Ambrogio, avvenuto nel 385 a Milano, comincerà infatti per lui il grande cambiamento: grazie alle predicazioni di Ambrogio capì di aver incontrato finalmente ciò che la sua anima cercava da sempre. Così, nel 387 ricevette il battesimo e riallacciò i legami con la madre, dalla quale non si separerà mai più.

 

Riuniti nella fede in Cristo, aneleranno insieme alla vita eterna!

 

«Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi, cercavamo fra noi alla presenza della verità, che sei Tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì, né sorse in cuore d’uomo. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di Te, per esserne irrorati secondo il nostro potere e quindi concepire in qualche modo una realtà così alta» (Confessioni 9, 10).

 

Monica si spense il 27 agosto del 387: il suo corpo rimase per secoli nella chiesa di Sant’Aurea di Ostia, poi fu traslato a Roma, nella chiesa di San Trifone, oggi di Sant'Agostino.

 

La vita di Agostino proseguì nella certezza che l’unico riposo è in Dio: medico per le sue infermità, guida sicura che poteva mettere ordine tra le sue contraddizioni, l’unico in grado di colmare la sua ricerca di un senso profondo del vivere.

 

Colui che tanto aveva amato se stesso fino a disprezzare Dio, ora amerà Dio fino al disprezzo di sé. Metterà a nudo la propria vita: i suoi errori, i suoi peccati, i moti irragionevoli della sua anima. Si glorierà solo in Dio e cercherà per sempre la gloria di Dio! Aveva compreso, infatti, che per esser veramente grande ed erigere un edificio che arrivi a toccare il Cielo devono prima esser costruite le fondamenta dell’umiltà. E così, nel servizio di Dio e degli altri e riponendo solo in Dio la propria forza, troverà la vera sapienza, che rende culto al vero Dio.

 

Dopo il Battesimo, decise di tornare in Africa con gli amici, con l’idea di praticare una forma di “vita comune”, di tipo monastico. Ma il Signore aveva per lui altri progetti! Rientrato in patria, si stabilì a Ippona per fondarvi un monastero e, in questa città, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero. Diede comunque inizio, con alcuni compagni, alla vita monastica tanto desiderata, trascorrendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione.

 

Sempre rapito dall’amore per la Verità, egli voleva dedicarsi interamente al suo servizio: comprese, però, che la vita da Pastore - che il Signore aveva predisposto per lui - gli avrebbe permesso ancora di più di portare il dono della verità agli altri.

 

Consacrato Vescovo, nel 395, continuò ad approfondire lo studio della Sacra Scrittura e si dedicò instancabilmente al servizio pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l’organizzazione di monasteri femminili e maschili. Esercitò, inoltre, grande influenza nella guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana e nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e misericordioso.

 

Trascorsi molti anni di assidua e instancabile cura delle anime, si ammalò gravemente e, dopo alcuni mesi, mentre la sua terra era assediata dai Vandali, si spense. Era il 28 agosto 430. Il suo corpo, in data incerta, fu trasferito in Sardegna e da qui, verso il 725, fu traslato a Pavia, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, dove ancora oggi riposa.

 

Tutta la sua vita fu mossa dal desiderio di verità: e, una volta trovata, dalla necessità di ricondurre tutti gli uomini alla speranza di incontrarla, nella certezza - acquisita con la sua stessa vita - che la Verità, che è Cristo, corrisponde alle domande di ogni uomo, anche se non tutti capiscono chiaramente, perché non si sentono a volte rispondere ciò che vorrebbero. «Servo fedele - scrive Agostino - non è tanto chi bada a sentirsi dire da Te ciò che vorrebbe, ma piuttosto chi si sforza di volere quello che da Te si è sentito dire» (Confessioni, 10,26).

 

 

Da servo fedele, fino alla fine della sua vita versò lacrime e pregò Dio perché donasse pace, per sempre, al suo cuore inquieto, lasciando che riposasse finalmente in Lui: «Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa’ che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre la tua faccia con ardore. Dammi Tu la forza di cercare, Tu che hai fatto sì di essere trovato e mi hai dato la speranza di trovarti con una conoscenza sempre più perfetta. Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa. Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto ricevimi quando entro; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso. Fa’ che mi ricordi di Te, che comprenda Te, che ami Te!» (De Trinitate XV, 28.51).

 

 

Suor M. Agostina Convertini icms

 

 Una madre genera i figli ogni giorno 

 

 

 

Una madre genera i figli alla vita ogni giorno, perché quotidianamente li accompagna e li “porta dentro di sé” per offrirli al mondo per tutta la vita. Per santa Monica, madre di sant’Agostino, questa esperienza fu particolarmente difficile, ma anche ricca di umanità. Questo lungo travaglio materno, icona dell’amore di Dio per ogni singolo essere umano, ebbe di sicuro il proprio apice nel momento in cui il figlio confessò alla madre di essere giunto a “disprezzare” la felicità terrena per servire Dio. Fu lei stessa a rivelare la gioia per il raggiungimento di questo traguardo da parte di Agostino nell’ultimo colloquio avvenuto nel 387 nella pace della casa di Ostia. Monica, che era nata a Tagaste nel 331, era rimasta vedova a 39 anni, quando Agostino aveva 16 anni. Conosceva bene l’oscurità che il figlio aveva attraversato prima di arrivare alla fede e si può solo immaginare la sofferenza che lei, donna dotta che conosceva le Scritture, provava nell’assistere alla “deriva” mondana di Agostino. La conversione del vescovo di Ippona avvenne di certo anche grazie alla vicinanza spirituale e alle continue preghiere della madre. Nel 387, durante il viaggio da Milano all’Africa, Agostino ebbe un ultimo profondo dialogo con la madre, che morì pochi giorni dopo.

 

Matteo Liut