Nel suo soffio d'Amore, Noi!
«Dio è lode e canta in se stesso, nel segreto della sua vita, un inno eterno, che non è altro se non l’espressione stessa delle sue perfezioni nel suo Verbo e il soffio del suo amore. Quando nella sua sapienza e bontà ha creato l’universo, egli ha donato come un’eco a questo cantico eterno."
Dom Adriano Grea
"Non commettiamo l’errore di pensare che il Signore non abbia più un compito da affidarci. Al contrario, pensiamo che mai come oggi sia necessario, insostituibile, il messaggio pasquale e profetico di Dom Grea, quale segno di libertà e di comunione evangelica.
Contempliamo la bellezza del pensiero di Dom Adriano Grea.. facciamoci stupire dal richiamo alla preghiera, alla divina liturgia, alla penitenza e all’eucarestia che devono essere riversate poi nell’apostolato. La bellezza, l’attualità e l’importanza del suo pensiero e delle sue opere ci doneranno quella forza espressiva e mistica che viene dalla presenza di Cristo tra noi e con noi."
Padre Lorenzo Rossi Fondatore Associazione Culturale Dom Adriano Grea
Il cammino di Dom Grea dà davvero coraggio ai cercatori dando loro coscienza del proprio ruolo nel disegno di Dio. La coscienza del battezzato, del credente, del cristiano che Cristo si aspetta da noi. Questo è fare Chiesa è fare umanità. Questa presa di coscienza sarà la nostra salvezza. Il canto, la poesia, la lode, l'amore pieno verso il prossimo.. Un inno eterno lui ascolta e lui noi..
La vita religiosa è nel tempo presente un inizio, un’anticipazione di questo stato comune a tutti i fedeli nell’eternità costituita sul fondamento comune del Cristianesimo perché abita in tutti come una possibilità bellissima di vicinanza al Mistero, una bellissima scia che riposa e vive nell'humus dell'umanità e così il dialogo tra Dio e il suo popolo e il canto di Dio resta eterno impresso nei nostri passi come brezza leggera.
E’ così che il nostro battesimo conduce noi tutti nella perfetta carità e
contiene il mistero della nostra santificazione e la Chiesa compie in tutti
noi la santità nel compimento della Grazia di Dio in noi.
Associazione Culturale Dom Adriano Grea
"Vivere di fede, oltre i segni sensibili, oltre le circostanze; vedere la volontà di Dio, abbracciarla, amarla, porla in atto. "
Dom Adriano Grea
"La forma visibile della vita dei cristiani è parte essenziale dell’atto comunicativo del Vangelo..."
Severino Dianich
“Sono i cristiani che sorreggono il mondo, con la loro comunione in Cristo, la loro santità, il loro vivere nel mondo senza appartenere al mondo, col dare tutto per amore di Cristo, disposti a perdere tutto pur di restare con Lui, in una parola, seguendo colui dal quale hanno ereditato il proprio nome. Sì, malgrado le forze contrarie, i cristiani – avendo Cristo nel cuore – sorreggono il mondo, non a guisa di una fascia che stringe insieme una ferita, ma come un nutrimento e una cura attenta che aiuta la ferita a guarire dal di dentro”.
J. H. Newman
In Dio, l’unità deve essere anche pluralità: perché “Dio è amore”! Un Dio che fosse pura conoscenza o pura legge, o puro potere non avrebbe certo bisogno di essere trino. Questo anzi complicherebbe le cose e infatti nessun “triumvirato” è mai durato a lungo nella storia! Non così con un Dio che è anzitutto amore, perché “meno che tra due, non ci può essere amore.Che il mondo lo sappia: la rivelazione di Dio come amore sconvolge tutto quello che esso aveva concepito in precedenza della divinità. Noi cristiani crediamo “in un Dio solo”, non in un Dio solitario.
H.De Lubac
Ogni uomo deve impiegare il suo tempo per Amare
“..Questo Gesù ha amato, al di sopra di tutto ama il Padre e noi dobbiamo amarlo in Lui. Ama gli uomini, che anche noi dobbiamo amare, ma come li ama Lui; verso i nostri fratelli si può avere un amore naturale, inferiore peccaminoso, non così li dobbiamo amare, dobbiamo amarli come li ama Lui, vedendoli alla luce del disegno del Padre, della loro Redenzione, della loro gloria eterna, nel loro faticoso cammino della loro virtù. Non amiamo il prossimo per averne piacere, ma perché Dio lo ama e più ama Dio, più noi dobbiamo amarlo. Siamo così?..
..E’ necessario che la vita di Gesù cresce in noi, che si innesti sulla nostra vita, è necessario che i suoi pensieri siano i nostri, che le sue parole siano le nostre parole..
.. Tutto questo è necessario perché operi in noi. Solo allora da tenebre che siamo diventeremo scintillanti, luminosi, ardenti come ferro al fuoco..”
Dom Adriano Grea Saint Antoine 12 giugno 1893
(“La Voix du Pere” p77s, in Conferenze di Dom Adrien Grea pag 83-84)
“Ascoltatori del cuore”
Lungo il nostro cammino come associazione culturale Dom Adriano Grea, abbiamo delineato alcuni aspetti che da tempo affioravano nel nostro percorso di studi seguendo il pensiero, i passi di Dom Grea..
Immergendoci nella lettura di un articolo su Newman “ Ascoltatore del cuore” (Feeria 50 2016/2 Articolo: John Henry Newman, “ figlio di San Filippo Neri”) abbiamo riscontrato nella sua ricerca, il taglio che da tempo abbiamo delineato nel nostro percorso di approfondimento sul pensiero di Dom Grea. Infatti riprendendo queste parole “ Alla contemporanea, talora ingenua, fiducia razionalista di poter provare l’esistenza di Dio mediante argomentazioni “ esternaliste” etc.., Newman risponde col sottolineare il valore della coscienza, delle “ disposizioni” interiori o morali, con le quali il soggetto umano ricerca la verità religiosa. In luogo di un’orgogliosa idea di razionalità ripiegata su se stessa, limitata e autosufficiente: “ Noi crediamo perché amiamo”.
Non si giunge alla fede mediante quella che egli definisce “ logica di carta”. Né gli argomenti sillogistici, né le evidenze prodotte da un sistema, né la dimostrazione dell’ordine del cosmo rendono piena ragione del credere cristiano.
Virando così, in tutt’altra direzione rispetto all’apologetica del suo tempo, Newman riserva gli atteggiamenti interiori- soprattutto alla propria esperienza di coscienza-la chiave privilegiata di accesso alla realtà di fede: “ Se guardassi uno specchio e non ci vedessi la mia faccia proverei lo stesso tipo di sensazione che ora mi prende quando guardo questo mondo vivo, affaccendato, e non vi trovo alcun riflesso del suo creatore.. Se non fosse per questa voce che parla così chiaramente nella mia coscienza e nel mio cuore, quando guardo il mondo io diventerei ateo.. e sono ben lontano dal negare la forza reale degli argomenti dell’esistenza di Dio tratti dall’osservazione sulla società umana in generale e sul orso della storia; ma questi non mi riscaldano, non mi illuminano; non tolgono l’inverno della mia desolazione, non fanno germogliare le foglie nel mio cuore e non rallegrano il mio spirito ( Apologia pro vita sua, cit pp381-382)
E così la ricerca contemplativa di Dom Grea; il mistero: la Chiesa e il suo completamento. L’umanità abbracciata da Dio stesso nella persona di Gesù e rispecchiata dalla Chiesa universale che ha una buona notizia per tutti ( da “ Le Parole del Sinodo”). Una Chiesa universale che si dirama nelle Chiese particolari che non negano anzi vivificano la Chiesa universale. La Chiesa particolare non è quella struttura, non è quell’elemento organizzativo. “La Chiesa particolare è la comunità dei fedeli, è la comunità aperta agli altri,di coloro che battezzati entrano a far parte di una realtà organica e misteriosa qual è la Chiesa nel mondo”( La Chiesa locale; Madre dei Cristiani e Speranza del Mondo”pag 22) e Dom Grea ne fu pionere ma “anche a causa delle sue traversie di fondatore dei canonici regolari dell’ Immacolata Concezione non riuscì a inserirsi di forza nel cammino degli studi di teologia dominati dalle acquisizioni del concilio vaticano primo”( op cit pag 14).
Noi entriamo non tanto nella storia degli uomini ma nella storia di Dio e del suo amore. Lui non si stanca manca mai..a partire dalla creazione dell’uomo
Il mistero,un amore rivelato con Cristo e tuttora rivelato nella diffusione del Vangelo,nell’Ascolto della Parola,la liturgia è il realizzarsi ogni giorno di questo mistero attraverso dei segni,dei sacramenti,attraverso il nostro amore che abbiamo per Dio e i nostri fratelli..la liturgia non è solo un linguaggio ma è il vivere il mistero attraverso le nostre scelte vivendo questo incontro con il Signore.
In tutto ciò la Chiesa è il primo momento dell’esperienza cristiana, il momento sorgivo della nostra stessa fede. Non avremmo niente, liturgia parola testimonianza fede, se non avessimo la Chiesa. La comunità di Gesù precede tutto, precede la stessa gerarchia, gli stessi carismi: io credo perché qualcuno mi ha parlato di Gesù Cristo; posso leggere la Bibbia perché qualcuno prima di me l’ha ricevuta, custodita e trasmessa; posso celebrare la messa perché ripeto i gesti di coloro che li hanno compiuti prima di me … in una parola, la comunità cristiana è il grembo di tutta l’esperienza di fede, di tutto il cristianesimo. E se la Chiesa è grembo germinale della fede dei credenti, essa a sua volta non è altro che l’immagine e il frutto del grembo trinitario da cui la Chiesa ha origine.
Nella storia dobbiamo riconoscere l’affermazione primato dell’iniziativa divina e proprio per questo immergerci nella straordinaria riscoperta della prospettiva trinitaria, della storia della salvezza …«La Chiesa universale si presenta come un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (…(estratto da Liturgia in Dom Grea;Padre Lorenzo Rossi 14 aprile 2015 riflessione tratta da A. Andreini, Il risveglio della Chiesa, in Feeria 43, marzo 2013, pp. 43-44).
La chiesa universale è l’unione di tutte le chiese(“L’Eglise et sa divine Costitution”,pag 70),le chiese particolari non sono province,circoscrizioni..tutto il mistero della Chiesa universale si trasmette alle Chiesa particolari attraverso i sacramenti(“L’Eglise et sa divine Costitution”,pag 69)
La chiesa particolare è il realizzarsi del suo mistero(“L’Eglise et sa divine Costitution”,pag70) che è ciò che il Signore manda fin da quando ci ha creato,ciò che ha compiuto per amore degli uomini in tutta la storia,attraverso suo figlio e noi come chiesa siamo inseriti nella storia dell’amore di Dio verso gli uomini. La Chiesa popolo di Dio e corpo totale di di Cristo si realizza infatti nelle comunità concrete…la Chiesa è lì dove vi è una comunità che che diffonde il suo messaggio che annuncia il suo messaggio,vive i suoi sacramenti e riceve i suoi doni..
La Chiesa è Corpo totale di Cristo e Popolo di Dio in cammino che prega, che accoglie la sua Parola e riceve l’Eucarestia il dono di Dio nella sua pienezza; Cristo dona se stesso al suo popolo tramite lo Spirito Santo, venendo a dimorare in noi e noi, il suo popolo in lui.
Attraverso l’azione dello Spirito Santo, Dio trasmette i suoi molteplici doni a tutto il suo popolo esprimendone la sua novità stessa costante al popolo che vive continuamente la sua chiamata e realizza il suo stato di comunione nutrendosi della Parola di Dio, che vive del Cristo e ne riceve i suoi molteplici doni attraverso lo Spirito Santo.
(Riflessione tratta “Dalla grazia dei muri alla grazia dei volti” pag 48-49)
L’evento della comunione che è innanzitutto grazia accade là dove intenzionalmente ogni volta di nuovo tenendo fisso lo sguardo su Cristo mi pongo di fronte al fratello nell’atteggiamento di Cristo stesso, tratta con lui come farebbe cristo e riconosco in Lui la sua presenza. La comunione è l’inizio, la forma e il fine della vita ecclesiale.( “Vita monastica, luglio-dicembre 2008”,pag 37)
Dio che e in me, vi riposa in Trinità è anche nel cuore dei miei fratelli. Quindi non basta che ami Lui solo in me. Lui è il mio Cielo e come in me nell’anima dei fratelli. E come lo amo in me lo amo nel fratello presso di me. E se i due cieli si incontrano vi è un’unica Trinità ove i due stanno come Padre e Figlio e tra essi è lo Spirito Santo. E raccogliendo l’altra creatura nel proprio Cielo raccogliendo sé nel suo cielo. Questa Trinità è in corpi umani; l’Uomo.Dio.
E fra i due è l’unità ove si è uno, ma non si è soli. E’ qui il miracolo della Trinità e la bellezza di Dio che non è solo perché Amore..
Ma occorre perdere il Dio in sé per Dio nei fratelli. E questo lo fa soltanto chi conosce e ama Gesù abbandonato. ( Rivista monastica n 240 luglio dicembre 2008 pag 37)
Ci riscopriamo quindi protagonisti in questo disegno di Dio.. realizzando la nostra missione di Cristiani. “ Esser cristiani è tirare fuori l’originalità che ci rende unici e irripetibili”. E’ l’audacia dell’impossibile.. è una continua sfida per tutti noi. “ La comunità cristiana è chiamata allora ad annunciare e sostenere una fede che indichi percorsi di vita alternativi, controcorrente, che contestino un sistema e un modo di pensare inoculando il contagio più potente che ci sia: l’amore sovversivo di Gesù!” (Rocca numero 22 L’audacia dell’impossibile pag 46)
I.R.
Materiale Feeria 50 2016/2 Articolo: John Henry Newman, “ figlio di San Filippo Neri” pag 36-43
Articolo “L’audacia dell’impossibile” Rocca 15 Novembre 2016 ( pag 44-46)
La Chiesa locale Madre dei Cristiani e Speranza per il mondo pag 14
La divine economie in Dom Adrien Grea Padre Clemente Treccani
Contemplare la Chiesa
Tratto dagli studi di Padre Lorenzo Rossi Cric Fondatore Associazione Culturale Dom Adriano Grea
P. Henri A. Hardouin Duparc: «Dom Gréa dichiara fin dall’inizio che il suo intento non è quello di imitare i teologi che nei loro trattati hanno descritto l’autorità della Chiesa, la sua amministrazione, la sua forma di società perfetta. Con molto talento, vuole invece iniziare a descrivere, per quanto è concesso alla nostra intelligenza umana, il mistero della costituzione della Chiesa, in quanto è un dono che procede da Dio stesso, per mezzo del suo Cristo; e così comprendere come la Chiesa viene a essere il completamento e lo sviluppo (S. Paolo dice la plenitudo) della missione di Cristo. Questo completamento della missione del Cristo non è distinto dalla persona stessa del Cristo: infatti il compimento della sua missione è la sua unione con l’elemento umano. È che egli venga ad abitare in questa Chiesa, o meglio nelle anime dei discepoli. Dal momento che bisogna ben ammettere che è proprio là il fine della sua missione di Figlio di Dio venuto sulla terra per operare il riscatto e la sovrabbondanza, la copiosa redemptio – grande è presso di lui la redenzione, Ps 129,7 – che dal peccato ci rende figli di Dio. “A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, …” (Gv1,12; cf. D. Gréa, L’Église, p. 81)».
2) H. de Lubac: «Dom Gréa ci invita a una “contemplazione” della Chiesa, ci parla costantemente del suo “mistero”, del “mistero della sua vita”, ce la mostra nel suo rapporto con la Santa Trinità, Chiesa che proviene dal Padre e vi ritorna diretta dal Cristo e animata dallo Spirito Santo. Ma questa visione mistica è quella di un organismo molto ben strutturato che si sviluppa visibilmente nella storia».
3) L. Bouyer, Préface a L’Église, p. 7: «La “Chiesa” di Dom Gréa non sviluppa questi aspetti in opposizione agli aspetti istituzionali e più precisamente gerarchici. Al contrario è l’idea di gerarchia e di ordine sacro che domina la sua sintesi. Ne dà una nozione così profonda e vivente da far capire subito che la gerarchia ben compresa, lungi dal comprimere gli elementi viventi della Chiesa, è ciò che loro dona, insieme con la loro coerenza esteriore, la loro continuità intima e soprannaturale».
2. Chiesa dalla Trinità e gerarchia
Pensare la Chiesa e pensarsi Chiesa nella prospettiva di Dom Gréa e in seguito del Vaticano II significa non più partire da una sorta di fondazione avvenuta una volta per tutte, non solo considerare una societas che viva fedelmente un compito che le è stato assegnato.
La Chiesa è invece il primo momento dell’esperienza cristiana, il momento sorgivo della nostra stessa fede. Non avremmo niente – liturgia, Parola, testimonianza – se non avessimo la Chiesa. La comunità di Gesù precede tutto, precede la stessa gerarchia e gli stessi carismi. La Chiesa è nostra madre perché ci dà il Cristo. Essa genera in noi il Cristo e ci genera a sua volta alla vita di Cristo. Ci dice, come Paolo ai Corinti: «Vi ho generato per mezzo del Vangelo in Cristo Gesù» (1 Cor 4,15).[1]
La comunità dei credenti, a partire dalla prima comunità cristiana nel fervore della sua fede e del suo amore, ha costituito l’ambiente apportatore dello Spirito che suscitò gli evangelisti, capace di conservare inalterato il dogma nel suo rigore e nella sua semplicità. Ha saputo la Chiesa conservare la fede e trasmettere il culto del suo Signore: «Senza la Chiesa il Cristo svanisce, o si frantuma, o si annulla» (P. Teilhard de Chardin).
La comunità cristiana è grembo germinale della fede dei credenti, essa a sua volta è l’immagine e il frutto del grembo trinitario, da cui la Chiesa ha origine. È quanto Lumen gentium descrive nei primi numeri, nei quali viene evocato il mistero della Trinità che agisce nel cuore della storia (cf. A. Andreini, Il risveglio della Chiesa, in Feeria 43, marzo 2013).
L’arcano disegno di sapienza e di bontà del Padre, a noi rivelato attraverso la missione del Figlio, che ci ha mostrato la grandezza dell’amore di Dio e ha fondato la Chiesa, la quale è santificata e continuamente rinnovata per mezzo dell’azione dello Spirito Santo. È così che al n. 4 Lumen gentium potrà concludere: «La Chiesa universale si presenta come un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
Dom Gréa nell’Église così si esprime: «In Dio c’è gerarchia perché c’è unità e numero. … È la società eterna del Padre e del Figlio che riconduce e dona il Figlio al Padre e in questa società la processione sostanziale del Santo Spirito che la porta a compimento. Ecco che questa gerarchia divina e ineffabile si è manifestata all’esterno nel mistero della Chiesa. Il Figlio nell’incarnazione, inviato dal Padre, è venuto a cercare l’umanità per unirla e associarla a Lui. È così che la divina società è stata estesa fino all’uomo e questa estensione misteriosa è la Chiesa. La Chiesa è l’umanità abbracciata, assunta dal Figlio nella comunione (società) del Padre e del Figlio. Per mezzo del Figlio vive in questa comunione e ne è tutta trasformata, penetrata e circondata: “la nostra comunione è col Padre e con il suo Figlio Gesù Cristo” (1 Gv 1,3). La Chiesa non porta solamente in sé le tracce dell’ordine come ogni opera di Dio, ma la realtà stessa della gerarchia divina e precisamente la paternità divina e la filiazione divina, il nome del Padre e il nome del Figlio, vengono a lei e riposano in lei» (pp. 33-34).
Fondamentale per Dom Gréa è questo concetto teologico di gerarchia, che ritorna anche parlando della “Terza uscita di Dio”, ossia del mistero dell’incarnazione: «Vi è qui in effetti la manifestazione suprema di Dio e per comprenderla bene consideriamo che Dio nelle sue opere manifesta i suoi attributi, e in questa manifestazione vi è come un progresso e una gerarchia, un ordine stabilito e seguito» (L’Église, p. 21).
3. Triplice potere conferito alla gerarchia
Dom Gréa approfondisce la propria riflessione sulla gerarchia e sul potere a essa conferito nel Cap. IX de L’Église (ed. Casterman, pp. 88-107), che qui presentiamo, in parte traducendo le parole dell’autore, in parte riassumendo.
Prestiamo attenzione al significato che assume il termine gerarchia per non fermarci all’esteriorità di un potere ridotto agli aspetti giuridici. È importante invece «considerare qual è l’oggetto proprio ed essenziale del potere che costituisce le gerarchie o, se si vuole, quale è l’azione vitale diffusa in esse e che le anima. Noi vedremo nella sua essenza il potere che è nella Chiesa, un potere di insegnare, di santificare e un potere di governare» (L’Église, p. 88).
a. Potere di Cristo
«La gerarchia è depositaria di un potere ricevuto da Dio, che si articola in essa nei diversi membri. Qui c’è la sua essenza e la prima nozione da tenere ben presente. Questo potere è il principio attivo che mette in gioco tutti i suoi organi, si estende così dal centro in tutte le parti, come attraverso tanti canali, per portarvi movimento e vita.
Quale è dunque quanto al suo soggetto la natura di questo potere che Dio ha posto nella Chiesa, o, se si vuole, quali sono le attività incessanti che costituiscono questo potere e la vita di questo grande corpo in ogni suo grado?
Eleviamo i nostri pensieri fino alla sorgente stessa, ed entriamo ancora una volta nella contemplazione del mistero di Cristo che esce dal seno del Padre e porta con sé tutta la vita della sua Chiesa. “Dio è il capo di Cristo” (1 Cor 11,3), e questo vuol dire che Cristo “è da Dio” (Gv 8,42) e riceve da Dio (Gv 16,15). …
Verbo eterno del Padre suo, Egli è la sua parola e la sua verità. Essere da lui, significa ricevere da lui; essere da lui la sua parola, vuol dire ricevere da lui la sua parola. In questa parola, egli riceve ogni parola che viene da Dio, perché tutte le verità particolari sono contenute nella verità unica che è lui stesso. Ed è per questo che egli dice a suo Padre, parlando della sua Chiesa: “Le parole che tu mi hai donato, io le ho a mia volta donate loro” (Gv 17,8), come se si trattasse di più parole; e ancora “loro hanno custodito la tua parola” (Gv 17,6), parlando come di una sola parola. …
Egli è questa medesima sostanza, “Dio da Dio” (cf. Simbolo di Nicea), tutto l’essere, tutta la vita, tutta la santità, tutta la divinità. Il Cristo riceve da Dio e dona alla sua Chiesa. Egli dona in lui stesso l’essere, la vita, la partecipazione di Dio. “Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso” (Gv 5,26); e il Cristo dice a sua volta: “Sono venuto perché abbiano la vita … Io do loro la vita eterna” (Gv 10, 10. 28). Egli concede loro “di diventare figli di Dio” (Gv 1,12), d’essere fatti “partecipi della natura divina” (2 Pt 1,4).
Infine, c’è un terzo aspetto di questi rapporti di Dio e del suo Cristo. Dio è il capo di Cristo, e questo vuol dire che Dio possiede il suo Cristo, perché il suo essere procede da lui e il Cristo appartiene a Dio (1 Cor 3,23).
Gli appartiene per il diritto senza ineguaglianza che dona a suo Padre la sua nascita eterna, e gli appartiene anche per la sua nascita nel tempo e nella sua umanità, che è l’opera di Dio. … e noi vi vediamo anche il potere sovrano che ha sulla nuova creatura, che è opera sua, vale a dire il suo diritto a l’obbedienza umile e assoluta dell’uomo nuovo, che riceve tutto di lui in Gesù Cristo, e che è a lui interamente sottomesso (1 Cor 15,27-28)» (cf. L’Église, pp. 88-90).
b. Comunicazione del magistero fatta da Cristo alla sua Chiesa (cf. L’Église, pp. 90-91)
Cristo comunica alla Chiesa la parola: “quello che ho udito da lui, questo annuncio al mondo” (Gv 8,26). E le comunica anche di insegnare a sua volta: “Andate e ammaestrate tutte le genti” (Mt 28,19). Questo insegnamento ha due caratteristiche: in primo luogo è infallibile; in secondo luogo è dato per mezzo della bocca dei vescovi, in mezzo ai quali il Cristo risiede nella persona del suo vicario.
c. Comunicazione del ministero fatta da Cristo alla sua Chiesa (cf. L’Église, pp. 91-97)
Cristo comunica alla Chiesa il potere di santificazione. Questo potere, distinto dal magistero, è chiamato ministerium (molti teologi lo chiamano sacerdotium) e consiste nell’applicazione del testo di Gv 1,12: “a quanti lo hanno accolto, (il Verbo) ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Per renderli figli di Dio, li ha resi partecipi della natura divina (2 Pt 1,4).
Ciò avviene per il mistero del sacrificio, dove lui stesso è vittima e sacramento: “siamo stati infatti sepolti con lui nel battesimo” (Rm 6,4-5).
Tutti i sacramenti producono sempre questo fine:
il battesimo facendoci morire e rinascere;
l’eucaristia nutrendo questa vita;
la penitenza è rimedio alla malattia;
l’unzione dei malati è la consumazione della penitenza, come la cresima lo è del battesimo;
il matrimonio gli assicura nuovi figli.
Il potere santificatore della Chiesa straripa dai sacramenti e si estende ai sacramentali.
L’episcopato si associa l’ordine inferiore dei sacerdoti.
d. Comunicazione dell’imperium o autorità fatta da Cristo alla sua Chiesa (cf. L’Église, pp. 98-104)
La nuova umanità è chiamata alla vita per mezzo del magistero. Essa è partorita alla vita attraverso il ministero. A chi appartiene? A colui che le dà l’essere, cioè a Gesù Cristo, che sarà il suo re. In tal senso, l’auctor deve avere l’auctoritas. È lui che possiede la Chiesa, che la regge, la governa nella persona del suo vicario, associandosi il collegio dei vescovi, suoi rappresentanti.
L’imperium contiene il potere legislativo, giudiziario, esecutivo, e discende fino al vescovo (pertanto, i principi sia eterodossi sia cattolici compiono un’usurpazione quando pretendono di ingerirsi nel governo ecclesiastico). La città terrestre e la Chiesa sono due società indipendenti, sempre distinte, necessariamente unite. La città terrestre: deve fornire alla Chiesa i suoi membri, deve aiutare e assistere la Chiesa, deve alla Chiesa una certa obbedienza in tutto ciò che questa assistenza esige.
e. Unità del potere gerarchico (cf. L’Église, pp. 105-107)
Questi tre poteri non sono indipendenti gli uni dagli altri, e nemmeno interamente distinti. Come la missione di Cristo è una, i poteri della Chiesa non si separano affatto. Tutti i suoi vescovi sono infine dottori, santificatori, principi spirituali. Sono poteri coordinati che si completano per non formarne che uno solo.
Da ciò deriva l’obbligo missionario del collegio episcopale; inoltre, il vescovo di una Chiesa particolare prima di essere pastore dei fedeli, è innanzitutto dottore degli infedeli.
4. Il mistero della Chiesa vissuto nella comunità: la liturgia
1) Nell’intento di cogliere l’importanza fondamentale rivestita dalla comunità religiosa dei canonici regolari in ordine allo sviluppo e alla stesura del trattato L’Église di Dom Gréa, ci serviamo di questo recente giudizio sulle categorie di mistero e incarnazione:
«L’anima della fede è la passione per Gesù, la sua umanità e divinità che incontra il nostro travaglio profondo di dubbio e di accensione del cuore, di richiesta di senso e di inconsce paure, di apertura e chiusura, il tutto sull’ordito di un alto desiderio di avere nel mondo un compito di amore verso tutti. Soltanto da Lui è per noi possibile accendere quel “fuoco”…
Noi cristiani, oggi più che mai, dobbiamo … avere il coraggio di confidare nel mistero di Dio. Di fatto, il messaggio più centrale e originale di Gesù è consistito proprio nell’invitare l’essere umano a confidare nel Mistero insondabile che si trova all’origine di tutto. …
“Non abbiate paura … Confidate in Dio. Chiamatelo Abbà, Padre amato. … Abbiate fede in Dio” (cf. Mt 10, 26-31). La fiducia nel mistero di Dio …
La sua vita ruotava intorno a un progetto che lo entusiasmava e che lo faceva vivere intensamente. Lo chiamava “regno di Dio” … La sua gioia nel parlare del Padre e nel fare ogni sforzo per comunicarlo. … Felice in quel supremo momento di angoscia e solitudine, nell’abbandonarsi all’amore del Padre. Così Egli ha aperto un canale indistruttibile tra Dio e la nostra condizione umana» (C. Mezzasalma, Il combattimento della fede, in Feeria 44, settembre 2013, pp. 5-7).
2) La sua terra, i luoghi – Baudin, St. Claude, St. Antoine –, la sua comunità, coloro con i quali ha fatto la sua prima professione, i confratelli in seguito sempre teneramente amati fino alla morte, come «l’opera confidata alla mia vocazione»; i grandi protettori dell’opera – il P. Desurmont, mons. de Ségur, luci e guide degli ammirevoli progressi dell’opera durante 40 anni – erano la roccia su cui Dom Gréa poggiava la sua esistenza, tenendo sulle ginocchia la Bibbia. La quotidianità del pensare, del comunicare, del vivere, sgorgava come una creazione, un impasto di materia e parola che rivelava il mistero, senza violarlo e senza esaurirlo: è così che, come un inno di lode, è nata la sua grande opera, L’Église:
«La santa Chiesa cattolica è l’inizio e la ragione di tutte le cose (cf. S. Epifanio). Il suo nome santo riempie la storia fin dall’origine del mondo. … Al di là dei secoli l’eternità l’attende per darle compimento nel suo riposo. La Chiesa porta con sé nell’eternità tutte le speranze del genere umano che essa racchiude» (L’Église, Cap. I, p. 17).
«C’è del mistero in questo, e i ragionamenti tratti dalle analogie umane non possono arrivarci; i governi umani e la polizia degli stati non offrono nulla di simile, ma bisogna elevarsi più in alto e cercare nell’augusta Trinità la ragione e il tipo di tutta la vita della Chiesa» (L’Église, p. 133).
Come fa giustamente notare H. de Lubac: «Dom Gréa si mostra particolarmente sensibile al “mistero della gerarchia”» (Paradosso e mistero della Chiesa, Milano 1979, p. 20, nota 22); lo stesso teologo, citando l’incipit deL’Église, “La santa Chiesa cattolica è l’inizio e la ragione di tutte le cose”, osserva: «È ciò che aveva detto Herma, nel II secolo, nella seconda visione del suo Pastore» (Paradosso e mistero della Chiesa, p. 57), ponendo così in luce le solide radici patristiche dell’ecclesiologia di Dom Gréa.
Il punto focale, che teneva insieme le due fonti della Bibbia e della comunità, era eminentemente la liturgia, quella orante salmodica di tutti i giorni, e quella eucaristica quotidiana e festiva. Essa costituiva un ponte reale e sempre aperto tra ciò che è memoriale, ispirazione, mistero, parola rivelante, e il presente, la storia, l’adempimento sempre in evoluzione. L’attesa e l’annuncio del nuovo sempre veniente; un ponte fatto di parole-gesti, silenzi, incontri, comunione, attenzione, tenerezza perfino: nella liturgia Dom Gréa era davvero il “pontefice” che aveva descritto ne L’Église la sua poesia-lode.
In tal senso, risultano illuminanti queste riflessioni prese dalla Vie de Dom Gréa di Paul Benoît, relativamente alle circostanze storiche di pubblicazione de L’Église:
«Ma amava tanto la Chiesa perché lo Spirito Santo l’aveva a lui rivelata in tutto il suo splendore. Come Ezechiele, aveva ricevuto “la cordicella” per misurare “la lunghezza, la larghezza e l’altezza della Gerusalemme celeste”. Per quarant’anni ne ha parlato in ogni occasione, in pubblico e in privato. All’innumerevole moltitudine dei suoi visitatori, ai religiosi riuniti e formati da lui, alle assemblee dei fedeli venute per ascoltarlo. E tutti, alla sua parola semplice ma infervorata, hanno visto, o almeno intravisto, nella divina sposa di Gesù Cristo delle meraviglie fino allora ignorate.
Tuttavia, tutti i suoi uditori lo incitavano a scrivere ciò che predicava tutti i giorni, a esporre questo mistero della Chiesa che riempiva la sua vita intellettuale e li entusiasmava. Scrisse degli appunti, e poi altri ancora, lasciò a lungo “dormire” i suoi appunti nelle cartelle, e ancora li riprese di nuovo, li completò. Intraprese la redazione definitiva, ma ancora abbandonò 20 volte, 100 volte questa redazione …
Il primo capitolo è terminato. “Pagine sublimi – ho scritto allora –, ove è esposta con tanta magnificenza l’opera di Dio, soprattutto l’opera della sua misericordia”» (Aux origines de la publication du livre “De l’Église et de sa divine constitution”, in Bulletin CRIC, n. 169, mars 1985, p. 1).
Dom Gréa stava grande al centro di questo evento preparato, di questo atteso incrocio di umano e divino, dono di grazia dall’alto e ascesa dal basso di ricerca, invocazione, desiderio. Le parole erano invito, descrizioni profetiche di grande qualità. Gli uditori erano “embrasés” (infiammati), e soprattutto la sua comunità, nel tempo così differenziata, ogni giorno formata e guidata nell’amore della Chiesa, amava le sue istituzioni antiche, e, fra queste, una che ha voluto rinnovare: l’istituto canonico.
3) Ognuno attratto dentro uno spazio-tempo cosmico, riportato dentro la storia “sacra” che forse prima gli appariva non pertinente o irrilevante, atrofizzata nella ripetitività di rituali e ritornelli, per ritrovarsi responsabile, parte indispensabile di un tutto che non annienta, non fagocita, non omologa, ma che salva e ricrea. Parole vibranti, esperienze di preghiera, di lode, digiuni e penitenza.
Secondo questa concezione pregnante di liturgia, «la forma rituale non è più vuoto formalismo, ma appartiene all’essenza del sacramento perché è in essa che è all’opera l’azione misericordiosa di Dio e in essa avviene lo scambio di grazia tra l’uomo che vive nel tempo e Dio che supera il tempo e lo conduce alla salvezza» (L. Della Pietra, Rituum forma, Padova 2012, p. 326, in un capitolo in cui si parla anche della “lezione pionieristica dei primi padri del Movimento liturgico”).
Analogamente, il concetto di liturgia in Dom Gréa non è limitato al solo aspetto cultuale, ma attinge alla visione simbolica tipica della teologia patristica e dell’ecclesiologia del primo millennio. Ecco come il nostro autore prospetta il compito della Chiesa e della liturgia:
«Così l’incarnazione e la redenzione si diffondono nei canali dei sacramenti, nel battesimo e nella penitenza: e questo Dio incarnato, Gesù Cristo, si propaga e vive in tutti coloro che non rifiutano il dono celeste, si estende e si moltiplica senza dividersi, sempre uno e sempre unendo in lui le molteplicità. Ora, è questa divina propagazione di Cristo che lo sviluppa e gli dona questo compimento e questa “pienezza” (Ef 1,23) che è il mistero stesso della Chiesa» (L’Église, p. 26).[2]
4) Per considerare l’importanza decisiva della liturgia nella comunità di Dom Gréa e in quanti lo seguirono, valga, a nome di tanti preti eminenti di varie diocesi di Francia, l’esempio di Henri Ardouin Duparc (cf. Bulletin CRIC, n. 141, Mai-Août 1976). Egli nasce il 22 aprile 1879 a «Chez-Mouteau», a Charroux. Compie i suoi studi secondari a Poitiers, presso il collegio dei Padri gesuiti. Aveva due zii gesuiti, i Padri Anatole e Léonce de Grandmaison, fratelli di sua madre. … Sognava un ministero parrocchiale in un ambiente povero, di operai, ma unito alla vita religiosa. … Ebbe l’occasione di sentir parlare di Dom Gréa, teologo della Chiesa, promotore della liturgia attiva, che univa una austera vita religiosa ad alcune forme di ministero parrocchiale dipendente dai vescovi.
Decide di seguirlo, e come lui fecero quanti restarono incantati ed entusiasti di Dom Gréa e della sua forma di vita religiosa e pastorale insieme, “scambio di grazia tra l’uomo che vive nel tempo e Dio che supera il tempo e lo conduce alla salvezza”: ecco quanto – riprendendo l’espressione di Della Pietra succitata – continuamente traspare nel nostro fondatore.
5) Lasciamo adesso la parola a Dom Gréa, riprendendo stralci di una sua conferenza del 1894 pubblicata nella Voix du Père:
«Ciò che il Padre dona generando il Figlio suo lo estende fino a noi, e noi entriamo in quest’ordine con la nostra incorporazione a Gesù Cristo. Questo mistero non si completerà se non in cielo, perché qui in terra è “velato”, nascosto, combattuto da ciò che rimane dell’antico Adamo. …
Noi siamo fratelli di Gesù Cristo per un legame altrimenti sostanziale e profondo di quello che unisce i figli di uno stesso padre. Ciò che unisce i figli nell’ordine naturale è l’uguaglianza dell’essere, la stessa educazione, la partecipazione agli stessi diritti e alla comune eredità. Nel nuovo ordine non è solo la somiglianza con Gesù Cristo, ma è Gesù Cristo che è ciascuno di noi. È un vincolo ben altrimenti forte, perché Gesù Cristo stesso è in noi … e il termine che conviene meglio per designarlo è membra di Gesù Cristo. … È la sostanza di questo Figlio che è in noi.
Quali conseguenze per noi?
Non siamo una società di persone riunite per vivere insieme; siamo la famiglia di Dio perché Dio ci comunica la sua propria sostanza. La comunica per mezzo del superiore che è il capo di questa famiglia, è in lui che Dio è Padre e attraverso di lui che diventate membra di Gesù Cristo. Sono io che vi comunico la sostanza di Figli di Dio; ve la dono attraverso la parola, attraverso i sacramenti, nel vivere quotidiano. Il vostro padre qui in terra lo è una volta sola. … Ma io sono vostro padre tutti i giorni perché ogni giorno vi comunico la natura divina. …
L’amore che dovete avere fra di voi deve essere lo stesso dell’amore che avete verso Gesù Cristo. … Voi dovete amarvi come i santi in cielo. … Voi dovete avere una carità soprannaturale di cui lo Spirito Santo è il legame. Voi capite allora come la carità non si limita al solo affetto naturale, buono in se stesso, ma che non basta fra di noi. La carità è un’altra cosa che l’affetto naturale. È l’amore che Gesù Cristo ha per il Padre. Di conseguenza i vincoli che ci uniscono devono essere puri: è la carità rispettosa, gioiosa, illuminante, del cielo» (Dom Gréa, Conferenza sul grande mistero della vita religiosa, Saint Antoine, 6 novembre 1894, in La Voix du Père, pp. 81-83).
5. Per concludere
A ogni svolta della storia lo Spirito Santo offre una guida. A ogni civiltà che sopravviene, dona un maestro incaricato di dispensare la sua luce. La Chiesa ha avuto così S. Agostino, S. Benedetto, S. Francesco d’Assisi, S. Domenico, S. Teresa d’Avila, S. Ignazio, e tutti gli altri. Nella storia della Chiesa Dom Gréa ha scritto una bella pagina, che è certamente la comunità da lui fondata, ma è anche un’opera scritta, L’Église, e le sue conferenze e omelie, dove il genio proprio dell’autore vi si svela in tutto il suo carattere.
Costantemente avvolto nella luce che discende dall’alto, ma nel medesimo tempo ha difficoltà nel trovare le parole che possano descrivere la grandezza del Regno dei cieli. Quando guardiamo a lui non lasciamoci impaurire …
Dom Gréa ha creduto che la vita religiosa del clero pastorale diocesano sia una proposta esistenziale possibile. La nostra presenza ecclesiale e storica come comunità religiosa e sacerdotale non va confusa con la nostalgia delle forme esterne; al contrario, questa presenza ecclesiale in mezzo ai sacerdoti e vescovi che frequentiamo, sappia continuamente ispirarsi al messaggio di Dom Gréa come la Chiesa ce lo ha affidato.
Dedichiamoci allora allo studio, alla preghiera dei testi che fanno parte del nostro patrimonio spirituale e storico. Non commettiamo l’errore di pensare che il Signore non abbia più un compito da affidarci. Al contrario, pensiamo che mai come oggi sia necessario, insostituibile, il messaggio pasquale e profetico del fondatore, quale segno di libertà e di comunione evangelica.
Spunti di riflessioni e domande
1) Per Dom Gréa, la Chiesa è Cristo stesso, in quanto è un dono che procede da Dio, è la plenitudo della missione di Cristo. La Lumen gentium ci ricorda che: «La Chiesa universale si presenta come un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Dal punto di vista dell’ecclesiologia trinitaria ed eucaristica, ci può aiutare anche questa riflessione di Piero Coda: «La comunione con Dio e tra noi non siamo dunque noi a farla: è Gesù che la fa, mediante il dono di sé nella pasqua di morte e risurrezione che si fa presente a ogni tempo e in ogni luogo nell’Eucaristia. Essa è Cristo che, donandosi a noi, ci fa uno con sé e tra noi. Per l’Eucaristia Cristo dimora in noi e noi in Cristo, come sottolinea il Quarto vangelo (cfr. Gv 6,56). E poiché Cristo dimora nel Padre, e il Padre in Lui, anche noi, per Cristo, dimoriamo nel Padre e il Padre in noi. Si realizza così, per l’Eucaristia, la preghiera di Gesù al Padre: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi uno (…). Io in loro e te in me, perché siano consumati nell’essere uno” (Gv 17,21. 23). …
È perché noi partecipiamo, nel pane eucaristico, dell’unico Corpo di Cristo, che noi – sottolinea l’apostolo – diventiamo un solo Corpo in Lui, anzi il suo stesso Corpo. Non sfugga il realismo di Paolo: “Come il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. (1 Cor 12,12). Come il Corpo di Cristo, che è comunicato nell’Eucaristia, è Cristo stesso, così chi accoglie il Corpo di Cristo diventa Cristo. Paolo, dunque, non considera il corpo come la somma delle membra che lo compongono, ma come il principio d’unità che tiene armonicamente unite le membra tra loro e al tempo stesso fonda la loro diversità in vista del bene comune» (P. Coda, Diventare comunicazione, Una lettura teologica, in Vita monastica 240 (luglio-dicembre 2008), pp. 29. 31).
Sulla stessa linea teologica, si tenga presente il passo de L’Église, pp. 33-34 (citato a p. 2 della nostra relazione) e la conferenza del 9 novembre 1894, dove Dom Gréa si chiede: «Quali conseguenze per noi? Non siamo una società di persone riunite per vivere insieme; siamo la famiglia di Dio perché Dio ci comunica la sua propria sostanza». Come potremmo rispondere oggi a questo interrogativo suscitato dal nostro fondatore? Come ci sentiamo Chiesa? La nostra vita religiosa e pastorale è informata dall’ecclesiologia trinitaria?
2) «Nei suoi scritti e nelle sue conferenze Dom Gréa insiste molto più sulla necessità di non separare l’attività pastorale dalla vita interiore, che non sull’attività pastorale in se stessa. Una delle parole che egli cita e commenta più spesso è quella del suo amico mons. Mermillod sulla “febbre delle opere”, “l’eresia delle opere”, “l’eresia dei nostri tempi”. … Dom Gréa non voleva che: “con l’apparenza di svolgere un ministero, vale a dire di soddisfare ed esibire se stessi”, i religiosi trascurino il servizio divino “come se, essendo il ministero del sacerdote duplice e riguardando il servizio di Dio e il servizio delle anime per ricondurle al servizio di Dio, il servizio di Dio non fosse il primo e il principale”» (F. Vernet, Dom Gréa, p. 210). Queste parole di Dom Gréa di più di 100 anni fa, sembrano echeggiate da un recente intervento di Papa Francesco alle Pontificie opere missionaria (5 giugno 2015): «Davanti ad un compito così bello e importante che ci sta davanti, la fede e l’amore di Cristo hanno la capacità di spingerci ovunque per annunciare il Vangelo dell’amore, della fraternità e della giustizia. E questo si fa con la preghiera, con il coraggio evangelico e con la testimonianza delle beatitudini. Per favore, state attenti a non cadere nella tentazione di diventare una ONG, un ufficio di distribuzione di sussidi ordinari e straordinari. I soldi sono di aiuto - lo sappiamo! - ma possono diventare anche la rovina della Missione. Il funzionalismo, quando si mette al centro oppure occupa uno spazio grande, quasi come se fosse la cosa più importante, vi porterà alla rovina; perché il primo modo di morire è quello di dare per scontate le “sorgenti”, cioè Chi muove la Missione. Per favore, con tanti piani e programmi non togliete fuori Gesù Cristo dall’Opera Missionaria, che è opera sua. Una Chiesa che si riduca all’efficientismo degli apparati di partito è già morta, anche se le strutture e i programmi a favore dei chierici e dei laici “auto-occupati” dovessero durare ancora per secoli».
Quale visione domina la nostra pastorale? Il compimento delle opere di Dio oppure l’opus Dei? (dove Dei è genitivo soggettivo, nel senso che Dio è il soggetto operante).
3) Dom Gréa ci dice che «l’incarnazione e la redenzione si diffondono nei canali dei sacramenti» (L’Église, p. 26). A tal proposito, si tenga presente il bell’articolo di Enzo Biemmi, Iniziazione cristiana: la spia è accesa, in Settimana 34, 4 ottobre 2015, pp. 12-13. In questo testo (allegato come file), l’autore riflette su luci e ombre del rinnovamento dell’IC avviato negli ultimi 15 anni nella diocesi di Brescia, concludendo che non si tratta di cambiare strategicamente un modello, bensì di dar forma a un nuovo volto di Chiesa: «È così che va inteso lo sforzo di rinnovamento dell’IC: come una strada concreta che contribuisce a cambiare il volto della Chiesa, di tutti quindi, non solo dei genitori e dei ragazzi: dei parroci, dei catechisti, dei consigli pastorali, del vescovo e dei suoi collaboratori, delle strutture diocesane centrali ed intermedie».
Quali sono le nostre esperienze in proposito? I sacramenti nutrono ancora la vita divina in noi e nei fedeli noi affidati? Quali tentativi abbiamo in atto per impostare una seria pastorale liturgica?
4) Non si può staccare Dom Gréa e la sua visione liturgica ed ecclesiologica dalla comunità dei canonici regolari, da lui fondata. La nostra vita e preghiera comunitaria ci aiuta a respirare il senso autentico della liturgia e del mistero di Dio? Vista anche l’esigua configurazione numerica delle nostre comunità locali, quali limiti sperimentiamo? Quali miglioramenti ci suggeriamo di apportare? Come rendiamo partecipi i fedeli della bellezza della liturgia della Chiesa?
5) Dice Dom Gréa, parlando ai suoi confratelli: «io sono vostro padre tutti i giorni, perché ogni giorno vi comunico la natura divina» (conferenza del 6 novembre 1894). Viviamo anche noi oggi il carisma e la fatica della direzione spirituale nei confronti dei fedeli? Vi ci dedichiamo con impegno, anche se essa sottrae tempo alle altre attività pastorali? Riconosciamo in alcuni confratelli il carisma della direzione spirituale e di essere “padri” per la comunità CRIC di oggi?
________________________________________
[1] «Allo stesso modo che una madre spiega al suo bambino il mondo, gli mostra come lo deve vedere, ecc., così la Chiesa appoggiandosi in definitiva sull’esperienza della Madre del Signore, secondo la carne, che era colei che credeva per eccellenza, insegna ai suoi figli la Parola di Dio, trasmette loro in virtù della sua esperienza di madre e di sposa, non solo il senso ma anche il gusto e il sapore, il carattere concreto e incarnato di questa parola» (H. U. Von Balthasar, La gloire et la croix, t. I).
[2] Riferendoci all’insegnamento di Tommaso Federici, auspichiamo il recupero odierno della teologia simbolica, che secoli di razionalismo senza freni ha relegato nel campo del mito e del pensiero primitivo, mentre è la forma stessa della rivelazione biblica, della santa liturgia, del pensiero dei Padre e dei grandi spirituali. Per non parlare della poesia e dell’arte: come comprendere la parola di Cristo senza la teologia simbolica? E i misteri con i quali la Chiesa celebra il suo Signore?
Nel Pensiero di Dom Grea la realtà del domani
a cura di Padre Lorenzo Rossi tratto da riflessioni di R.P. Louis de Peretti, Superiore Generale (1957-1976)dei Can. Reg. dell’Imm. Conc.
Dom Gréa nasce nel 1828, viene ordinato sacerdote nel 1856, muore nel 1917, è un uomo del XIX secolo. Epoca generosa, ma priva di originalità, caratterizzata soprattutto da un’attività di “restaurazione”…con riferimenti storici parziali e spesso inadequati.
Dom Gréa storico, allievo dell’”Ecole des Chartes”, originale nel modo di pensare, si rivela tuttavia mediocre nella sua interpretazione della storia.
E’ un pensatore originale, mosso più da intenti di ordine mistico che storico.
Per lunghi anni meditò sul mistero della Chiesa. La sua opera: “De l’Eglise et sa divine Constitution” è del 1885. Lontano dalle esposizioni dei catechismi e dei libri di teologia del suo tempo, vede la Chiesa non come un’organizzazione, ma un mistero, una sorgente di vita e pertanto la gerarchia risulta non una realtà giuridica, ma una comunione di doni, mistero della presenza di Dio e del suo operare nel mondo.
La costituzione della Chiesa è gerarchica, sia perché istituita da Cristo, sia perché in essa la vita divina è a noi comunicata dai “gerarchi”, dal Sommo Pontefice, Vescovo di Roma, gerarca della Chiesa Universale, segno vivente di unità e vicario di Gesù Cristo; dai Vescovi, sui fratelli, che con lui hanno la responsabilità della Chiesa Universale, ognuno dei quali, però, nella Chiesa particolare rappresenta il Padre, sorgente di vita.
II. Le intuizioni di dom Gréa
Per dom Gréa (ma anche nella realtà…) la gerarchia non è solo un’organizzazione, ma una comunione di doni. Per dom Gréa il Vescovo è l’archetipo perfetto, l’esemplare della Chiesa (particolare) e sorgente di ogni bene.
Le funzioni del Vescovo rimandano ora all’uno ora all’altro di questi aspetti.
a. Nel Vescovo, che possiede la pienezza del sacerdozio, c’è una VOCAZIONE o FUNZIONE CONTEMPLATIVA.
Qualora in una Diocesi, in una Chiesa Particolare non si tenesse in debito conto il carattere contemplativo del sacerdozio del Vescovo, insieme a quello apostolico, questa mancherebbe di qualcosa.
Dom Grèa si chiede se la scomparsa delle Collegiali dei capitoli di Canonici, testimonianza esterna e visibile della vita contemplativa radicata in mezzo agli stessi fedeli, nello stesso tempo non sia la causa e la conseguenza della scristianizzazione del nostro tempo.
b. Altro aspetto della pienezza del sacerdozio del Vescovo: questi è e deve essere un “PERFECTOR”. Il Vescovo, essendo costituito nello stato di perfezione in virtù della sua consacrazione episcopale, ha tra i suoi compiti primari quello di SUSCITARE dei PERFETTI, ed essendo la Chiesa una società, di suscitare dei SOSTENITORI degli STATI di PERFEZIONE.
Il Vescovo ha la responsabilità della santità della sua Chiesa, dei suoi collaboratori e dei suoi fedeli.
Il Vescovo sarà di sprone per i più stretti suoi collaboratori, come anche dei fedeli, perché siano perfetti e abbraccino lo stato di perfezione, la consacrazione piena.
I suoi sacerdoti non dovranno solamente avere lo spirito della Vita Religiosa ( comportandosi il meno possibile da secolari: onori… carriera… beni… regime beneficiario), ma dovranno in quanto tali realizzare lo stato organizzato e organico, sociale, della vita religiosa visibile e istituita.
c. inoltre per Dom Gréa l’EMINENTE VALORE della VITA RELIGIOSA è una ricchezza per i cristiani, ma ancor più per i sacerdoti, stretti collaboratori del Vescovo.
Dom Gréa cita spesso un detto di un canonista francese del XIX secolo: “SAECULARITAS, CLERICIS NON EST PRAECEPTA, SED PERMISSA”. Dom Gréa preferirebbe dire “tollerata”, “appena e deplorevolmente tollerata”, “autorizzata”, “lecita”… e considera la vita religiosa integrale in perfetta sintonia con gli impegni e la missione del sacerdote, ministro del Vangelo e del Corpo di Cristo.
Risulta per lui inconcepibile che uno perché religioso debba lasciare la sua diocesi. Anzi il clero ordinario stesso ha bisogno della Vita Religiosa.
Infatti, la storia, secondo dom Gréa, ci insegna che la prima cristianità di Gerusalemme viveva una vita comunitaria, quella che il Medio Evo chiamerà “vita apostolica”.
Così pure le comunità d’Eusebio da Vercelli, di S. Agostino… del “presbiterio” episcopale, che durante il Medio Evo, costituirà per il Vescovo il suo sostegno, il suo organismo, il suo prolungamento… e che formerà le Comunità di Canonici, prima che, per effetto del rilassamento dei costumi, si arrivi alla divisione dei canonici tra secolari e religiosi (divenendo questi ultimi più o meno degli ordini religiosi distaccati dalla Chiesa Particolare per continuare a vivere)[2].
Per dom Gréa anche nel PRESENTE della Chiesa, come già nel passato, si deve arrivare all’unione tra la vita clericale e quella religiosa.
Per dom Gréa infatti molti sacerdoti pensano – fatto del tutto anomalo – che l’aspirazione alla vita religiosa costituisca un impedimento per lo svolgimento del normale ministero pastorale e dell’essere collaboratori di un Vescovo. I fatti lo dimostrano: il clero religioso normalmente è il clero del Papa, alle dipendenze del Papa; mentre le funzioni della Chiesa Particolare vengono esercitate, in linea di massima, da non religiosi.
Secondo dom Gréa non si deve passare dal fatto al diritto e si auspica quindi che nuovi avvenimenti portino nuovamente in auge, ritornando alla tradizione, il clero religioso del Vescovo e servano così da presupposto per una revisione del Diritto positivo.
Dom Gréa è completamente preso dall’entusiastica visione di un AVVENIRE meraviglioso, le cui premesse sono già nel presente: il clero diocesano, tutto o in parte “religioso”, per opera delle comunità di Canonici Regolari.
Era, infatti, profondamente convinto del ritorno, in un futuro più o meno prossimo, al “presbiterio” (“presbiterio” non “équipe”) con tutte le sue componenti, dove ciascuno operando secondo i diversi gradi del Sacramento, contribuisce al formarsi di una cellula della Chiesa gerarchica, nella Chiesa Particolare, come questa nella Chiesa Universale.
d. Dom Gréa è profondamente convinto che tra i compiti primari del Vescovo ci sia quello di PROMUOVERE la PENITENZA.
Infatti anche la penitenza, come la lode divina, ha un carattere sociale: da qui la sua insistenza sul dovere del Vescovo di promuovere, conservare, difendere il digiuno tra i suoi “perfetti”. La sola penitenza interiore o individuale non può essere sufficiente per la vita e la conversione dei popoli.
III. Una prima valutazione
Essendoci proposti di evidenziare solo le intuizioni fondamentali del pensiero di Dom Gréa ne abbiamo consapevolmente tralasciate altre. Ora non ci resta che presentare alcune considerazioni.
a. Ogni uomo, per necessità di cose, non può che avere, giusta o sbagliata che sia, una visione “PARZIALE” delle cose e pertanto incompleta, cosa ancor più evidente quando si ha a che fare con un uomo di genio.
Dom Gréa va considerato un vero genio religioso. Oggi si direbbe un “profeta”.
Il suo modo di leggere la storia è contestabile e personale. Ma altrettanto incontestabile è il suo amore per la Chiesa, il suo sentire (è la parola esatta) profondo e sagace della Chiesa Particolare, della consacrazione a Dio e dello stato religioso nella vita sacerdotale. Anche se spesso si immerge nella contemplazione di un passato più immaginario e idealizzato che reale, tuttavia rimane l’intellettuale, il teologo, lo spirituale le cui intuizioni possono gettare luce sul presente e sul futuro, senza con ciò pensare alla restaurare in un modo più o meno fedele o archeologico di un Medio Evo da sogno, di pseudo-tempi di una cristianità passata.
b. Il suo pensiero può contribuire a riscoprire e ripristinare il tradizionale modo di considerare la vocazione religiosa nella vita della Chiesa.
Vita religiosa non fatta solo per le donne, per i sacerdoti chiamati a fondare chiese in terra di missione, o a essere di aiuto alle chiese locali (clero della Chiesa Universale), ma per ogni prete, soprattutto per coloro i quali vengono considerati come “la fanteria” della Chiesa, quella radicata sul territorio, il clero diocesano.
c. Tutto ciò è utopia?
Utopista non è colui che sogna una chimera, ma uno che nutre un progetto concreto. Anzi, spesso l’utopia, soprattutto se frutto di una meditazione spirituale e teologica, porta in sé la realtà del domani.
d. Grandi passi in avanti sono stati fatti.
Attualmente i nostri Vescovi francesi non sono più i prefetti in viola dei tempi passati. Sono e vogliono essere la sorgete della Evangelizzazione e della santità dei loro preti e dei loro fedeli. Si escogitano nuove strade per la realizzazione delle aspirazioni comunitarie e religiose: istituti religiosi, istituti secolari, unioni sacerdotali, comunità diocesane, ecc… non si tratta quindi di iniziare dal nulla, anche se molto rimane ancora da fare… e da pensare.
e. Forse per le istituzioni dei Canonici Regolari non è detta ancora l’ultima parola. Non si potrebbe forse pensare che nella loro situazione attuale in parte estra-diocesana o sopra-diocesana (situazione che ha loro permesso di continuare ad esistere per lungo tempo in mezzo a Vescovi troppo secolarizzati: che sono dieci secoli nella storia della Chiesa)? non si potrebbe forse pensare che anche per queste venerabili istituzioni sia arrivato il momento di ripartire su nuove basi, e, qualora se ne presentasse la necessità, forse morire per rinascere su fondamenta più stabili?
Forse con dom Grèa si è solo all’inizio di un discorso che deve protrarsi nella Chiesa e tra gli uomini di Chiesa!
(Il presente articolo è stato pubblicato su “le courrier de Mondaye”, n. 63, 1960, pp.32-35).
[1] Questa è la data riportata nel manoscritto. cf. archivio cric titolo 10/6
[2] Senza dubbio ci si trova di fronte ad una costruzione schematica e idealizzata della storia, ma nostro intento è quello di esporre il pensiero di dom Gréa, non quello personale).
La Chiesa, il grande Sacramento
Padre Lorenzo Rossi
a cura dell'Associazione Culturale Dom Adriano Grea
La Chiesa essendo il punto di incontro di tutti i sacramenti cristiani, è essa stessa il grande Sacramento, che contiene e vivifica tutti gli altri
H. de Lubac
Il vescovo e la vita religiosa
Partendo dal bell’ articolo di P Fouret (tratto dal bollettino dei CRIC 1984 n 168; “Il vescovo e la vita religiosa”). Questo scritto riporta la lettera del vescovo Hamer rivolta a tre vescovi americani per aiutare i religiosi nell’opera di apostolato per vivere una piena vocazione ecclesiale. Hamer rassicura che questo compito non avrebbe inciso né su una diminuzione del ruolo dei vescovi né tantomeno sulla limitazione dei compiti dei religiosi ma anzi ne sottolinea l’importanza sul ruolo di guida dei vescovi e nel far progredire sulla via della santità i loro chierici e religiosi e laici secondo la loro vocazione.
Proprio a partire da questo punto giungiamo al cuore del discorso; Furet dice che il linguaggio espresso dal vescovo Hamer gli ricorda le belle pagine che Dom Grea ha dedicato alla figura vescovo, capo della Chiesa particolare, dove capo” non è solo da intendere capo dell’ organo sul quale è al comando ma come colui dal quale si dirama il corpo della Chiesa: la Chiesa particolare esiste dal suo vescovo, procede da lui, riceve da lui tutta la sua costituzione, riposa su di lui come “ l’edificio riposa sulle sue fondamenta”. “ Il vescovo è lui stesso il Cristo donato( alla Chiesa particolare) per farla nascere e vivere della vita divina”. Il parallelo è davvero stupefacente tra quello che dice Hamer e quello che diceva Dom Grea già un secolo prima…
Nella sua opera principale Adriano Grea espresse pienamente la sua visione della Chiesa. Come esprime Vernet ( riportato da Serentha) negli “ inizi della teologia della Chiesa locale” dire Canonici regolari in Dom Grea “significa introdurre la vita comune e religiosa nel clero ordinario delle Chiese particolari, creando dei preti che siano i religiosi del vescovo, avendo come riferimento le Chiese particolari. Osserva de Lubac in questo testo l’eminente dignità riconosciuta ad ogni sacerdote, le cui funzioni e poteri sono essenzialmente gli stessi di quelli del vescovo (salvo il potere stesso dell’ordinazione). Nel suo sacro ministero il sacerdote cooperatore del vescovo non è il ministro del vescovo; egli è, come il vescovo, ministro di Cristo.La Chiesa universale è certamente superiore alla Chiesa particolare, ma questa assume un ruolo e importante e ben preciso attraverso il vescovo che ha con sé un rapporto intrinseco e ineliminabile con essa. Le Chiese particolari sono nella loro sede il popolo nuovo riunito con lo Spirito Santo, la concentrazione della Chiesa universale che si realizza nelle Chiesa particolari attraverso i sacramenti. Il tutto ( Chiesa universale) in una parte ( Chiesa) particolare)..nell’unità ( “La Chiesa locale Madre dei Cristiani e speranza per il mondo pag 13-14”).Così questa Chiesa non è semplicemente la confederazione di chiese particolari, ma la Chiesa le precede nel disegno divino e comunica ad esse ciò che sono, lungi dal ricevere da esse ciò è lei stessa.
Ecco che Dom Grea ha delineato una nuova ecclesiologia già alla fine dell’800 senza rinnegare la traduzione affinatasi negli anni passati ma precisandola e completandola, ponendosi come un esploratore, pionere il quale purtroppo per le traversie di fondatore dei Canonici Regolari dell’Immacolata Concezione non ebbe riconosciuto ufficialmente il suo grande pensiero che già si profilava come un importante tassello degli studi di teologia prima precursore ora estremamente attuale e preziosissimo per il futuro della Chiesa.
"Il vescovo e la vita religiosa" è il titolo di un articolo pubblicato nel primo numero 1984 di " Informationes SCRIS"
Dizionario-ecclesiologia di Dom Grea.pag 13 Spiritualità del presbitero diocesano pag 11-15.
Dom Grea e l’importanza delle Chiese particolari
“ Dio è il capo di Cristo, il Cristo è il capo della Chiesa universale, il vescovo lo è della Chiesa particolare.
Due grandi soggetti da studiare ed in cui sarà diviso questo lavoro, la Chiesa universale e la Chiesa particolare, e al di sopra come tipo e origine che regola tutti i movimenti inferiori, l’eterna società del Padre e del Figlio, da cui la Chiesa procede, in cui ha la sua forma e il suo esemplare a cui è associata e verso cui risale sempre come a suo centro, sua beatitudine, suo compiacimento.
( dom Grea, De l’Eglise)
“ Il vescovo porta a perfezionamento la sua Chiesa formandosi una corona di cooperatori, in essa, per un’ultima comunicazione della missione sacerdotale, si costituirà un ordine di sacerdoti in tutto inferiore all’episcopato, i quali ne partecipano la virtù, ma senza poterla trasmettere..
Sono il senato della chiesa particolare e vi costituiscono quell’assemblea che nell’antichità veniva chiamato presbiterio”
Dom Grea, De l’Eglise
Questo mistero è sublime! Il Figlio è nel Padre come nel suo principio, Il Padre è nel Figlio come nel suo splendore sostanziale. La Chiesa è anche nel Cristo come nel suo principio e il Cristo è nella Chiesa come nella sua pienezza.
Infine la Chiesa particolare è ancora nel suo vescovo come nel suo principio e il Cristo è nella Chiesa come nella sua pienezza, lo splendore del suo sacerdozio e della sua fecondità
Dom Grea, De l’Eglise
Una profezia per la Chiesa
Ecclesiologia
Profondamente intrecciato a questo discorso è la visione di Antonio Rosmini
anche lui pioniere, profeta di una nuova visione della Chiesa.
Rosmini è nostro contemporaneo in tutto, anche nell’anticipare di oltre un secolo, contro ogni uso del passato, la confessione pubblica delle colpe della Chiesa. Strappando il secolare velo dell’ipocrisia, egli confessa, con pietà e amore di figlio, ciò che oscura il volto della sua diletta Madre. Nell’opera Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, ancora oggi di un’attualità pari alla sua sconcertante arditezza, la sua tesi di fondo è che la Chiesa, se non è veramente libera dal potere politico, non può esercitare pienamente il suo ministero di amore e carità. L’autore vuole la Chiesa libera come alle origini “La Chiesa primitiva era povera, ma libera; la persecuzione non le toglieva la libertà del suo reggimento, né pure lo spoglio violento dei suoi beni, pregiudicava punto alla sua vera libertà. Ella non aveva vassallaggio, non protezione, meno ancora tutela o avvocazia”( Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di A. Valle, Città Nuova Roma 1999, 229)
Oltre a un vivo amore per la Chiesa e una fede salda nella sua divina costituzione, l’opera mostra un’impressionante profondità di visione e una capacità anticipatrice che solo oggi si può pienamente apprezzare. Il teologo roveretano non ipotizzò riforme nella Chiesa , il cui corpo dottrinario è la stessa verità rivelata, come tale irriformabile. Egli parlò di risanamento da certi comportamenti invalsi nella pratica, e non intese neppure rivoluzionare la liturgia dell’epoca, bensì risvegliare lo spirito liturgico nel clero e nel popolo, e questo era per lui il vero rinnovamento della Chiesa “ Quale dannosa ignoranza lo scompaginare quasi mettere in opposizione fra di loro la vita religiosa e la vita sacerdotale, quasi che quella non sia un mezzo e questa un fine! Che perniciosa scissione non cagiona un pensare così stolto da parte nostra tra i sacerdoti secolari e religiosi! Quando la Chiesa in tutti i tempi e con tanti Concilii, i Padri con tanti scritti, i Santi con tanti sforzi, Sant’Agostino massimamente, Sant’Eusebio di Vercelli, San Gregorio Magno, ed altri infiniti cercarono di unire sempre i due stati in uno solo, appunto perché ben videro che la vita sacerdotale aveva stretto bisogno di quelle industrie e di quei mezzi spirituali, di cui religiosi tolgono a far speciale professione*29
La vita religiosa deve essere mezzo per la pienezza e completa efficacia del sacerdozio, e deve essere congiunta a quella pastorale secondo una visione fondata sulla costante tendenza della Chiesa primitiva, che per Rosmini è la vera strada per il rinnovamento del clero:” In Gesù Cristo e negli apostoli erano unite insieme la vita pastorale e religiosa giacchè da una parte essi erano i Pastori della Chiesa, e dall’altra professavano i consigli evangelici, che formano l’essenza della vita religiosa: ed è osservabile altresì come ad una congiunzione così eccellente e desiderabile sia stata sempre rivolta, conformemente al primo modello, la disciplina della Chiesa”*30
Nell’Ottocento l’abate di Rovereto fu il solo a fondare il principio del sacerdozio comune dei fedeli per una comunità ecclesiale unita a Cristo mediante l’unità sacerdotale del clero e popolo. I fedeli non dovevano essere più spettatori passivi, quasi esclusi dalla comunità ecclesiale, tagliati fuori da ogni apporto, ma dovevano essere protagonisti attivi assieme al clero e impegnati nella scelta dei loro pastori:” Il popolo fedele non conviene punto disprezzarsi e considerarsi troppo bassamente: fra di lui non mancano giammai uomini santi, dei prudenti in Cristo, che hanno il senso di Cristo.
Esso popolo è una parte del mistico corpo di Cristo; insieme coi suoi Pastori e incorporato con il suo Capo, egli forma un corpo unico, con il Battesimo e con la Confermazione egli ha ricevuto l’impressione di un carattere indelebile, di un carattere sacerdotale, non già che i fedeli partecipino del sacerdozio pubblico o che abbiano alcuna giurisdizione…ma il semplice Cristiano gode tuttavia di un sacerdozio mistico e privato che gli dà una speciale dignità e potestà e un senso delle cose spirituali. Quindi non solo il Clero gerarchico e non gerarchico, ma anche il popolo cristiano ha certi suoi diritti, vi ha una libertà del Clero, vi ha una libertà del popolo dentro a quei confini che furono prescritti dalla sacra tradizione e dalle leggi della Chiesa: tutti sono liberi in Gesù Cristo”*31
Finalmente e profeticamente Rosmini aveva scoperto il valore del laicato e il suo essere Chiesa a fronte dell’inveterato modo di concepirla soltanto in funzione di clero e gerarchia, valore fatto proprio dal Concilio Vaticano ii e confermato dalla catechesi di Giovanni Paolo II.” La partecipazione e la corresponsabilità dei laici nella vita della comunità cristiana e la loro multiforme presenza di apostolato e di servizio nella società ci inducono ad attendere con speranza un’epifania matura e feconda del laicato.
(Tratto da una “Profezia per la Chiesa”; U. Muratori, ed Feeria, pag 214-216)
29 Conferenze sui doveri ecclesiastici, Sodalitas, Domodossola 1941,59
30 Descrizioni dell’Istituto della Carità, Pane, Casale 1885, 79
31 Lettera a G.Gatti dell’8 giugno 1848, in Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa, 216 ss
32 “ Charitas” 1/1999
8 Annèe n 89 Aout 1939
Dom Grea par Monsegneur Vernet
L’idée de Dom Grèa
E’ il titolo stesso sotto il quale P.Broutin presenta l’opera di Mons. Vernet nella “Nouvelle Revue theologique” Aprile 1939. L’importanza di questo articolo non sfuggirà a nessuno dei nostri lettori specialmente a quelli che hanno una certà familiarità con le altre questioni della teologia e della mistica. Malgrado alcune riserve che può richiamare,questo articolo del sapiente professore della Scuola Apostolica di… (Belgio) è tutto intero in onore del nostro Venerato Padre e del suo stimatissimo biografo.
Il nome di Dom Grea non evoca senza dubbio di ricordi molto precisi presso un buon numero di lettori, coloro che non lo conoscono se non per “sentito dire” collocano la sua opera a un saggio di vita religiosa a comune, a un movimento di riforma e di perfezione iniziato nel clero pastorale si conclude in un nuovo istituto religioso. Coloro che hanno percorso i suoi libri si ricordano di un trattato sulla Chiesa che non ebbe un grande successo o? di un opuscolo sulla “ La santa liturgia” che farebbe pensare a un altro “Dom Gueranger”.
Per gli stessi che hanno conosciuto la sua persona la sua opera rimane qualcosa di strano nel suo destino “ signum cui contradictum” “ Un segno che è contraddetto”.
A leggerlo si direbbe un “profeta del passato” che vede nella sua contemplazione di testi e di canoni antichi la figura ideale della Chiesa e che nella sua ardente devozione fatta di ammirazione quanto di ricordi storici, cerca e trova una sintesi che non può riferirsi a un gran numero.
A vederlo agire lottare e “ morire ancora radice” si direbbe un profeta dell’ avvenire’ sollecitato nelle aspirazioni contemporanee che tenta di realizzare secondo la tempra del suo spirito, del suo cuore e del temporaneamente vigoroso.
Una cosa è certa non fu l’uomo del suo tempo.
La sua formazione di autodidatta a l’Ecole des Chartes a Parigi come a Roma, il suo sguardo fisso sul passato-un’anima di antenato,un’anima del medioevo-
La sua non conoscenza dell’evoluzione delle Congregazioni romane sotto Pio X lo gettarono in una prova analoga a quella che subirono S.Alfonso de Liguori, S.Giuseppe Calasanzio e tanti altri fondatori e fondatrici.
Malgrado la venerazione dalla quale era circondato, malgrado quarant’anni di esperienza, i suoi tentativi di realizzazione integrale dell’ideale intravisto sono stati disconosciuti. Non è la primitiva regola, è un controprogetto, da lui respinto ( rifiutato) che Roma ha accettato, allontanandolo dal governo del suo Istituto.
“ Amen” ha detto il Santo ritirandosi nella solitudine e nella preghiera ,consolato dalle simpatie di Dom Chataurd,dagli incoraggiamenti ostinati del Card Sevin e più ancora forse dall’accoglienza che le sue idee trovavano presso il Card. Mercier.
Sono passati venidue anni dalla sua morte. E fino ad oggi non avevamo altro che la biografia del Canonico Grevy. Scritta nel 1917 (Lione).
Appena dopo la morte del Rev.mo Padre questo libro brochure dal tono così giusto e di un testimone così fedele non poteva fissare per l’avvenire se non i tratti essenziali di un’opera e di un destino straordinari. E’ dovuto all’onore di Mons.Vernet di aver messo in piena luce questa “figura potente e complessa”. Si può seguirlo con confidenza in un racconto dove i fatti esteriori come i pensieri dei cuori sono riportati con fedeltà,tatto, rilievo e visibile simpatia.
Aveva grande merito a farlo; il compito era difficile. Dopo trent’anni, gli avvenimenti sono ancora molto dolorosi per le persone. Lealmente del resto malgrado le sue pagine di bibliografia,malgrado la sua competenza particolare negli avvenimenti ecclesiastici del XIX, il dotto professore dell’università di Lione ci avverte nella sua prefazione che la sua prefazione non è completa.
Era necessario usare con discrezione dei documenti di famiglia che gli sono stati affidati; non ha potuto attingere ad altre fonti che costituiscono l’interesse e la ricchezza e non pretende di aver fatto di ogni ? opera completa e definitiva.
Ciò non di meno ha composto un libro che si impone. Ha attirato gli sguardi a una grande figura religiosa del XIX secolo: e va bene.
Fa pensare e spinge rivedere più da vicino l’opera scritta di Dom Grea: è forse di un’importanza più immediata. A chi vorrà conoscerla meglio non c’è che da riprendere in mano il libro “L’Eglise et sa divine Constitution”
Tutto il segreto di Dom Grea,tutta la sua anima,tutta la sua “idea” visione sta in questo libro così sostanziale,così sintetico, così pio. Sta agli uomini di chiesa riscoprire “ questa miniera ineusaribile di ricchezze teologiche” il cui valore ha per garanti giudici così competenti come altrettanto differenti,come Mons d’Hulot, il canonico Didiot, il cardinale Didiot, il cardinale Billot, il cardinale Mercier.
La vita scritta da Mons. Vernet darà coraggio ai ricercatori,
Non indietreggeranno davanti alle imperfezioni della forma ( Mons De Segur che ebbe in mano le bozze diceva che “la toilette del libro non era fatta”) .
I punti discutibili della sintesi storica, il senso accomodante di alcuni testi della Sacra Scrittura o di Patristica. Senza rendere tutto sistematico, ma con penetrazione,andranno diritti alla tesi.
All’inizio stupefatti si abitueranno all’idea che il trattato della Chiesa deve essere in continuità con quello della Trinità e che il punto di inserzione sono le missioni divine.
La grande originalità di Dom Grea nella sua sintesi del dogma è di collocare su queste assemblee mistiche e sociali i fondamenti di tutta la gerarchia e di ripensare il trattato della grazia sotto il suo aspetto sociale. Nella sua concezione della vita soprannaturale, spiega che per risalire nel seno del Padre, noi siamo in gestazione del senso di una Madre e che per riprende la sua visione nella forma, di un teologo più moderno, il Rp Congar “ la Trinità e la chiesa è veramente Dio che viene da Dio e che ritorna a Dio portando con lui e in lui la sua creatura umana. E’ veramente questa la sua alta dottrina che invece di concludere con l’inabitazione delle Tre persone” non è forse l’insegnamento della Santa Scrittura …
Sono le missioni visibili e inseparabili del Messia e dal Santo Spirito che sono il pegno e il segno delle missioni invisibili e inseparabili che richiamano grazie, virtù, dono del Santo Spirito
Propos sur le traitè de l’eglise
C’era nello spirito di Dom Grea un armonioso contrasto: era un ammiratore appassionato dell’antichità e d’altra parte seguiva con molto interesse il movimento teologico del suo tempo. L’ex allievo de “ L’ecole de chartes” che aveva studiato la sua teologia negli scritti dei Padri, calando ogni tratto nel suo contesto storico che l’aveva fatto nascere, aveva appena allora assistito al Concilio Vaticano I ove aveva studiato tutte le questioni che si erano dibattute in qualità di teologo di Mons Nogret.
Questo doppio amore e interesse si esprimeva nella sua anima in un amore profondo per la Santa Chiesa, questa “ umanità assunta nella società della SS Trinità” perché è “ plenitudo Christi”.
Poteva permettersi dei punti di vista originali che piacciono al lettore senza per questo dare occasione ad equivoci, perché i suoi sentimenti e le sue riflessioni non si sottraggono mai a un profondo rispetto filiale e senza condizioni per la Santa Chiesa.
( Introd.cap II par III e Libro I cap. II; III, IV)
Molti dei concetti che contiene il trattato della Chiesa, erano presentati in forma nuova nel 1885, e sono sati largamente sfruttati e studiati da allora; altri hanno meno richiamato l’attenzione, restano tuttavia suggestivi. Fra i passaggi più salienti del trattato, che rivela il pensiero che ha animato la vita e l’opera di Dom Grea, conviene richiamare alla nostra attenzione il meraviglioso inizio di questo studio che si fa con l’esposizione delle Gerarchie: la prima è nei cieli comunicazione del Padre a suo Figlio nel seno della Trinità, è la generazione eterna mediante la quale il Padre genera il Verbo comunicandogli eternamente la sua divinità e tutti i suoi attributi.
Comprende altresì la missione con la quale il Padre estende la sua generazione divina nel tempo unendo Suo Figlio alla natura umana.
La seconda gerarchia è la comunicazione del Cristo alla sua Chiesa nell’episcopato conforme all’insegnamento di S. Paolo “ Caput Christi Deus” ( 1 Cor. XI 3). Quindi Christus caput Ecclesiae ( Ef V,23).
La terza gerarchia è la comunicazione del Vescovo alla Chiesa particolare.
E nell’insondabile altezza della Trinità che procede la nostra Chiesa ed è sul modello delle relazioni divine e della vita divina che viene edificata la Nuova Gerusalemme. Siamo un poco sorpresi di non trovare il posto del Papa in quel bell’edifcio gerarchico. Lo zelo infallibilista del Vaticano I potrebbe aver permesso tale dimenticanza? No certamente. Si tratta solamente di conoscere in Dom Grea la teoria del “ Vicario” non occupa nella gerarchia una scala a parte, ma esercita il potere si colui che rappresenta; e del quale è, per esprimerci l’organo esecutore. La sua autorità non è distinta da quella del capo. L’autore della tesi sugli arcidiaconi aveva studiato a fondo questa questione e ne era rimasto penetrato da questa unione intima del vicario con Colui che rappresenta.
( Libro II Cap I par I e libro II, Cap X par II).
Allora l’autorità del Papa, presentata sotto questo punto di vista come vicario di Gesù Cristo, appare nella sua forza un’armonia senza paragoni e fa vedere sotto una nuova luce il rapporto fra Papa e vescovi. Il pontificato di S Pietro non appare come un grado nuovo nella gerarchia. Il Papa come vescovo è uguale ai suoi fratelli nell’Episcopato. Ma Gesù Cristo lo costituisce Suo Vicario, cioè Gli dona tutta la sua autorità.
Si aggiunge quindi al Vescovo una nuova autorità, è il Vicario di Gesù Cristo.
E’ lo stesso Gesù Cristo. Il Papa non per questo è un super vescovo ma è Gesù Cristo in mezzo ai suoi vescovi come lo fu alla Cena in mezzo ai Dodici.
( libro III, cap 12)
Altro sentimento e intuizione presso Dom Grea era la sua devozione verso l’Episcopato. Si scrive molto sulla dignità del Vescovo, Dom Grea ha un modo squisito di esprimere la sublime visione del Vescovo al capitolo II del libro III. Vi si noterà una bellissima descrizione della preghiera della Chiesa, che fa parte della missione santificatrice del Vescovo è per questo che la preghiera del Vescovo ha una così grande forza.
( al § II del cap II) ( Libro I, Cap VI § V fine)
Nei nostri giorni appare e si impone l’idea che la Parrocchia deve essere missionaria cioè non deve occuparsi esclusivamente dei fedeli, ma anche della conversione degli scristianizzati. Dom Grea l’aveva scoperto quando osservava la missione di Evangelizzazione e di Colui che converte è primordiale nel vescovo: “ Il Vescovo di una chiesa particolare prima di essere pastore dei fedeli è dottore degli infedeli, e coloro che non sono ancora sottomessi al suo pastorale, non sono ancora entrati nell’ovile mediante la rigenerazione sacramentale,gli appartengono a titolo del suo magistero come al loro dottore e a Colui che deve istruirli”.
Vi è in queste righe il fondamento dogmatico dell’insegnamento sul ministero missionario.
E più avanti (T II pag 145 libro III cap XI prope finem) Dom Grea esprimendo il suo desiderio il ritorno alla povertà apostolica, e una vera vita comunitaria nel seno della Chiesa notava che si adoperava la vita religiosa nelle missioni, ma perché non si usa dappertutto perché il mondo intero non è oggi che un vasto campo di missione. E per rinnovarlo propone lo spirito apostolico nel clero diocesano.
Continuando la lettura del suo trattato dopo la missione del vescovo che noi abbiamo ricordato si trova una buona descrizione del presbiterato nella quale esprime come la grandezza del sacerdote sia nella sua unione col sacerdozio del vescovo e nella sua essenziale dipendenza nei suoi riguardi. Altrove Dom Grea annoterà come segno di questa unione beneficante la concelebrazione nella quale l’azione dei sacerdoti ben lungi da essere diminuita era nobilitata, ingrandita e resa più gradita a Dio.
( Libro III, cap V § 5)
( Libro II cap IX pag 207)
Non teme di esprimere delle idee molto originali riguardo al potere dei vescovi. Così dopo aver esposto come abbiano un vero potere di insegnare nella chiesa universale, afferma che esercitano questo potere non solamente nel Concilio, ma anche nella “ dispersione”. Ogni volta che il Vicario di Gesù Cristo dà delle istruzioni al mondo il vescovo non le riceve passivamente, ma vi aggiunge l’esercizio della propria autorità in unione e in dipendenza di quella del Vicario di Gesù Cristo.
I vescovi ricevendo e seguendo i decreti che vengono emanati dal sommo Pontefici uniscono alla loro obbedienza l’azione della loro autorità, e fanno in modo che tutte le leggi che emanano dal Capo quantunque abbiano per la loro autorità propria tutta la loro forza tuttavia divengono tali anche a causa delle misteriose cooperazioni della gerarchia,l’opera comune dell’autorità episcopale.
( Libro II cap X § 4)
In relazione sempre con l’autorità dell’Episcopato troviamo questa interessante opinione riguardo al dono dell’apostolato. Dom Grea pensa che tutto il potere apostolico di evangelizzazione e di fondare le Chiese,anche se fosse conferito ad ogni apostolo da Gesù Cristo stesso, è sempre dipendente da San Pietro e dai suoi successori, come sarebbe avvenuto con Gesù stesso se fosse rimasto sulla terra.
E questo potere d’apostolato secondo Dom Grea, faceva del resto parte dell’Episcopato, ed è stato trasmesso integralmente ai Vescovi. Solamente le modalità di esercizio di questo potere hanno variato secondo le circostanze o per intervento di Colui che è il Vicario di Gesù Cristo.
Riduce così l’apostolato personale e intrasmissibile degli Apostoli ai doni miracolosi quali la confermazione in grazia il potere di fare dei miracoli,l’ispirazione,le rivelazioni, l’infallibilità e il valore eccezionale della loro testimonianza.
( Libro II cap. VI T 1° pag.160)
Sarebbe interessante seguire attraverso i secoli accanto all’azione del Sommo Pontefice, la storia del Presbiterio romano, noi lo vedremmo di età in età sempre uguale nella sostanza “ povero e venerabile senato di Cristo” come lo chiama S. Pio I nella metà del II secolo, divenire questo imponente e regale Consiglio qual è oggi il Sacro Collegio dei Cardinali.
( Libro III cap IX T. 2° pag 88)
Verso la fine della sua opera, Dom Grea parla della vita religiosa. Al cap IX del libro III delinea un’immagine entusiasta della bellezza delle Chiese particolari in generale; le vede come astri di cieli nuovi, dei focolari ardenti di vita soprannaturale. Vi fa una dichiarazione che tutti forse non condivideranno, cioè che la Chiesa cominciò con la vita religiosa. Ma ci domanderemo come lo dimostri; infatti e da alcuni documenti della tradizione sui quali si appoggia e ai quali si potrebbe aggiungere nel libro II cap X par 2 post medium T.1° pag 215 T 2° pagg 96.
Nello stesso cap IX del libro III al § 2 . Dom Grea incidentalmente si oppone all’opinione che riguarda la vita religiosa come incompatibile del ministero diocesano. Afferma che nell’antichità la disciplina religiosa era incoraggiata,raccomandata e più o meno strettamente praticata più o meno in tutte le chiese al punto che il semplice nome di clericus sia bastato a disegnarla nei primi tempi senza una qualifica particolare. Questo sarebbe la giustificazione della dottrina di S Pio V sullo stato dei “ Canonici Regulares qui ab apostolis origine duxerunt” ultimi resti di questa religione primitiva del clero “ Canonici Regulares, qui in primaeves ecclesiae saeculis clerici nonminabantur”. Ma questa questione era troppo importante perché l’autore si accontentasse di questo breve accenno. La tratterà con più ampiezza a pag 147,159 Libro III cap XII § 1-2-5-6.
(Libro III cap XI par 4 T. 2° pag 127)
Un po’ più tardi troviamo un resoconto così chiaro quanto lo permette la concisione alla quale l’autore si attiene. Il tono è triste e doloroso. Si assiste alla trasformazione dei capitoli regolari ove tutti i “ Chierici Religiosi”, i Canonici, conducevano presso le loro Chiese, una vita fraterna, attiva e raccolta, ora riuniti all’ufficio divino che costituiva una sorgente di vita spirituale, ora nell’esercizio del ministero pastorale che si distribuivano come lo fanno ora i sacerdoti in equipe, ora nello studio e nella lettura. Tutto questo scompariva,la forza del clero e la bella unità morale ne risultavano molto diminuite e le nostre cattedrali cessavano di essere degli alveari operosi e centri di vita spirituale raggianti di esempio e prendevano l’esempio maestosamente solitario che conservano tuttora. Dom Grea ha il cuore gonfio per tutto questo e gli sfugge a volte come un lamento: “ Le ricchezze della chiesa diventano causa di indebolimento per l’azione sacerdotale quando diventano le ricchezze del sacerdote. Col regime dei benefici il sacerdozio non diventa forse una carriera onorevole e remunerativa ove si inseguono vantaggi umani?” E a questo punto l’Autore amava spesso ripetere che “ la paternità non è una carriera e non si conoscono in essa degli avanzamenti.”
Per finire ricordiamo il bel quadro della vita religiosa descritta al cap XII del libro III. Dom Grea aveva restaurato un Ordine nel quale la clericatura è la base, perché i Canonici Regolari sono essenzialmente clero pastorale destinato alla cura delle anime. Ma questo nel contesto obbligato della vita religiosa, dal momento che i Canonici Regolari sono quella parte del clero diocesano che aggiunge al celibato a alla promessa di obbedienza l’integralità della vita religiosa alla quale ha rinunciato il clero secolare.
Dom Grea amava molto la vita religiosa, ma la voleva molto rigorosa ( esigente). Per esempio ripeteva spesso che un religioso non poteva esitare a sacrificare la sua vita se l’obbedienza lo domandava.“ Figli miei noi non abbiamo fatto voto di vivere, ma di obbedire.”
E’ anche per questo che Dom Grea ebbe tanta predilezione per il Padre Giraud de la Salette il quale predicava sempre lo spirito di sacrificio e l’ideale di “ Ostia” come l’ideale del prete.
Così nel capitolo XII noi troviamo delle vere ricchezze il nostro autore comincia con una bella spiegazione teologica e ascetica della vita religiosa in seguito alla quale ci dona un breve sommario della Storia della vita religiosa. Al par IX tratta più a fondo della confusione troppo generalizzata tra “clero secolare” e “clero gerarchico “o diocesano e conclude che il clero titolare e il clero diocesano potrebbe molto bene abbracciare la vita religiosa sotto la direzione del suo vescovo senza decadere dalla sua incardinazione alla diocesi e al suo ministero,ma piuttosto trovandovi il più prezioso sostegno per la sua santità. Osserviamo ancora alla fine del paragrafo X, questa osservazione che i canonici regolari, spesso nel corso della storia per salvaguardare le loro osservanza si erano più o meno ritirati dal servizio pastorale delle anime e avevano anche formato delle grandi Congregazioni maggiormente dedite alla contemplazione e allo studio piuttosto che al ministero delle anime. Così queste si avvicinavano molto all’istituto monastico. Ma le simpatie dei Fondatori dei Canonici Regolari dell’Immacolata Concezione sono riservate a quei Canonici Regolari che erano chierici di una chiesa e esercitavano il ministero delle anime sia nei priorati rurali sia nelle collegiali della città. E’ solo quando il regime beneficiario ebbe rotto l’armonia e il vigore degli antichi capitoli regolari, che il diritto canonico giudicando i capitoli secolari incapaci di adempiere al ministero pastorale delle anime che li obbligò ad attribuirlo ad un vicario ( can.402).
Un giorno un giovane seminarista diceva a Dom Grea che aveva cominciato a leggere il Trattato della Chiesa ma che questa lettura gli era parsa troppo difficile e che ci aveva rinunciato. Dom Grea non rimproverò per nulla il suo interlocutore per la sua leggerezza, ma gli rispose sorridendogli: “Caro amico, non sarà forse perchè avete intrapreso questa lettura in maniera sbagliata? Ditemi per dove avete incominciato? “
“ O Padre mio ho cominciato dall’introduzione”
Bene rispose Dom Grea “ Ecco l’errore, la prossima volta cominciate dal libro dodicesimo capitolo terzo e vedrete che andrà meglio.”
Il giovane seminarista seguì il consiglio e iniziò a gustare l’insegnamento di Dom Grea.
Liturgia...immergiti in questo bagno di gloria, di certezza, di poesia.
Porre la liturgia al centro della vita della Chiesa non è affatto nostalgico, ma al contrario è la garanzia di essere in cammino verso il futuro.
Paul Claudel
La Santa Liturgia in Dom Gréa – a cura di P. Lorenzo Rossi, cric
1. La liturgia nel mistero della Chiesa
L’opera centrale della vita canonica è la liturgia. Così diceva S. Tommaso d’Aquino dei Canonici Regolari: proprie ordinantur ad cultum divinum.
Dom Gréa tiene fermamente a questa consegna. Nella sua opera, La Sainte Liturgie, parla successivamente dell’ufficio divino, della Messa, dei tempi, delle persone e dei luoghi consacrati a Dio:
«Dio è lode e canta in se stesso, nel segreto della sua vita, un inno eterno, che non è altro se non l’espressione stessa delle sue perfezioni nel suo Verbo e il soffio del suo amore. Quando nella sua sapienza e bontà ha creato l’universo, egli ha donato come un’eco a questo cantico eterno. … È alla creatura razionale, fatta a sua immagine, che egli affidava l’incarico di presiedere a questo concerto. … Il Cristo è il Figlio di Dio: essendosi unito alla sua Chiesa l’ha introdotta in Lui nell’eterna alleanza del Padre e del Figlio. Con ciò le concede non più di ripercuotere come un’eco lontana il cantico che è in Dio, ma ve l’associa sostanzialmente, la penetra e l’anima tutta intera del suo Spirito» (La Sainte Liturgie, Paris 1909, pp. 1-2).
La preghiera della Chiesa: ecco il canto di lode che è al di sopra di ogni altra preghiera. La Chiesa prega incessantemente: essa compie precisamente il precetto di nostro Signore, sine intermissione orate.
«La lode perenne si eleva sempre dalle sue labbra. La Chiesa offre, innalza a Dio la preghiera per eccellenza, il sacrificio dell’Eucaristia, e l’ufficio canonico ne costituisce lo sviluppo e il completamento» (cf. La voix du Père, luglio 1947, p. 9).
Questa mistica liturgia non vale se non è sostenuta da una rigorosa ascesi, da uno spirito eroico di sacrificio. È la tradizione dei digiuni e delle astinenze monastiche che Dom Gréa voleva restaurare. Così lui si esprime:
«A questo ministero liturgico, che è il primo di tutti i ministeri, per conservargli la sua identità si deve unire il mistero della penitenza, che è essa stessa un ministero riguardante l’Agnello immolato, al quale essa unisce i suoi membri e il popolo per cui essa si offre in perpetua intercessione» (A. Gréa, L’institut des Chanoines Réguliers, articolo in Le Prêtre 1907, p. 7).
Come la liturgia, la penitenza ha prima di tutto un carattere sociale:
«Noi digiuniamo per la Chiesa, noi rappresentiamo la Chiesa, la nostra penitenza è quella della Chiesa … nessun (santo) ha potuto realizzare una parrocchia senza la penitenza» (La voix du Père, luglio 1947, p. 9).
Questa abnegazione evangelica è la nota più innata della spiritualità di Dom Grèa, così come è la caratteristica della sua vita. Come molti fondatori ha vissuto per la Chiesa, soffrendo per essa e nella prova è stato fedele alla “vocazione” che il Signore gli ha affidato.
La Chiesa è un mistero e … al centro (del suo mistero) c’è il mistero dell’Eucaristia. Ecco perché Dom Gréa riserva un posto così grande alla liturgia.
Il Concilio Vaticano II ha voluto particolarmente ritenere due aspetti dell’opera De l’Église, due aspetti che vogliamo segnalare: la partecipazione attiva dei fedeli che – dice Dom Gréa – è loro diritto, e la concelebrazione della quale per lungo tempo la Chiesa romana ha dato l’esempio. Ma, in realtà, tutta la vita della Chiesa è come una grande liturgia e mai questa verità appare con più evidenza/splendore come nella celebrazione dell’assemblea conciliare (cf. H. de Lubac, La Croix, 20 novembre 1965). Così si esprime Henri de Lubac, presentando l’opera De l’Église et de sa divine constitution:
«Quando all’altare secondo l’antica disciplina il vescovo offre il suo sacrificio assistito dalla corona del suo presbiterio e tutti i preti concelebrano con lui, il vescovo, che è il prete principale, consacra efficacemente; la parola che pronuncia basta al mistero, e tuttavia tutti i preti consacrano in piena verità con lui e le parole che essi pronunciano hanno tutto il loro effetto senza portare alcun detrimento alla pienezza dell’azione del vescovo loro capo.
Al Concilio similmente c’è fra il vicario di Gesù Cristo e i vescovi come una concelebrazione mistica e la definizione divinamente infallibile del dogma, perché come il medesimo Gesù è donato agli uomini nella divina Eucaristia, così la parola e la verità di Dio è trasmessa anche con l’insegnamento della fede».
Osserva de Lubac in questo testo l’eminente dignità riconosciuta ad ogni sacerdote, le cui funzioni e poteri sono essenzialmente gli stessi di quelli del vescovo (salvo il potere stesso dell’ordinazione). Nel suo sacro ministero il sacerdote cooperatore del vescovo non è il ministro del vescovo; egli è, come il vescovo, ministro di Cristo. In anticipo rispetto al Concilio Vaticano II, Dom Gréa non manca di mettere in rilievo l’ordine dei diaconi che «hanno presso i vescovi un ministero di preparazione e di assistenza» (De l’Église, p. 325) e che paragona agli angeli del Signore. Non dimentica il ruolo che nella Chiesa era svolto dai laici e che appartiene sempre normalmente all’«ordine laico» – così come Dom Gréa definisce il ministero dei laici –, cioè al popolo fedele tutto intero (cf. De l’Église, p. 353 ss.). Un altro merito dell’opera di A. Gréa è di mostrare il posto dello stato religioso nella Chiesa. Anche su questo punto Dom Gréa anticipa il Vaticano II, il quale nella Lumen gentium dedica a ciò l’intero capitolo VI.
Così si esprime Dom Gréa: «lungi dall’essere un accessorio superfluo, lo stato di vita religioso è al contrario ciò che vi è di più sostanziale e di più completo nella realtà vitale della Chiesa. … È talmente dell’essenza della Chiesa, che è naturalmente “incominciato con essa, o piuttosto è lei, la Chiesa, che ha cominciato con questo stato di vita” (S. Bernardo). Quando Pietro dice a Gesù: “Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”, fa allusione a un gesto che li strappava dal mondo».
2. Il mistero della Chiesa per Dom Gréa
La visione rigida di una Chiesa monarchica e universalistica cominciava a sgretolarsi grazie ad una conoscenza più rigorosa delle fonti bibliche e al grande apporto del movimento liturgico, che sarebbero stati di fatto all’origine del rinnovamento conciliare. Contro l’idea che la Chiesa fosse il frutto di una perfetta costruzione giuridica, ovvero l’espressione più compiuta della legge divina, andava sempre più affermandosi la convinzione che l’evento cristiano è un’attualizzazione del mistero stesso di Dio che si è reso presente nella vita, morte e risurrezione di Gesù, attualizzazione che avviene ogni volta di nuovo nella celebrazione liturgica. Non si tratta dunque di un’iniziativa umana, di un frutto dei nostri sforzi organizzativi, bensì un autentico e libero dono di Dio da accogliere e vivere nello stile della gratuità e della docilità.
Chiesa mistero, Chiesa popolo di Dio
Parlare di Chiesa come mistero, significa porre al centro l’azione potente di Dio, alla quale guardare per attingere il senso più autentico della missione come discepoli di Cristo.
Il mistero del popolo di Dio che è la Chiesa (cf. Lumen gentium, capp. II e III):
«Il popolo di Dio è un concetto assolutamente decisivo, in pratica scomparso dalla visuale dogmatica già nell’epoca patristica, in specie poi nel medioevo. Era stato riscoperto solo dalle “quattro fiaccole” del 1800, ossia il tedesco J. Adam Möhler (1796-1838), l’inglese John Henry Newman (1801-1890), l’italiano Antonio Rosmini (1797-1855) e il francese Dom Marie Étienne Adrien Gréa (1828-1917), che hanno spianato la strada alla riacquisizione del sec. 20°» (T. Federici, Cristo Signore risorto amato e celebrato, Palermo 2001, p. 46).
In Dom Gréa la Chiesa locale:
«è basata non su una sua comprensione come semplice circoscrizione ecclesiale, ma come la realizzazione piena e concreta del mistero della chiesa “in un luogo”. In questo si percepisce senza dubbio la rivalutazione della teologia dell’episcopato e della relazione tra chiesa ed eucaristia, nonché quella delle testimonianze patristiche iniziali, soprattutto di Ignazio di Antiochia. Suppone, inoltre, un grande correttivo all’ecclesiologia della chiesa universale, diventata egemonica nel corso del secondo millennio ecclesiale» (S. Pié-Ninot, Ecclesiologia, Brescia 2008, p. 352).
Scrive Dom Gréa a p. 68 del De l’Église:
«L’episcopato è uno, la sua autorità nella Chiesa universale è essenzialmente la proprietà comune del collegio episcopale tutto intero, ed è nella qualità di membri di questo collegio che i vescovi l’esercitano». È «uno e semplice, non è posseduto in parti», «è tutto intero ricevuto per mezzo della consacrazione episcopale» e «sussiste uguale in tutti i vescovi, tutto intero in ciascuno come un bene solidale e indivisibile».
«Il suo potere esercitato in maniera ordinaria, non solamente nelle assemblee, ma anche nell’incontro meno importante che i vescovi dispersi sempre uniti nella reciproca dipendenza e sotto l’impulso del loro capo, si prestano senza interruzione per il mantenimento della fede e della disciplina» (De l’Église, p. 225). Ciascuno di loro per questo deve essere nella «comunione gerarchica» con il successore di Pietro: è questo il termine che il Vaticano II userà. Dunque per Dom Gréa ogni vescovo partecipa di diritto ai concili ecumenici. Gesù Cristo ha fatto dei suoi apostoli «dei dottori della Chiesa universale ancor prima che avessero iniziato a formare il gregge nelle loro chiese particolari».
Così questa Chiesa non è semplicemente la confederazione di chiese particolari, ma la Chiesa le precede nel disegno divino e comunica ad esse ciò che sono, lungi dal ricevere da esse ciò è lei stessa. Di più: come l’episcopato è tutto intero in ogni vescovo, così la Chiesa universale è tutta intera in ognuna delle chiese.
Nell’opera di Dom Gréa l’idea di gerarchia e di ordine sacro sono descritte non in opposizione agli aspetti istituzionali e più precisamente gerarchici, ben al contrario è l’idea di gerarchia, di ordine sacro che domina la sua sintesi (cf. la prefazione di L. Bouyer al De l’Église). Di questi aspetti ci dà una visione così profonda e vivente che appare subito che la gerarchia ben compresa, lontano dal comprimere elementi viventi della Chiesa, è ciò che dona loro, assieme alla loro coerenza esteriore, la loro continuità intima e spirituale.
Dom Gréa ci invita in effetti ad una contemplazione della Chiesa. Ci parla costantemente del «mistero» della sua vita. Sa mostrare la Chiesa nel suo rapporto con la Santa Trinità, una Chiesa che proviene dal Padre e vi ritorna per mezzo di Gesù Cristo, animata dallo Spirito.
L’esposizione delle gerarchie (cf. De l’Église, Capp. II. V. VI. VIII).
La prima gerarchia è nei cieli comunicazione del Padre a suo Figlio nel seno della Trinità, è la generazione eterna mediante la quale il Padre genera il verbo comunicandogli eternamente la sua divinità e tutti i suoi attributi. Comprende altresì la missione con la quale il Padre estende la sua generazione divina nel tempo unendo suo Figlio alla natura umana.
La seconda gerarchia è la comunicazione del Cristo alla sua Chiesa nell’episcopato, conforme all’insegnamento di S. Paolo, Caput Christi Deus (1 Cor 11,3); quindi Christus caput Ecclesiae (Ef 5,23).
La terza gerarchia è la comunicazione del vescovo alla Chiesa particolare. È nell’insondabile altezza della Trinità che procede la nostra Chiesa ed è sul modello delle relazioni divine e della vita divina che viene edificata la nuova Gerusalemme (Da alcune note manoscritte del 1903 di P. A. Duparc, discepolo del fondatore).
Così si esprime Dom Gréa:
«Attraverso questo mistero ammirabile delle processioni e delle assunzioni nell’unità che è il fondamento delle gerarchie, come c’è una circumincessione del Padre e del suo Figlio (Gv 14,10), c’è una circumincessione del Figlio e della Chiesa universale (Gv 14,20): “In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi”. Ciò che ci fa dire anche del vicario di Gesù Cristo, perché egli tiene il posto del capo: “Dove è Pietro, là è la Chiesa” (S. Ambrogio). Infine c’è una circumincessione del vescovo e della Chiesa particolare, ciò che fa dire a S. Cipriano: “Voi dovete capire che il vescovo è nella Chiesa e la Chiesa nel vescovo” (ep. 66,8: PL 4, 406).
Quanto è sublime questo mistero! Il Figlio è nel Padre come nel suo principio; il Padre è nel Figlio come nel suo splendore consustanziale. La Chiesa è anche nel Cristo come nel suo principio e il Cristo è nella Chiesa come nella sua pienezza. Infine la Chiesa particolare è ancora nel suo vescovo come nel suo principio, e il vescovo è nella sua Chiesa come nella sua pienezza, nel suo splendore, l’irraggiamento del suo sacerdozio e la sua fecondità» (De l’Église, p. 73).
La Chiesa dalla Trinità
Siamo di fronte al cuore della rivoluzione conciliare. L’affermazione forte del primato dell’iniziativa divina e proprio per questo la straordinaria riscoperta della prospettiva trinitaria, della storia della salvezza … Un popolo che vive continuamente della chiamata di Dio … La Chiesa è il primo momento dell’esperienza cristiana, il momento sorgivo della nostra stessa fede. Non avremmo niente, liturgia parola testimonianza fede, se non avessimo la Chiesa. La comunità di Gesù precede tutto, precede la stessa gerarchia, gli stessi carismi: io credo perché qualcuno mi ha parlato di Gesù Cristo; posso leggere la Bibbia perché qualcuno prima di me l’ha ricevuta, custodita e trasmessa; posso celebrare la messa perché ripeto i gesti di coloro che li hanno compiuti prima di me … in una parola, la comunità cristiana è il grembo di tutta l’esperienza di fede, di tutto il cristianesimo. E se la Chiesa è grembo germinale della fede dei credenti, essa a sua volta non è altro che l’immagine e il frutto del grembo trinitario da cui la Chiesa ha origine. È quanto la Lume gentium descrive nei primi felicissimi numeri, nei quali viene evocato il mistero della Trinità che agisce nel cuore della storia: l’arcano disegno di sapienza e di bontà del Padre, a noi rivelato attraverso la missione del Figlio che ci ha mostrato la grandezza dell’amore di Dio e ha fondato la Chiesa, la quale è santificata e continuamente rinnovata per mezzo dell’azione dello Spirito. È così che al n.° 4 Lumen gentium potrà concludere: «La Chiesa universale si presenta come un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (cf. A. Andreini, Il risveglio della Chiesa, in Feeria 43, marzo 2013, pp. 43-44).
Dalla tesi di licenza in teologia dogmatica di P. Clemente Treccani:
«Uso della Scrittura citata
Alla conclusione di questo capitolo (il III cap., n.d.r.) è bene trattare come Dom Gréa amava e citava la Sacra Scrittura. Si premette quanto dice in proposito F. Vernet, a p. 247 della sua biografia su Dom Gréa:
“Pour l’Ecriture il eut un véritable culte. Il la lisait entièrement chaque année. Il en avait une édition en plusieurs volumes, lui permettant d’emporter, dans ses voyages, la partie qu’il avait à lire durant son absence. Aussi possédait-il parfaitement la parole de Dieu. Il en connaissait, non seulement le texte, mais encore le sens profond, et il parlait d’expérience quand il disait à ses fils que la Sainte Ecriture s’explique par elle-même.”
Abbiamo qui sintetizzato tutto il materiale di studio. Per citare la Sacra Scrittura, bisogna prima leggerla. Il Gréa, veramente, deve aver amato molto la Scrittura tanto da leggerla ogni anno. Quanti sacerdoti, religiosi, uomini di Chiesa sanno leggere ogni anno tutta la Scrittura? Io per primo, figlio di Dom Gréa non l’ho ancora seguito in questo esercizio. Il suo biografo parla di “un véritable culte”. Non ho ancora appurato quali siano state le Bibbie usate dal Gréa, ma ciò che più è importante è che egli “possédait parfaitement la parole de Dieu”. Se è figlio del suo tempo per una certa ampollosità di espressione, per una lettura poco critica nel senso delle attuali scienze bibliche, d’altra parte è un profondo conoscitore, e dai Padri ha imparato a commentare “la Scrittura con la Scrittura” stessa. E questo è un pregio. Basta vedere i passi che cita. Egli è completamente preso dal Mistero, e perciò ascolta per lasciarsene riempire. Nell’ascolto egli penetra nel mistero della misericordia e della bontà divina. All’ascolto segue l’incarnazione, cioè nella preghiera liturgica. Il Gréa vive la parola di Dio specialmente come lode. A questo proposito basta leggere i cap. 2º e 3º de La Sainte Liturgie, pp. 4-24, per rendersi conto della sua venerazione per la Sacra Scrittura. Ma non è una venerazione disincarnata, bensì una “liturgia” continua che adora il Mistero divino celato e svelato nelle Scritture. Così, nei suoi scritti, il Gréa non fa una scelta posticcia della Scrittura, ma una cernita ben accurata e pertinente. Fa emergere il testo biblico per dare così un fondamento biblico alle sue meditazioni sulla divina costituzione della Chiesa. Con alla mano la tabella delle citazioni, ci si accorge subito del tipo della sua scelta. A p. 11 de La Sainte Liturgie egli dice:
“La matière des lectures ecclésiastiques est d’abord la Sainte Ecriture; et dans la Sainte Ecriture, la dignité la plus haute appartient à l’Evangile; puis viennent les écrits apostoliques du Nouveau Testament et le livres de l’Ancien Testament”.
Si è notata l’abbondanza delle citazioni da Giovanni e da Paolo. Ora se il suo studio è di prevalente carattere dogmatico, ciò non toglie che il Gréa vi ha premesso prima una valida base biblica, pur con i mezzi limitati della sua epoca. Il movimento biblico era appena iniziato. Quanto detto finora è degno di nota. É vero che il Gréa fu chiamato il teologo della Chiesa, specialmente dell’episcopato, della Chiesa particolare. Ma è anche vero, grazie anche alla sua profonda conoscenza dei Padri, che se ne scopre un’altra qualità: la solida base scritturistica ne l’Eglise et sa divine constitution, che ancora interpella e sprona ad una maggior “intelligenza” della Parola di Dio. Proprio per la dinamicità di essa, noi possiamo contemplare la “divina economia”, cioè il mistero della santificazione operato in Cristo» (La “Divine economie” in Dom Adrien Gréa, Roma 1980, pp. 84-85).
La santa liturgia secondo Dom Gréa – II parte, 13 maggio 2015
(a cura di P. Lorenzo Rossi, cric)
Il solo studio della visione del mondo in un mistico e in ogni uomo diviene rivelatore, per la scelta che implica, della sua finezza di spirito, della profondità del suo pensiero, della ricchezza del suo cuore, dell’intensità della sua scelta di vita (engagement) e più ancora della forma e del grado stesso della sua unione a Dio.
Come il nostro fondatore ha vissuto e pensato il dogma, la storia del cristianesimo, il vangelo, occorre ritrovare la sintesi unica e vivente che egli è riuscito a realizzare.
L’ambiente in cui si muove il Gréa si delimita nel clima romantico della prima metà del secolo scorso, nel quale egli guarda al passato cristiano con interesse e simpatia. Nutre quindi un forte interesse per il mondo cristiano antico e medioevale (cf. C. Treccani, Tesi di licenza, p. 15). Egli sogna una Chiesa che nel presente vede incapace di ritrovare il vigore e lo spirito da cui era animata nel passato. Negli anni degli studi parigini si impegna nello studio della patrologia e della storia ecclesiastica. Si appassiona per le Institutions liturgiques di Dom P. Guéranger.
Di conseguenza per Dom Gréa la Chiesa è ecclesìa: essa comprende il popolo, abbraccia l’umanità, attrae a sé anche le cose e il mondo intero. In tal modo essa acquista l’ampiezza cosmica dei primi secoli e del medioevo.
La figura della Chiesa come si presenta ne L’Église
Nelle epistole di S. Paolo agli Efesini e ai Colossesi l’immagine della Chiesa acquista una forza tutta nuova. Sotto la guida del suo capo, Cristo, la Chiesa comprende «tutto quello che sta in cielo, in terra e sotto terra» (cf. Fil. 2,10). Nella Chiesa tutto è legato a Dio: gli uomini, gli angeli e le cose. In essa comincia fin da ora la grande rinascita «alla quale tutta la creazione anela» (cf. Rom. 8,19 ss.).
Questa unità è proprio quella che L’Église descrive, negli stessi termini che ottanta anni dopo avrebbe usato la Lumen gentium. La riflessione di Dom Gréa comincia dal “mistero” della Chiesa, un termine che presso il nostro autore indica il mistero trinitario e la sua espressione, il suo compimento nella storia dell’umanità per mezzo della Chiesa (cf. Bulletin CRIC, n. 170, juin 1985).[1]
Nella misura in cui diveniamo una cosa sola con Cristo ci avviciniamo al Padre; e lo Spirito Santo, Spirito di Gesù, è la guida e ci indica la via. Egli dona la grazia di Cristo, insegna la verità di Cristo, rende operante l’ordine di Cristo. Questa è la legge che fa organica la vita cristiana: la legge della SS. Trinità (cf. R. Guardini, Il senso della Chiesa, Brescia 20072, pp. 24-26).
G. Fontaine, CRIC, La vita liturgica dei Canonici Regolari dell’Immacolata Concezione
I. Nella vita e nell’opera di Dom Gréa.
La liturgia è stata il cuore della vita e dell’opera di Dom Gréa. La vita comune e religiosa che il restauratore della vita canonicale in Francia desidera mettere in onore in seno al clero diocesano è una vita fondamentalmente basata sulla liturgia. Nella sua conferenza indirizzata al Capitolo dei priori (2 aprile 1902), Dom Gréa afferma:
«Fra i compiti ai quali i Canonici Regolari possono dedicarsi secondo il fine della loro vocazione, viene in primo luogo, per la dignità e l’eccellenza, il culto divino».
Nel suo trattato L’Église et sa divine constitution, il cap. 35 è consacrato allo stato religioso. Dom Gréa scrive nei riguardi dei Canonici Regolari:
«Sono chierici per essenza, ci dice S. Tommaso, mentre i monaci lo sono diventati “per accidens”. Nota 39: S. Tommaso, Secunda secundae q. 189, a. 8: “La religione dei monaci e quella dei Canonici Regolari si rapportano l’una e l’altra alle opere della vita contemplativa e, fra queste opere, le principali sono la celebrazione dei santi misteri, alla quale è direttamente ordinato l’ordine dei Canonici Regolari, che sono essenzialmente dei chierici religiosi (‘Quibus per se competit ut sint clerici religiosi’). La religione dei monaci, al contrario, non comporta necessariamente la clericatura (‘ad religionem monachorum non per se competit ut sint clerici’)”. Cf. Dom Morin, osb, L’idéal monastique et la vie chrétienne des premiers siècles, Maredsous 1944, pp. 134-135; A. M. Henry, o.p., Moines et chanoines, in La Vie Spirituelle 80 (1949), pp. 60-61».
Dom Delaroche, il suo successore alla testa dell’Istituto scriveva qualche mese dopo la morte di Dom Gréa:
«Si può dire che tutta la sua vita e quella che intendeva donare all’istituto fondato da lui non era altro che la vita liturgica elevata alla sua più alta espressione. Penetrato come era dell’eccellenza della preghiera della Chiesa, Dom Gréa vedeva nell’Ufficio divino, l’opus Dei, la prima cosa, la più importante, nella quale non potevano prevalere mai né gli studi, né le relazioni, né le opere. Così con quale fedeltà eroica la praticava in tutta la sua vita, e quale importanza e tempo gli dedicava nel suo istituto!» (Dom Gréa, La vie et les arts liturgiques, juillet 1917, pp. 385-387, citato in F. Vernet, Dom Gréa, pp. 195-196).
La parola di Dom Gréa era la più persuasiva delle iniziazioni alla liturgia, sia nel corso che impartiva ai suoi religiosi sia nelle negli incontri familiari che spesso riguardavano questioni liturgiche.
Questo fervore si ritrova nel suo libro La Sainte Liturgie, pubblicato nel 1909. Molti argomenti sono stati raccolti da conferenze tenute da Dom Gréa a St. Claude e in seguito nell’abbazia di St. Antoine. «Né completo, né definitivo, questo libro rimane sempre istruttivo e ricco: dona l’intelligenza del culto divino, aiuta a seguire l’evoluzione liturgica, e fa bene per gli slanci di una mistica tradizionale» (F. Vernet, p. 136).
«La preghiera liturgica è il più eccellente omaggio che possiamo rendere a Dio …» (Dom Gréa): così i redattori del Proprium liturgiae horarum ad usum Confoederationis Canonicorum Regularium S. Augustini hanno avuto la felice idea di far leggere, all’Ufficio delle letture, il 17 settembre, nella memoria dello spagnolo Pietro d’Arbués, la maggior parte della prefazione della Sainte Liturgie di Dom Gréa. Il titolo di questa lettura riprende, del resto, una delle frasi più ricche di questa prefazione.
Il tempo sacro
La Sainte Liturgie, libro III, cap. 1, Paris 1909, p. 53:
«Il tempo è la misura delle opere di Dio fuori di se stesso: le abbraccia tutte nell’eternità e le ordina nel tempo, secondo i disegni della sua sapienza e bontà. Questi disegni si compiono con la manifestazione della misericordia nel suo Figlio, il Verbo incarnato, immolato, glorificato, che unisce al suo sacrificio ed eleva nella gloria tutti gli eletti, cioè la Chiesa sua cara sposa.
Quaggiù la Chiesa, scelta e associata a questi misteri, percorre il tempo che la conduce all’eternità, e per il culto che rende a Dio, celebra nel tempo e misura nella successione del tempo quello che rimane immutabile nell’eternità. Guigo il certosino ci mostra in questa successione del tempo un inno che Dio, cantore sapientissimo, canta a se stesso con una melodia che passa attraverso suoni ordinati in modo vario per dargli tutta la sua bellezza (cf. Guigonis Carth. PL CLIII, 607).»
In questo libro Dom Gréa offre fra l’altro spunti di ottima teologia liturgica, che conferiscono al libro stesso una freschezza e attualità sorprendenti.
Il terzo libro della Sainte Liturgie comprende sei capitoli e descrive i tempi consacrati a Dio. Il tempo, con le feste che lo scandiscono, permette un contatto vitale con i misteri della redenzione, che nella liturgia sono riproposti con il carattere di eventi attuali (cf. Ibidem, pp. 57-65).
La riforma del Vaticano II ha cercato, non senza difficoltà e limiti, di recuperare la “sensatezza” del tempo liturgico (cf. R. Guardini, Lo spirito della liturgia, I santi segni, Brescia 1996, p. 72), fedele al principio di eliminare dalla celebrazione liturgica quegli elementi meno corrispondenti all’intima natura della liturgia (cf. SC 21), senza tuttavia negare un legittimo mutamento di quegli aspetti, che «nel corso dei tempi possono o addirittura devono variare» (SC 21).
Questa attenzione alla “sensatezza” del tempo liturgico (cf. SC 88) è l’elemento decisivo per giungere a quella «celebrazione piena, attiva e comunitaria» (SC 21), che normalmente viene sintetizzata come “partecipazione attiva”. La liturgia non può essere compresa senza riferimento al tempo, dato che essa è descrivibile come un succedersi temporale di azioni simbolico-rituali (cf. M. Ferrari, Segno di fedeltà. Il celebrare nel tempo dei suoi tre «ritmi» fondamentali, in Vita monastica 232 (ottobre-dicembre 2005), pp. 34-37).
Tutti sappiamo che c’è un modo di celebrare il mistero di Cristo nell’arco della settimana, che ha nella domenica il suo fulcro, così come tutti conosciamo che il mistero di Cristo si celebra nel corso dell’anno liturgico, il quale si struttura nei vari cicli e tempi liturgici, e ha il suo cuore nel Triduo pasquale.
Esiste un ritmo giornaliero che nella Liturgia delle ore trova il suo modo proprio di espressione. Il primo libro della Sainte Liturgie, in cinque capitoli, è dedicato all’Ufficio divino, «la consumazione e il fine di tutte le cose». Il Gréa rileva che l’Ufficio divino, così come ogni lettura proclamata nella liturgia, è per il popolo e in vista del popolo.
Il secondo libro tratta della S. Messa; è diviso in due parti che comprendono tre capitoli. La Messa è il centro di tutta la liturgia. Essa rivela il mistero della Chiesa, il mistero dell’unità del sacerdozio di Cristo comunicato al vescovo, magnificamente espresso nella concelebrazione, mistero dell’unità della Chiesa espresso attraverso la partecipazione dei ministri e del popolo (cf. La Sainte Liturgie, p. 49). Per Dom Gréa la partecipazione del popolo e dei ministri alla liturgia è necessaria affinché la celebrazione liturgica raggiunga pienezza di significato.
Eucaristia e liturgia
L’eucaristia al centro della vita trinitaria che scende da essa, mediante essa, e sgorga come sorgente di acqua zampillante per la vita che non muore nella storia degli uomini. Nell’eucaristia Cristo si fa realmente presente e si dona alla Chiesa sua sposa (cf. Ef. 5,25 ss.). Donando il suo corpo, egli dona se stesso alla sua sposa e realizza così il “mistero grande” delle origini, iscritto nella creazione dell’uomo e della donna a immagine e somiglianza di Dio uno è trino: «e i due saranno una carne sola» (Gen. 2,24; Ef. 5,31). La comunione con Dio e tra di noi, non è opera nostra, ma è Gesù a realizzarla, mediante il dono di sé nella Pasqua di morte e risurrezione, che si fa presente a ogni tempo e in ogni luogo nell’eucaristia. Per l’eucaristia Cristo dimora in noi e noi in Cristo, come sottolinea il quarto vangelo (cf. Gv. 6,56; cf. P. Coda, Diventare comunicazione. Una lettura teologica, in Vita monastica 240 (luglio-dicembre 2008), p. 29).
Così si esprime Dom Gréa parlando dell’eucaristia:
«Fermiamoci a considerare questo ordine di meraviglie.
Il centro di tutti i sacramenti è il sacrificio di Gesù Cristo perpetuato nella santa eucaristia: l’eucaristia è il sacramento per eccellenza, e lei ne porta per eccellenza il nome nel linguaggio del popolo cristiano; tutto si rapporta a lei» (L’Église et sa divine constitution, p. 92).
La potenza della preghiera
«Il Signore ci dice: “Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, voi lo otterrete» … «“Io non dico che pregherò il Padre per voi, perché vi ama”. Quale consolante dottrina nostro Signore ci ha insegnato! Noi siamo amati da Dio. Sì, e talmente amati che noi siamo il motivo dei suoi disegni. È per noi che ha creato il mondo. È per noi che ha disposto tutti gli avvenimenti. Quale provvidenza non è stata necessaria per condurci attraverso i secoli fino alla piccola goccia d’acqua del battesimo che ha bagnato la nostra fronte per portare fino al nostro cuore il seme della nostra vocazione. Vedete cosa c’è voluto!» (Dom Gréa, 29 aprile 1894, in Bulletin CRIC, n. 148, nov. 1978)
Alcuni giudizi su Dom Gréa, ecc.
1) «L’ecclesiologia di Dom Gréa presenta due aspetti caratteristici: da una parte il superamento di una visione della Chiesa puramente apologetica, esteriore; dall’altra il “centramento” sulla Chiesa particolare» (cf. M. Serentha, p. 40).
2) «Se la Chiesa intera è chiamata a vivere nella gioia della Gerusalemme celeste la povertà, la castità, e l’adesione perfetta e definitiva alla volontà di Dio, la vita religiosa nella sua concezione ideale è “nel tempo presente un inizio e anticipazione per qualcuno di questo stato comune a tutti gli eletti nell’eternità”. (Dom Gréa, L’Église et sa divine constitution, p. 449). E la Chiesa intera ha sempre bisogno, nel suo pellegrinaggio, di avere sotto gli occhi questo anticipo» (H. de Lubac, sj, Un œuvre longuement mûrie, in Bulletin CRIC, n. 94, mai-juin 1966, numéro spécial).
3) «Se crediamo che la vita religiosa sia una proposta esistenziale perenne, non possiamo permettere che la nostra presenza ecclesiale e storica sia confusa con ciò che è caduco, con ciò che è legato a forme culturali passate, le quali potrebbero compromettere l’essenza pasquale e profetica come “segno” di libertà e di comunione evangelica» (B. Calati, Prospettive per l’oggi, in AA.VV., Monaco: uomo di comunione, Parma 1984, pp. 146-147).
Per concludere… la Pasqua per Dom Gréa
Pasqua – Il mistero delle sante donne al sepolcro (Bulletin CRIC, n. 193, mars 1991, pp. 1-2)
Dom Gréa amava questo “mistero” estratto da un antifonario manoscritto dei Canonici Regolari di Besançon, perché egli sapeva, ben prima che la preghiera accompagnata da gesti diventasse alla moda, che tutto il corpo ha il suo ruolo da compiere nella “santa liturgia”.
Aveva voluto che questo “mistero” fosse rappresentato alle prime luci dell’alba di Pasqua, prima del canto del mattutino. Molti di noi lo hanno fatto per anni all’Ecluse, sia come ragazzi, sia come diaconi. Il nostro bollettino del tempo pasquale ce ne propone il testo oggi: sarebbe davvero un peccato se si perdesse.
Al mattino di Pasqua il coro è nella penombra. Seduti sul gradino ai due angoli dell’altare, due diaconi con il camice bianco: gli “angeli” al sepolcro. Tre ragazzi, con il camice bianco – uno portando un turibolo, gli altri due tenendo una palma – sono le donne che vogliono recarsi a ungere con oli profumati il corpo morto di nostro Signore.
I ragazzi vanno vicino al padre superiore che benedice l’incenso e quindi vanno in fondo al coro e per tre volte intonano, crescendo di una nota a ogni ripresa, il loro canto pieno di speranza e di preoccupazione:
«Chi ci rimuoverà la pietra dall’ingresso del sepolcro?»
Sono giunti vicino all’altare, quando i due “angeli” li interpellano:
«Che cercate nel sepolcro, o discepoli di Cristo?»
I ragazzi: «Gesù di Nazareth, colui che è stato crocifisso».
Gli angeli: «Non è qui: è risorto come aveva predetto. Andate, annunciate che è risorto!»
Tornati verso il coro i ragazzi lanciano grida di gioia pasquale: «Alleluia, il Signore è risorto!»
Tutti si danno allora il bacio pasquale, dicendo: «Il Signore è risorto, Alleluia!»
Così gli occhi vedevano, le voci cantavano, il corpo esprimeva sentimenti diversi.
Drammatizzazione eloquente e semplice, che permetteva una comprensione più profonda della “santa liturgia”. Una “religiosità popolare” di valore. È così che Dom Gréa amava vedere i suoi figli impregnarsi in profondità del senso liturgico.
[1] Il titolo originale dell’opera di Dom Gréa era: “Du mystère de l’Église e de sa divine constitution”, cambiato poi dietro suggerimento del card. Caverot, suo direttore spirituale, nel titolo attuale (cf. Bulletin CRIC, n. 170, juin 1985, Aux origines du traité de l’Église).
Il filo d’oro che è proposto come linea interpretativa della Lumen Gentium è «La Chiesa e il suo mistero». Mistero è il disegno di Dio nella storia: mistero nascosto dall’eternità che progressivamente ci è comunicato in Cristo Gesù. Al centro non c’è la Chiesa, ma il disegno di salvezza di Dio a favore dell’uomo e della creazione, realizzato ‘una volta per sempre’ in Cristo Gesù. Essa non è dunque il Regno di Dio, ma costituisce «il germe e l’inizio» di esso (cf. LG cap. 1). Contemplare la Chiesa non più sotto il profilo della societas perfecta, ma sotto la categoria biblica di “mistero” significa progettarla nell’orizzonte della SS. Trinità. È ciò che il trattato L’Église di Dom Gréa ha anticipato ottanta anni prima della LG.
Al Concilio Vaticano II, Mons. Jenny, in un intervento, così si esprime, rivolgendosi ai Padri conciliari: «Noi vogliamo dunque parlare del mistero della Chiesa e dei sacerdoti. Un autore di grande rilievo, il fondatore in Francia dei Canonici Regolari dell’Immacolata Concezione, il Padre Adrien Gréa, ha trattato di questo argomento e, in un certo senso, è stato profeta del nostro Concilio in un libro intitolato “De l’Église et de sa divine constitution”» … «Ciò che il Cristo ha fatto lui stesso a suo tempo, oggi continua a compierlo per mezzo del vescovo nella sua Chiesa particolare: proclama il vangelo, celebra la morte del Signore e la sua risurrezione, edifica come Chiesa il popolo di Dio».
L’immagine di “popolo di Dio” è qualificante per descrivere il mistero della Chiesa. Da un lato, infatti, questa immagine dice il primato di Dio – Abbà – che convoca attorno a Gesù nel soffio del suo Spirito gli uomini e le donne (cf. P. Coda, La Chiesa e il suo mistero. La lezione di Lumen Gentium, in Vita monastica 247 (gennaio-marzo 2011), p. 31), e dall’altro essa esprime l’uguale dignità di essi tutti, come figli nel Figlio, di cui unico è il Padre e unico il Maestro e Signore.
La santa liturgia secondo Dom Gréa– III parte, 6 ottobre 2015
(a cura di P. Lorenzo Rossi, cric)
1. Introduzione
Ci introduciamo nel tema, prendendo le mosse da alcuni sintetici giudizi formulati su D. Gréa:
1) P. Henri A. Hardouin Duparc: «Dom Gréa dichiara fin dall’inizio che il suo intento non è quello di imitare i teologi che nei loro trattati hanno descritto l’autorità della Chiesa, la sua amministrazione, la sua forma di società perfetta. Con molto talento, vuole invece iniziare a descrivere, per quanto è concesso alla nostra intelligenza umana, il mistero della costituzione della Chiesa, in quanto è un dono che procede da Dio stesso, per mezzo del suo Cristo; e così comprendere come la Chiesa viene a essere il completamento e lo sviluppo (S. Paolo dice la plenitudo) della missione di Cristo. Questo completamento della missione del Cristo non è distinto dalla persona stessa del Cristo: infatti il compimento della sua missione è la sua unione con l’elemento umano. È che egli venga ad abitare in questa Chiesa, o meglio nelle anime dei discepoli. Dal momento che bisogna ben ammettere che è proprio là il fine della sua missione di Figlio di Dio venuto sulla terra per operare il riscatto e la sovrabbondanza, la copiosa redemptio – grande è presso di lui la redenzione, Ps 129,7 – che dal peccato ci rende figli di Dio. “A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, …” (Gv1,12; cf. D. Gréa, L’Église, p. 81)».
2) H. de Lubac: «Dom Gréa ci invita a una “contemplazione” della Chiesa, ci parla costantemente del suo “mistero”, del “mistero della sua vita”, ce la mostra nel suo rapporto con la Santa Trinità, Chiesa che proviene dal Padre e vi ritorna diretta dal Cristo e animata dallo Spirito Santo. Ma questa visione mistica è quella di un organismo molto ben strutturato che si sviluppa visibilmente nella storia».
3) L. Bouyer, Préface a L’Église, p. 7: «La “Chiesa” di Dom Gréa non sviluppa questi aspetti in opposizione agli aspetti istituzionali e più precisamente gerarchici. Al contrario è l’idea di gerarchia e di ordine sacro che domina la sua sintesi. Ne dà una nozione così profonda e vivente da far capire subito che la gerarchia ben compresa, lungi dal comprimere gli elementi viventi della Chiesa, è ciò che loro dona, insieme con la loro coerenza esteriore, la loro continuità intima e soprannaturale».
2. Chiesa dalla Trinità e gerarchia
Pensare la Chiesa e pensarsi Chiesa nella prospettiva di Dom Gréa e in seguito del Vaticano II significa non più partire da una sorta di fondazione avvenuta una volta per tutte, non solo considerare una societas che viva fedelmente un compito che le è stato assegnato.
La Chiesa è invece il primo momento dell’esperienza cristiana, il momento sorgivo della nostra stessa fede. Non avremmo niente – liturgia, Parola, testimonianza – se non avessimo la Chiesa. La comunità di Gesù precede tutto, precede la stessa gerarchia e gli stessi carismi. La Chiesa è nostra madre perché ci dà il Cristo. Essa genera in noi il Cristo e ci genera a sua volta alla vita di Cristo. Ci dice, come Paolo ai Corinti: «Vi ho generato per mezzo del Vangelo in Cristo Gesù» (1 Cor 4,15).[1]
La comunità dei credenti, a partire dalla prima comunità cristiana nel fervore della sua fede e del suo amore, ha costituito l’ambiente apportatore dello Spirito che suscitò gli evangelisti, capace di conservare inalterato il dogma nel suo rigore e nella sua semplicità. Ha saputo la Chiesa conservare la fede e trasmettere il culto del suo Signore: «Senza la Chiesa il Cristo svanisce, o si frantuma, o si annulla» (P. Teilhard de Chardin).
La comunità cristiana è grembo germinale della fede dei credenti, essa a sua volta è l’immagine e il frutto del grembo trinitario, da cui la Chiesa ha origine. È quanto Lumen gentium descrive nei primi numeri, nei quali viene evocato il mistero della Trinità che agisce nel cuore della storia (cf. A. Andreini, Il risveglio della Chiesa, in Feeria 43, marzo 2013).
L’arcano disegno di sapienza e di bontà del Padre, a noi rivelato attraverso la missione del Figlio, che ci ha mostrato la grandezza dell’amore di Dio e ha fondato la Chiesa, la quale è santificata e continuamente rinnovata per mezzo dell’azione dello Spirito Santo. È così che al n. 4 Lumen gentium potrà concludere: «La Chiesa universale si presenta come un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
Dom Gréa nell’Église così si esprime: «In Dio c’è gerarchia perché c’è unità e numero. … È la società eterna del Padre e del Figlio che riconduce e dona il Figlio al Padre e in questa società la processione sostanziale del Santo Spirito che la porta a compimento. Ecco che questa gerarchia divina e ineffabile si è manifestata all’esterno nel mistero della Chiesa. Il Figlio nell’incarnazione, inviato dal Padre, è venuto a cercare l’umanità per unirla e associarla a Lui. È così che la divina società è stata estesa fino all’uomo e questa estensione misteriosa è la Chiesa. La Chiesa è l’umanità abbracciata, assunta dal Figlio nella comunione (società) del Padre e del Figlio. Per mezzo del Figlio vive in questa comunione e ne è tutta trasformata, penetrata e circondata: “la nostra comunione è col Padre e con il suo Figlio Gesù Cristo” (1 Gv 1,3). La Chiesa non porta solamente in sé le tracce dell’ordine come ogni opera di Dio, ma la realtà stessa della gerarchia divina e precisamente la paternità divina e la filiazione divina, il nome del Padre e il nome del Figlio, vengono a lei e riposano in lei» (pp. 33-34).
Fondamentale per Dom Gréa è questo concetto teologico di gerarchia, che ritorna anche parlando della “Terza uscita di Dio”, ossia del mistero dell’incarnazione: «Vi è qui in effetti la manifestazione suprema di Dio e per comprenderla bene consideriamo che Dio nelle sue opere manifesta i suoi attributi, e in questa manifestazione vi è come un progresso e una gerarchia, un ordine stabilito e seguito» (L’Église, p. 21).
3. Triplice potere conferito alla gerarchia
Dom Gréa approfondisce la propria riflessione sulla gerarchia e sul potere a essa conferito nel Cap. IX de L’Église (ed. Casterman, pp. 88-107), che qui presentiamo, in parte traducendo le parole dell’autore, in parte riassumendo.
Prestiamo attenzione al significato che assume il termine gerarchia per non fermarci all’esteriorità di un potere ridotto agli aspetti giuridici. È importante invece «considerare qual è l’oggetto proprio ed essenziale del potere che costituisce le gerarchie o, se si vuole, quale è l’azione vitale diffusa in esse e che le anima. Noi vedremo nella sua essenza il potere che è nella Chiesa, un potere di insegnare, di santificare e un potere di governare» (L’Église, p. 88).
a. Potere di Cristo
«La gerarchia è depositaria di un potere ricevuto da Dio, che si articola in essa nei diversi membri. Qui c’è la sua essenza e la prima nozione da tenere ben presente. Questo potere è il principio attivo che mette in gioco tutti i suoi organi, si estende così dal centro in tutte le parti, come attraverso tanti canali, per portarvi movimento e vita.
Quale è dunque quanto al suo soggetto la natura di questo potere che Dio ha posto nella Chiesa, o, se si vuole, quali sono le attività incessanti che costituiscono questo potere e la vita di questo grande corpo in ogni suo grado?
Eleviamo i nostri pensieri fino alla sorgente stessa, ed entriamo ancora una volta nella contemplazione del mistero di Cristo che esce dal seno del Padre e porta con sé tutta la vita della sua Chiesa. “Dio è il capo di Cristo” (1 Cor 11,3), e questo vuol dire che Cristo “è da Dio” (Gv 8,42) e riceve da Dio (Gv 16,15). …
Verbo eterno del Padre suo, Egli è la sua parola e la sua verità. Essere da lui, significa ricevere da lui; essere da lui la sua parola, vuol dire ricevere da lui la sua parola. In questa parola, egli riceve ogni parola che viene da Dio, perché tutte le verità particolari sono contenute nella verità unica che è lui stesso. Ed è per questo che egli dice a suo Padre, parlando della sua Chiesa: “Le parole che tu mi hai donato, io le ho a mia volta donate loro” (Gv 17,8), come se si trattasse di più parole; e ancora “loro hanno custodito la tua parola” (Gv 17,6), parlando come di una sola parola. …
Egli è questa medesima sostanza, “Dio da Dio” (cf. Simbolo di Nicea), tutto l’essere, tutta la vita, tutta la santità, tutta la divinità. Il Cristo riceve da Dio e dona alla sua Chiesa. Egli dona in lui stesso l’essere, la vita, la partecipazione di Dio. “Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso” (Gv 5,26); e il Cristo dice a sua volta: “Sono venuto perché abbiano la vita … Io do loro la vita eterna” (Gv 10, 10. 28). Egli concede loro “di diventare figli di Dio” (Gv 1,12), d’essere fatti “partecipi della natura divina” (2 Pt 1,4).
Infine, c’è un terzo aspetto di questi rapporti di Dio e del suo Cristo. Dio è il capo di Cristo, e questo vuol dire che Dio possiede il suo Cristo, perché il suo essere procede da lui e il Cristo appartiene a Dio (1 Cor 3,23).
Gli appartiene per il diritto senza ineguaglianza che dona a suo Padre la sua nascita eterna, e gli appartiene anche per la sua nascita nel tempo e nella sua umanità, che è l’opera di Dio. … e noi vi vediamo anche il potere sovrano che ha sulla nuova creatura, che è opera sua, vale a dire il suo diritto a l’obbedienza umile e assoluta dell’uomo nuovo, che riceve tutto di lui in Gesù Cristo, e che è a lui interamente sottomesso (1 Cor 15,27-28)» (cf. L’Église, pp. 88-90).
b. Comunicazione del magistero fatta da Cristo alla sua Chiesa (cf. L’Église, pp. 90-91)
Cristo comunica alla Chiesa la parola: “quello che ho udito da lui, questo annuncio al mondo” (Gv 8,26). E le comunica anche di insegnare a sua volta: “Andate e ammaestrate tutte le genti” (Mt 28,19). Questo insegnamento ha due caratteristiche: in primo luogo è infallibile; in secondo luogo è dato per mezzo della bocca dei vescovi, in mezzo ai quali il Cristo risiede nella persona del suo vicario.
c. Comunicazione del ministero fatta da Cristo alla sua Chiesa (cf. L’Église, pp. 91-97)
Cristo comunica alla Chiesa il potere di santificazione. Questo potere, distinto dal magistero, è chiamato ministerium (molti teologi lo chiamano sacerdotium) e consiste nell’applicazione del testo di Gv 1,12: “a quanti lo hanno accolto, (il Verbo) ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Per renderli figli di Dio, li ha resi partecipi della natura divina (2 Pt 1,4).
Ciò avviene per il mistero del sacrificio, dove lui stesso è vittima e sacramento: “siamo stati infatti sepolti con lui nel battesimo” (Rm 6,4-5).
Tutti i sacramenti producono sempre questo fine:
il battesimo facendoci morire e rinascere;
l’eucaristia nutrendo questa vita;
la penitenza è rimedio alla malattia;
l’unzione dei malati è la consumazione della penitenza, come la cresima lo è del battesimo;
il matrimonio gli assicura nuovi figli.
Il potere santificatore della Chiesa straripa dai sacramenti e si estende ai sacramentali.
L’episcopato si associa l’ordine inferiore dei sacerdoti.
d. Comunicazione dell’imperium o autorità fatta da Cristo alla sua Chiesa (cf. L’Église, pp. 98-104)
La nuova umanità è chiamata alla vita per mezzo del magistero. Essa è partorita alla vita attraverso il ministero. A chi appartiene? A colui che le dà l’essere, cioè a Gesù Cristo, che sarà il suo re. In tal senso, l’auctor deve avere l’auctoritas. È lui che possiede la Chiesa, che la regge, la governa nella persona del suo vicario, associandosi il collegio dei vescovi, suoi rappresentanti.
L’imperium contiene il potere legislativo, giudiziario, esecutivo, e discende fino al vescovo (pertanto, i principi sia eterodossi sia cattolici compiono un’usurpazione quando pretendono di ingerirsi nel governo ecclesiastico). La città terrestre e la Chiesa sono due società indipendenti, sempre distinte, necessariamente unite. La città terrestre: deve fornire alla Chiesa i suoi membri, deve aiutare e assistere la Chiesa, deve alla Chiesa una certa obbedienza in tutto ciò che questa assistenza esige.
e. Unità del potere gerarchico (cf. L’Église, pp. 105-107)
Questi tre poteri non sono indipendenti gli uni dagli altri, e nemmeno interamente distinti. Come la missione di Cristo è una, i poteri della Chiesa non si separano affatto. Tutti i suoi vescovi sono infine dottori, santificatori, principi spirituali. Sono poteri coordinati che si completano per non formarne che uno solo.
Da ciò deriva l’obbligo missionario del collegio episcopale; inoltre, il vescovo di una Chiesa particolare prima di essere pastore dei fedeli, è innanzitutto dottore degli infedeli.
4. Il mistero della Chiesa vissuto nella comunità: la liturgia
1) Nell’intento di cogliere l’importanza fondamentale rivestita dalla comunità religiosa dei canonici regolari in ordine allo sviluppo e alla stesura del trattato L’Église di Dom Gréa, ci serviamo di questo recente giudizio sulle categorie di mistero e incarnazione:
«L’anima della fede è la passione per Gesù, la sua umanità e divinità che incontra il nostro travaglio profondo di dubbio e di accensione del cuore, di richiesta di senso e di inconsce paure, di apertura e chiusura, il tutto sull’ordito di un alto desiderio di avere nel mondo un compito di amore verso tutti. Soltanto da Lui è per noi possibile accendere quel “fuoco”…
Noi cristiani, oggi più che mai, dobbiamo … avere il coraggio di confidare nel mistero di Dio. Di fatto, il messaggio più centrale e originale di Gesù è consistito proprio nell’invitare l’essere umano a confidare nel Mistero insondabile che si trova all’origine di tutto. …
“Non abbiate paura … Confidate in Dio. Chiamatelo Abbà, Padre amato. … Abbiate fede in Dio” (cf. Mt 10, 26-31). La fiducia nel mistero di Dio …
La sua vita ruotava intorno a un progetto che lo entusiasmava e che lo faceva vivere intensamente. Lo chiamava “regno di Dio” … La sua gioia nel parlare del Padre e nel fare ogni sforzo per comunicarlo. … Felice in quel supremo momento di angoscia e solitudine, nell’abbandonarsi all’amore del Padre. Così Egli ha aperto un canale indistruttibile tra Dio e la nostra condizione umana» (C. Mezzasalma, Il combattimento della fede, in Feeria 44, settembre 2013, pp. 5-7).
2) La sua terra, i luoghi – Baudin, St. Claude, St. Antoine –, la sua comunità, coloro con i quali ha fatto la sua prima professione, i confratelli in seguito sempre teneramente amati fino alla morte, come «l’opera confidata alla mia vocazione»; i grandi protettori dell’opera – il P. Desurmont, mons. de Ségur, luci e guide degli ammirevoli progressi dell’opera durante 40 anni – erano la roccia su cui Dom Gréa poggiava la sua esistenza, tenendo sulle ginocchia la Bibbia. La quotidianità del pensare, del comunicare, del vivere, sgorgava come una creazione, un impasto di materia e parola che rivelava il mistero, senza violarlo e senza esaurirlo: è così che, come un inno di lode, è nata la sua grande opera, L’Église:
«La santa Chiesa cattolica è l’inizio e la ragione di tutte le cose (cf. S. Epifanio). Il suo nome santo riempie la storia fin dall’origine del mondo. … Al di là dei secoli l’eternità l’attende per darle compimento nel suo riposo. La Chiesa porta con sé nell’eternità tutte le speranze del genere umano che essa racchiude» (L’Église, Cap. I, p. 17).
«C’è del mistero in questo, e i ragionamenti tratti dalle analogie umane non possono arrivarci; i governi umani e la polizia degli stati non offrono nulla di simile, ma bisogna elevarsi più in alto e cercare nell’augusta Trinità la ragione e il tipo di tutta la vita della Chiesa» (L’Église, p. 133).
Come fa giustamente notare H. de Lubac: «Dom Gréa si mostra particolarmente sensibile al “mistero della gerarchia”» (Paradosso e mistero della Chiesa, Milano 1979, p. 20, nota 22); lo stesso teologo, citando l’incipit deL’Église, “La santa Chiesa cattolica è l’inizio e la ragione di tutte le cose”, osserva: «È ciò che aveva detto Herma, nel II secolo, nella seconda visione del suo Pastore» (Paradosso e mistero della Chiesa, p. 57), ponendo così in luce le solide radici patristiche dell’ecclesiologia di Dom Gréa.
Il punto focale, che teneva insieme le due fonti della Bibbia e della comunità, era eminentemente la liturgia, quella orante salmodica di tutti i giorni, e quella eucaristica quotidiana e festiva. Essa costituiva un ponte reale e sempre aperto tra ciò che è memoriale, ispirazione, mistero, parola rivelante, e il presente, la storia, l’adempimento sempre in evoluzione. L’attesa e l’annuncio del nuovo sempre veniente; un ponte fatto di parole-gesti, silenzi, incontri, comunione, attenzione, tenerezza perfino: nella liturgia Dom Gréa era davvero il “pontefice” che aveva descritto ne L’Église la sua poesia-lode.
In tal senso, risultano illuminanti queste riflessioni prese dalla Vie de Dom Gréa di Paul Benoît, relativamente alle circostanze storiche di pubblicazione de L’Église:
«Ma amava tanto la Chiesa perché lo Spirito Santo l’aveva a lui rivelata in tutto il suo splendore. Come Ezechiele, aveva ricevuto “la cordicella” per misurare “la lunghezza, la larghezza e l’altezza della Gerusalemme celeste”. Per quarant’anni ne ha parlato in ogni occasione, in pubblico e in privato. All’innumerevole moltitudine dei suoi visitatori, ai religiosi riuniti e formati da lui, alle assemblee dei fedeli venute per ascoltarlo. E tutti, alla sua parola semplice ma infervorata, hanno visto, o almeno intravisto, nella divina sposa di Gesù Cristo delle meraviglie fino allora ignorate.
Tuttavia, tutti i suoi uditori lo incitavano a scrivere ciò che predicava tutti i giorni, a esporre questo mistero della Chiesa che riempiva la sua vita intellettuale e li entusiasmava. Scrisse degli appunti, e poi altri ancora, lasciò a lungo “dormire” i suoi appunti nelle cartelle, e ancora li riprese di nuovo, li completò. Intraprese la redazione definitiva, ma ancora abbandonò 20 volte, 100 volte questa redazione …
Il primo capitolo è terminato. “Pagine sublimi – ho scritto allora –, ove è esposta con tanta magnificenza l’opera di Dio, soprattutto l’opera della sua misericordia”» (Aux origines de la publication du livre “De l’Église et de sa divine constitution”, in Bulletin CRIC, n. 169, mars 1985, p. 1).
Dom Gréa stava grande al centro di questo evento preparato, di questo atteso incrocio di umano e divino, dono di grazia dall’alto e ascesa dal basso di ricerca, invocazione, desiderio. Le parole erano invito, descrizioni profetiche di grande qualità. Gli uditori erano “embrasés” (infiammati), e soprattutto la sua comunità, nel tempo così differenziata, ogni giorno formata e guidata nell’amore della Chiesa, amava le sue istituzioni antiche, e, fra queste, una che ha voluto rinnovare: l’istituto canonico.
3) Ognuno attratto dentro uno spazio-tempo cosmico, riportato dentro la storia “sacra” che forse prima gli appariva non pertinente o irrilevante, atrofizzata nella ripetitività di rituali e ritornelli, per ritrovarsi responsabile, parte indispensabile di un tutto che non annienta, non fagocita, non omologa, ma che salva e ricrea. Parole vibranti, esperienze di preghiera, di lode, digiuni e penitenza.
Secondo questa concezione pregnante di liturgia, «la forma rituale non è più vuoto formalismo, ma appartiene all’essenza del sacramento perché è in essa che è all’opera l’azione misericordiosa di Dio e in essa avviene lo scambio di grazia tra l’uomo che vive nel tempo e Dio che supera il tempo e lo conduce alla salvezza» (L. Della Pietra, Rituum forma, Padova 2012, p. 326, in un capitolo in cui si parla anche della “lezione pionieristica dei primi padri del Movimento liturgico”).
Analogamente, il concetto di liturgia in Dom Gréa non è limitato al solo aspetto cultuale, ma attinge alla visione simbolica tipica della teologia patristica e dell’ecclesiologia del primo millennio. Ecco come il nostro autore prospetta il compito della Chiesa e della liturgia:
«Così l’incarnazione e la redenzione si diffondono nei canali dei sacramenti, nel battesimo e nella penitenza: e questo Dio incarnato, Gesù Cristo, si propaga e vive in tutti coloro che non rifiutano il dono celeste, si estende e si moltiplica senza dividersi, sempre uno e sempre unendo in lui le molteplicità. Ora, è questa divina propagazione di Cristo che lo sviluppa e gli dona questo compimento e questa “pienezza” (Ef 1,23) che è il mistero stesso della Chiesa» (L’Église, p. 26).[2]
4) Per considerare l’importanza decisiva della liturgia nella comunità di Dom Gréa e in quanti lo seguirono, valga, a nome di tanti preti eminenti di varie diocesi di Francia, l’esempio di Henri Ardouin Duparc (cf. Bulletin CRIC, n. 141, Mai-Août 1976). Egli nasce il 22 aprile 1879 a «Chez-Mouteau», a Charroux. Compie i suoi studi secondari a Poitiers, presso il collegio dei Padri gesuiti. Aveva due zii gesuiti, i Padri Anatole e Léonce de Grandmaison, fratelli di sua madre. … Sognava un ministero parrocchiale in un ambiente povero, di operai, ma unito alla vita religiosa. … Ebbe l’occasione di sentir parlare di Dom Gréa, teologo della Chiesa, promotore della liturgia attiva, che univa una austera vita religiosa ad alcune forme di ministero parrocchiale dipendente dai vescovi.
Decide di seguirlo, e come lui fecero quanti restarono incantati ed entusiasti di Dom Gréa e della sua forma di vita religiosa e pastorale insieme, “scambio di grazia tra l’uomo che vive nel tempo e Dio che supera il tempo e lo conduce alla salvezza”: ecco quanto – riprendendo l’espressione di Della Pietra succitata – continuamente traspare nel nostro fondatore.
5) Lasciamo adesso la parola a Dom Gréa, riprendendo stralci di una sua conferenza del 1894 pubblicata nella Voix du Père:
«Ciò che il Padre dona generando il Figlio suo lo estende fino a noi, e noi entriamo in quest’ordine con la nostra incorporazione a Gesù Cristo. Questo mistero non si completerà se non in cielo, perché qui in terra è “velato”, nascosto, combattuto da ciò che rimane dell’antico Adamo. …
Noi siamo fratelli di Gesù Cristo per un legame altrimenti sostanziale e profondo di quello che unisce i figli di uno stesso padre. Ciò che unisce i figli nell’ordine naturale è l’uguaglianza dell’essere, la stessa educazione, la partecipazione agli stessi diritti e alla comune eredità. Nel nuovo ordine non è solo la somiglianza con Gesù Cristo, ma è Gesù Cristo che è ciascuno di noi. È un vincolo ben altrimenti forte, perché Gesù Cristo stesso è in noi … e il termine che conviene meglio per designarlo è membra di Gesù Cristo. … È la sostanza di questo Figlio che è in noi.
Quali conseguenze per noi?
Non siamo una società di persone riunite per vivere insieme; siamo la famiglia di Dio perché Dio ci comunica la sua propria sostanza. La comunica per mezzo del superiore che è il capo di questa famiglia, è in lui che Dio è Padre e attraverso di lui che diventate membra di Gesù Cristo. Sono io che vi comunico la sostanza di Figli di Dio; ve la dono attraverso la parola, attraverso i sacramenti, nel vivere quotidiano. Il vostro padre qui in terra lo è una volta sola. … Ma io sono vostro padre tutti i giorni perché ogni giorno vi comunico la natura divina. …
L’amore che dovete avere fra di voi deve essere lo stesso dell’amore che avete verso Gesù Cristo. … Voi dovete amarvi come i santi in cielo. … Voi dovete avere una carità soprannaturale di cui lo Spirito Santo è il legame. Voi capite allora come la carità non si limita al solo affetto naturale, buono in se stesso, ma che non basta fra di noi. La carità è un’altra cosa che l’affetto naturale. È l’amore che Gesù Cristo ha per il Padre. Di conseguenza i vincoli che ci uniscono devono essere puri: è la carità rispettosa, gioiosa, illuminante, del cielo» (Dom Gréa, Conferenza sul grande mistero della vita religiosa, Saint Antoine, 6 novembre 1894, in La Voix du Père, pp. 81-83).
5. Per concludere
A ogni svolta della storia lo Spirito Santo offre una guida. A ogni civiltà che sopravviene, dona un maestro incaricato di dispensare la sua luce. La Chiesa ha avuto così S. Agostino, S. Benedetto, S. Francesco d’Assisi, S. Domenico, S. Teresa d’Avila, S. Ignazio, e tutti gli altri. Nella storia della Chiesa Dom Gréa ha scritto una bella pagina, che è certamente la comunità da lui fondata, ma è anche un’opera scritta, L’Église, e le sue conferenze e omelie, dove il genio proprio dell’autore vi si svela in tutto il suo carattere.
Costantemente avvolto nella luce che discende dall’alto, ma nel medesimo tempo ha difficoltà nel trovare le parole che possano descrivere la grandezza del Regno dei cieli. Quando guardiamo a lui non lasciamoci impaurire …
Dom Gréa ha creduto che la vita religiosa del clero pastorale diocesano sia una proposta esistenziale possibile. La nostra presenza ecclesiale e storica come comunità religiosa e sacerdotale non va confusa con la nostalgia delle forme esterne; al contrario, questa presenza ecclesiale in mezzo ai sacerdoti e vescovi che frequentiamo, sappia continuamente ispirarsi al messaggio di Dom Gréa come la Chiesa ce lo ha affidato.
Dedichiamoci allora allo studio, alla preghiera dei testi che fanno parte del nostro patrimonio spirituale e storico. Non commettiamo l’errore di pensare che il Signore non abbia più un compito da affidarci. Al contrario, pensiamo che mai come oggi sia necessario, insostituibile, il messaggio pasquale e profetico del fondatore, quale segno di libertà e di comunione evangelica.
Spunti di riflessioni e domande
1) Per Dom Gréa, la Chiesa è Cristo stesso, in quanto è un dono che procede da Dio, è la plenitudo della missione di Cristo. La Lumen gentium ci ricorda che: «La Chiesa universale si presenta come un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Dal punto di vista dell’ecclesiologia trinitaria ed eucaristica, ci può aiutare anche questa riflessione di Piero Coda: «La comunione con Dio e tra noi non siamo dunque noi a farla: è Gesù che la fa, mediante il dono di sé nella pasqua di morte e risurrezione che si fa presente a ogni tempo e in ogni luogo nell’Eucaristia. Essa è Cristo che, donandosi a noi, ci fa uno con sé e tra noi. Per l’Eucaristia Cristo dimora in noi e noi in Cristo, come sottolinea il Quarto vangelo (cfr. Gv 6,56). E poiché Cristo dimora nel Padre, e il Padre in Lui, anche noi, per Cristo, dimoriamo nel Padre e il Padre in noi. Si realizza così, per l’Eucaristia, la preghiera di Gesù al Padre: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi uno (…). Io in loro e te in me, perché siano consumati nell’essere uno” (Gv 17,21. 23). …
È perché noi partecipiamo, nel pane eucaristico, dell’unico Corpo di Cristo, che noi – sottolinea l’apostolo – diventiamo un solo Corpo in Lui, anzi il suo stesso Corpo. Non sfugga il realismo di Paolo: “Come il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. (1 Cor 12,12). Come il Corpo di Cristo, che è comunicato nell’Eucaristia, è Cristo stesso, così chi accoglie il Corpo di Cristo diventa Cristo. Paolo, dunque, non considera il corpo come la somma delle membra che lo compongono, ma come il principio d’unità che tiene armonicamente unite le membra tra loro e al tempo stesso fonda la loro diversità in vista del bene comune» (P. Coda, Diventare comunicazione, Una lettura teologica, in Vita monastica 240 (luglio-dicembre 2008), pp. 29. 31).
Sulla stessa linea teologica, si tenga presente il passo de L’Église, pp. 33-34 (citato a p. 2 della nostra relazione) e la conferenza del 9 novembre 1894, dove Dom Gréa si chiede: «Quali conseguenze per noi? Non siamo una società di persone riunite per vivere insieme; siamo la famiglia di Dio perché Dio ci comunica la sua propria sostanza». Come potremmo rispondere oggi a questo interrogativo suscitato dal nostro fondatore? Come ci sentiamo Chiesa? La nostra vita religiosa e pastorale è informata dall’ecclesiologia trinitaria?
2) «Nei suoi scritti e nelle sue conferenze Dom Gréa insiste molto più sulla necessità di non separare l’attività pastorale dalla vita interiore, che non sull’attività pastorale in se stessa. Una delle parole che egli cita e commenta più spesso è quella del suo amico mons. Mermillod sulla “febbre delle opere”, “l’eresia delle opere”, “l’eresia dei nostri tempi”. … Dom Gréa non voleva che: “con l’apparenza di svolgere un ministero, vale a dire di soddisfare ed esibire se stessi”, i religiosi trascurino il servizio divino “come se, essendo il ministero del sacerdote duplice e riguardando il servizio di Dio e il servizio delle anime per ricondurle al servizio di Dio, il servizio di Dio non fosse il primo e il principale”» (F. Vernet, Dom Gréa, p. 210). Queste parole di Dom Gréa di più di 100 anni fa, sembrano echeggiate da un recente intervento di Papa Francesco alle Pontificie opere missionaria (5 giugno 2015): «Davanti ad un compito così bello e importante che ci sta davanti, la fede e l’amore di Cristo hanno la capacità di spingerci ovunque per annunciare il Vangelo dell’amore, della fraternità e della giustizia. E questo si fa con la preghiera, con il coraggio evangelico e con la testimonianza delle beatitudini. Per favore, state attenti a non cadere nella tentazione di diventare una ONG, un ufficio di distribuzione di sussidi ordinari e straordinari. I soldi sono di aiuto - lo sappiamo! - ma possono diventare anche la rovina della Missione. Il funzionalismo, quando si mette al centro oppure occupa uno spazio grande, quasi come se fosse la cosa più importante, vi porterà alla rovina; perché il primo modo di morire è quello di dare per scontate le “sorgenti”, cioè Chi muove la Missione. Per favore, con tanti piani e programmi non togliete fuori Gesù Cristo dall’Opera Missionaria, che è opera sua. Una Chiesa che si riduca all’efficientismo degli apparati di partito è già morta, anche se le strutture e i programmi a favore dei chierici e dei laici “auto-occupati” dovessero durare ancora per secoli».
Quale visione domina la nostra pastorale? Il compimento delle opere di Dio oppure l’opus Dei? (dove Dei è genitivo soggettivo, nel senso che Dio è il soggetto operante).
3) Dom Gréa ci dice che «l’incarnazione e la redenzione si diffondono nei canali dei sacramenti» (L’Église, p. 26). A tal proposito, si tenga presente il bell’articolo di Enzo Biemmi, Iniziazione cristiana: la spia è accesa, in Settimana 34, 4 ottobre 2015, pp. 12-13. In questo testo (allegato come file), l’autore riflette su luci e ombre del rinnovamento dell’IC avviato negli ultimi 15 anni nella diocesi di Brescia, concludendo che non si tratta di cambiare strategicamente un modello, bensì di dar forma a un nuovo volto di Chiesa: «È così che va inteso lo sforzo di rinnovamento dell’IC: come una strada concreta che contribuisce a cambiare il volto della Chiesa, di tutti quindi, non solo dei genitori e dei ragazzi: dei parroci, dei catechisti, dei consigli pastorali, del vescovo e dei suoi collaboratori, delle strutture diocesane centrali ed intermedie».
Quali sono le nostre esperienze in proposito? I sacramenti nutrono ancora la vita divina in noi e nei fedeli noi affidati? Quali tentativi abbiamo in atto per impostare una seria pastorale liturgica?
4) Non si può staccare Dom Gréa e la sua visione liturgica ed ecclesiologica dalla comunità dei canonici regolari, da lui fondata. La nostra vita e preghiera comunitaria ci aiuta a respirare il senso autentico della liturgia e del mistero di Dio? Vista anche l’esigua configurazione numerica delle nostre comunità locali, quali limiti sperimentiamo? Quali miglioramenti ci suggeriamo di apportare? Come rendiamo partecipi i fedeli della bellezza della liturgia della Chiesa?
5) Dice Dom Gréa, parlando ai suoi confratelli: «io sono vostro padre tutti i giorni, perché ogni giorno vi comunico la natura divina» (conferenza del 6 novembre 1894). Viviamo anche noi oggi il carisma e la fatica della direzione spirituale nei confronti dei fedeli? Vi ci dedichiamo con impegno, anche se essa sottrae tempo alle altre attività pastorali? Riconosciamo in alcuni confratelli il carisma della direzione spirituale e di essere “padri” per la comunità CRIC di oggi?
[1] «Allo stesso modo che una madre spiega al suo bambino il mondo, gli mostra come lo deve vedere, ecc., così la Chiesa appoggiandosi in definitiva sull’esperienza della Madre del Signore, secondo la carne, che era colei che credeva per eccellenza, insegna ai suoi figli la Parola di Dio, trasmette loro in virtù della sua esperienza di madre e di sposa, non solo il senso ma anche il gusto e il sapore, il carattere concreto e incarnato di questa parola» (H. U. Von Balthasar, La gloire et la croix, t. I).
[2] Riferendoci all’insegnamento di Tommaso Federici, auspichiamo il recupero odierno della teologia simbolica, che secoli di razionalismo senza freni ha relegato nel campo del mito e del pensiero primitivo, mentre è la forma stessa della rivelazione biblica, della santa liturgia, del pensiero dei Padre e dei grandi spirituali. Per non parlare della poesia e dell’arte: come comprendere la parola di Cristo senza la teologia simbolica? E i misteri con i quali la Chiesa celebra il suo Signore?
Talvolta l’uomo è solo: ecco la preghiera individuale di cui è detto: “ Entra nel segreto della tua stanza, chiudi la porta, parla a tuo Padre, e il Padre tuo che vede nel segreto, intenderà la tua voce.”; Talvolta si ha la preghiera in compagnia: “quando due o tre sono riuniti nel nome, io sono in mezzo ad essi”. Se la preghiera di una sola anima è potente, se la preghiera di due o tre riuniti insieme ha sì grande forza, che sarà della preghiera liturgica di tutta la Chiesa, cioè della voce della Sposa che parla allo Sposo?”
( Dom Grea)
“ L’ufficio canonico, nella sua cadenza in ore liturgiche, è il nutrimento preparato dallo Spirito Santo per tutto il genere umano” scriveva Dom Grea al primo gruppo dei suoi figli che si apprestavano a partire per il Perù. “ A voi spetta il compito di fari risuonare la santa salmodia in quei luoghi finora condannato al silenzio dello Sposo e della Sposa”
Dom Grea desiderò che tutto il popolo partecipasse pienamente alla liturgia.
“L’ufficio divino come ogni Parola di Dio proclamata nella liturgia, è per il popolo e in vista del popolo. Esso non è fatto per essere letto nel segreto di una stanza, “ ma per essere pubblicamente celebrato in chiesa, alla presenza dei fedeli, tenuto conto della loro devozione o della libertà che le occupazioni della vita loro concedono”
Cultura del simbolo
Il linguaggio che proviene dalla liturgia è un liguaggio simbolico. La liturgia parla con i simboli nei gesti,nei movimenti,nei riti,nell’arte che la compone,dall’architettura alla scultura,dalla pittura alla musica.
L’espressione razionale dà un più ampio spazio all’espressione simbolica,maggiormente adatta ad introdurci nel mistero di Dio. Il simbolo ci fa intuire la realtà di Dio che va oltre la nostra capacità comprensiva(trascendente),ci apre un orizzonte sconfinato; il simbolo è una finestra aperta sull’infinito.
Cultura della persona
C’è da superare una mentalità che ci fa credere che il rapporto con Dio va vissuto nell’intimità dell’animo senza alcuna connessione con la dimensione fisica esteriore dell’uomo. Quest’atteggiamento di “spiritualismo disincarnato” deriva da una visione che valuta negativamente la materia e il corpo.
La liturgia immette l’uomo in un rapporto pieno con il Signore con il Verbo fatto carne; è la persona umana nella sua interezza che si incontra con il Salvatore.
La Liturgia è fatta di segni sensibili,tangibili. Il cristiano nella liturgia comunica con il Signore esprimendosi con il linguaggio del corpo,con la parola, il canto,i gesti,il movimento.
Vivendo la liturgia, egli è pienamente inserito nella chiesa che è il corpo mistico di Cristo.
Cultura della comunione
La cultura individualistica è diffusa nella società,nel nostro rapporto con gli altri,nello stile di vita quotidiana della gente anche nel campo religioso.
C’è la tendenza a privatizzare la fede separandola dal “contesto comunitario” e condannandola al soggettivismo:(fatto individuale,privato,appunto)
C’è la tendenza a ricevere i sacramenti come un bene di consumo religioso separati da un cammino di evangelizzazione e da un legame con la Comunità.
La privatizzazione dei sacramenti è il più grande controsenso nel campo della liturgia e della fede.
Com’è facile comprendere questa tendenza porta alla separazione tra fede e vita e allo svuotamento del senso della liturgia.
Come a dire” che valore ha celebrare insieme se poi nella vita non si condivide nulla?”
LA “Domenica “il giorno del Signore”,il gesto centrale della Celebrazione eucaristica è da sempre quello scelto da Gesù:spezzare il pane della fraternità e condividere il calice del vino,simbolo della condivisione della vita e del dolore,nell’ambito della benedizione rivolta a Dio.
Cultura del silenzio
Viviamo nella società del frastuono e nello stesso tempo sentiamo che il silenzio è un’esigenza urgentemente avvertita da tutti noi.
Stiamo parlando del silenzio autentico,non del silenzio vuoto,silenzio assenza di parola o peggio del silenzio freddo o pesante intrisi di indifferenza e di egoismo.
Ci riferiamo invece al silenzio da cui nasce la parola vera,al silenzio calmo di stupore dinnanzi al mistero di Dio,al silenzio premessa indispensabile dell’ascolto.
La liturgia è immersione nel Silenzio e nello stupore dell’amore di Dio che si comunica all’uomo nel silenzio e nell’ascolto della Parola di Dio,nel silenzio e nell’accoglienza del Dono di Dio.
Proprio per questo la liturgia diventa lode al Signore,adorazione,gratitudine,canto e gioia (anche nella celebrazione eucaristica è necessario concedere più spazio e più significato ai momenti di silenzio).
Capacità di aprirsi al silenzio.
Il silenzio è funzionale all’ascolto. L’uomo si apre quando acquisisce la capacità di ascolto.
Ascolto della Parola di Dio e ascolto della parola del fratello. Saper accogliere l’invocazione muta proveniente dalla sua povertà,saper ascoltare non solo il grido dei poveri ma ancor di più il silenzio dei poveri.
Oggi si è instaurato un sistema secondo il quale chi fa più chiasso,chi riesce ad urlare più forte con una massa di altri urlatori riesce ad avere credito.
La cultura scaturita dalla liturgia,la cultura eucaristica germogliata nel silenzio e nell’ascolto apre l’uomo al fratello soprattutto quando il fratello non ha la forza di levare la voce.
Cultura della bellezza
“ in un mondo senza bellezza anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione”(Von Blathasar)
L’attuale cultura efficientista dove predomina la categoria dell’utile a detrimento del bello è davvero arida.
Scoprire la bellezza come qualità della stessa fede,perché Dio è bellezza assoluta e sorgiva.
Alla luce della bellezza può essere percepito il mistero della Chiesa splendore di bellezza”senza macchia né ruga”(Ef 5,27) E in questa luce può essere riscoperta la liturgia che è intessuta di poesia in quanto è il cantico della Sposa allo Sposo divino.
Progettiamo un grande investimento educativo nel sapere “gustare” la bellezza”inafferrabile splendore” dell’amore infinito di Dio. La musica,il canto,la pittura,l’architettura,poesia dello spazio”..la poesia nasce dallo stesso mistero nel quale la liturgia ci immerge:
( liberamente tratto da “ per la riflessione” di Giuseppe Greco. In Liturgia e cultura.XLVII settimana liturgica nazionale)
Liturgia culmine e fonte della vita della Chiesa
Rosmini pone al primo posto nel suo libro Delle cinque piaghe della santa Chiesa la questione liturgica. La separazione tra clero e popolo nel culto pubblico è infatti la prima delle piaghe della santa Chiesa. Ciò anticipa l’impostazione del Vaticano II, che inizia col trattare la Liturgia e promulga come suo primo decreto proprio la Costituzione liturgica Sacrosanctun Concilium. Il Papa Paolo VI evidenzierà questo fatto affermando che Dio è al primo posto e prima di ogni altra delibera deve essere dato il primato al culto di Dio. Tutto il resto dipenderà da questo primato: la situazione della liturgia prima piaga da risanare in Rosmini; la liturgia primo intervento nel quadro della riforma della Chiesa nel Vaticano II. E il Papa Benedetto XVI ribadirà questo primato quando affermerà che la crisi della Chiesa consiste nel crollo della Liturgia. In tal modo essa è di nuovo posta al vertice per un’opera di sanazione e di promozione dell’intera vita della Chiesa.
2. La Liturgia è il culmine e la fonte della vita della Chiesa
Rosmini proclama il primato della Liturgia nella vita della Chiesa e nelle sue attività fondamentali. Egli afferma l’eminenza del Sacramento sulla stessa Dottrina e sulla Morale. In altri termini egli riconosce che l’annunzio evangelico non potrebbe essere compreso dai popoli, né la norma morale della legge evangelica essere vissuta se il Sacramento non abilita l’uomo peccatore a comprendere il pensiero di Cristo e a vivere la nuova legge dello Spirito. è il culto nuovo, che consente all’opera degli Apostoli di trasformare le genti. Ed è quindi il Sacramento che ricrea le facoltà dell’uomo decaduto e lo eleva alla comprensione di una dottrina soprannaturale e di una morale impossibile alle sole forze della natura. In tal modo si vede con chiarezza come il Rosmini anticipi quello che è il cuore della Costituzione liturgica del Vaticano II, che afferma che la Liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù (SC 10). La Liturgia quindi in Rosmini e poi nel Vaticano II non ha solo un primato logico nella trattazione, ma ha un primato esistenziale, che innerva necessariamente e permanentemente tutti gli aspetti della vita ecclesiale.
3. Elevare il popolo alla Liturgia: verso una piena partecipazione
Rosmini tuttavia prende atto della liturgia del suo tempo e considera lo stato di estraneità del popolo dal culto pubblico. Il clero e il popolo si trovano divisi e privi di una adeguata comunicazione nella celebrazione del culto pubblico. Egli descrive la liturgia come una grande scena che i fedeli osservano dall’esterno, non avendo gli strumenti e la possibilità di un intervento diretto in essa. Si tratta di una partecipazione vera del popolo, ma esterna e delegata. Ciò a causa della lingua latina incomprensibile e della mancanza secolare di forma-zione liturgica. Egli quindi auspica una partecipazione più diretta e interna del popolo, alla quale ha diritto per il battesimo e per la confermazione, che implicano l’esercizio del sacerdozio regale in tutti i fedeli che si uniscono consapevolmente al divin Sacrificio. è evidente l’asserto conciliare della partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa, in modo che i fedeli conformino la loro mente alle parole che pronunziano e cooperino con la grazia divina per non riceverla invano (SC 11). La dimensione pastorale è nella riforma del Concilio Vaticano II l’elemento determinante e primario. Si tratta di introdurre i fedeli ad una partecipazione interna e diretta agli atti liturgici. Occorre elevare il popolo alla Liturgia e portare la Liturgia al popolo.
4. Una lingua comprensibile e una catechesi mistagogica
Infine Rosmini analizza le cause di questa estraneità liturgica e le individua in due situazioni: l’incomprensibilità della lingua latina e la mancanza di adeguata catechesi. Con le invasioni barbariche la nobile lingua dell’Impero Romano non è più la lingua dei popoli. Da allora la Liturgia inizia un cammino di estraneità e la partecipazione del popolo – sempre sostanzialmente presente e mai totalmente compromessa – è tuttavia incrinata in ordine alla fruttuosità piena della Liturgia. Anche il clero, chiamato ad introdurre i fedeli nei Misteri si trova in uno stato di impreparazione che lo rende inabile ad offrire un’adeguata formazione ai popoli. Si tratta allora di prospettare una risoluzione. Rosmini esclude in modo assoluto il ricorso nella liturgia alle lingue parlate e afferma che in tal caso il rimedio sarebbe peggiore del male. Egli celebra una ispirata difesa della lingua latina, in fedeltà alle disposizioni disciplinari della Chiesa del tempo. Tuttavia non rinuncia a proporre delle soluzioni: la maggior conoscenza del latino nella società; la traduzione dei riti e l’uso di appositi sussidi per i fedeli; una miglior catechesi liturgica, ispirata alla antica scola dei Padri della Chiesa. Si può così osservare che il Vaticano II su questo punto supera decisamente il Rosmini e, attingendo alle grandi svolte del passato – dalle lingue semite al greco; dal greco al latino; dalle tre lingue classiche (ebraico, greco, latino) allo slavo con i santi Cirillo e Metodio – ammette le lingue parlate nella liturgia. Occorre però osservare che la sostanziale conservazione del latino, che il Rosmini ha celebrato, perdura anche nel Vaticano II, che, riaffermato il latino come lingua universale della Chiesa occidentale per le edizioni tipiche dei suoi documenti, deve rimanere la lingua della sua liturgia e talune parti, soprattutto del canto sacro, devono essere conservate e promosse nella pratica liturgica del popolo cristiano. Dimenticare questo secondo aspetto in nome di un uso totale ed esclusivo delle lingue volgari è compromettere il pensiero della Chiesa e l’impostazione della stessa riforma liturgica del Vaticano II.
4. Un profeta umile e fedele
Il beato Antonio Rosmini fu veramente un profeta, ossia il suo pensiero fu guidato dallo Spirito Santo in modo da anticipare quello che il medesimo Spirito avrebbe suggerito alla Chiesa nel concilio Vaticano II. Ma quale fu il prezzo e la condizione della sua profezia? Perché il suo insegnamento portò frutto ed ha oggi ampio e solenne riconoscimento nella Chiesa? Non vi furono altri grandi uomini e pensatori che espressero tale auspicio e affermarono ipotesi importanti? Il segreto di Rosmini fu l’essere e il mantenersi fedelissimo alla Santa Sede. Una fedeltà eroica, proprio quando da quella Sede vennero le incomprensioni e l’emarginazione. Questa è la virtù dei Santi: individuare in quella Sede, al di là dell’infermità delle stesse persone che la presiedono, la presenza permanente dello Spirito Santo e la custodia infallibile e indefettibile del pensiero di Cristo. La grandezza del Rosmini fu l’umiltà eroica di piegare il suo grande genio per passare come l’infimo dei fedeli attraverso la porta stretta dell’obbedienza e della paziente attesa. Proprio come afferma il salmo responsoriale della Messa del Beato: “è bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (Lm 3,26).
Liturgia ‘"culmen et fons’"
Il silenzio nella liturgia
Elena Massimi
(NPG 2020-04-62)
Capita spesso, particolarmente in celebrazioni che vedono un’ampia partecipazione giovanile, ma non solo, di non avere un attimo di respiro, di arrivare all’Ite missa est talmente stanchi, solo desiderosi di un po’ di silenzio, di pace, di “riposo”. Ministranti affaccendati, coro che riempie ogni momento “vuoto”, come se dovesse intrattenere i fedeli, sacerdoti che spiegano passo passo la celebrazione….un fluire “a tutto gas” di gesti, parole, suoni, senza una pausa, “una fermata”, un “attimo di silenzio”. Partecipiamo all’eucarestia con l’impressione di non pregare e attendiamo con ansia la fine della Messa per il meritato (sempre se ci viene concesso) momento di silenzio e di preghiera.
Questa non è liturgia: le parole e i gesti possono vivere solo se messi in relazione al silenzio, alle pause, alle soste… Allo stesso tempo però constatiamo come anche celebrazioni scandite da tempi lunghi di silenzio e meditazione, possano risultare ugualmente poco proficue. Il silenzio viene allora vissuto come “assenza di rumore e di parola” e non come “vertice di una comunione”.
Dovremmo forse fare memoria delle parole di R. Guardini, ancora così attuali: “A mio avviso la vita liturgica inizia con il silenzio. Senza di esso tutto appare inutile e vano […]. Il tema del silenzio è molto serio, molto importante e purtroppo molto trascurato. Il silenzio è il primo presupposto di ogni azione sacra”( R. GUARDINI, Il testamento di Gesù, 33).
Se, quindi, il silenzio è il presupposto imprescindibile di ogni azione liturgica, dovremmo iniziare a domandarci in quali momenti della celebrazione eucaristica farlo, come gestirlo, quali i criteri, le vie, perché possa divenire luogo di ascolto profondo.
Il silenzio nella liturgia eucaristica
Quando e perché
Ricordiamo come la liturgia, e quindi la celebrazione eucaristica, non sia in primis un tempo di meditazione e di preghiera personale (SC 26: “Le azioni liturgiche non sono azioni private ma celebrazioni della Chiesa”); al suo interno però sono previsti alcuni momenti di silenzio (SC 30: “Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l'atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, un sacro silenzio”), ben descritti dall’Ordinamento Generale del Messale Romano. Al n. 45 evidenzia:
Si deve anche osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come parte della celebrazione. La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni.
Il silenzio, quindi, è parte integrante della celebrazione stessa, e quindi luogo teologico dell’ascolto reso fecondo dallo Spirito Santo. Viene gestito in modo differente a seconda di dove è inserito, e naturalmente messo in relazione con quanto precede e segue.
Ripercorriamo ora i diversi momenti della celebrazione eucaristica nei quali è previsto il silenzio, considerandone anche lo scopo.
- Atto penitenziale: È prevista una breve pausa di silenzio (cf. OGMR 51) dopo l’invito del sacerdote all’atto penitenziale, per aiutare il raccoglimento dei fedeli.
- Colletta: Il sacerdote invita il popolo a pregare e i fedeli insieme con lui stanno per qualche momento in silenzio, per prendere coscienza di essere alla presenza di Dio e poter formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera (cf. OGMR 54).
- Liturgia della Parola: “La Liturgia della Parola deve essere celebrata in modo da favorire la meditazione; quindi si deve assolutamente evitare ogni forma di fretta che impedisca il raccoglimento. In essa sono opportuni anche brevi momenti di silenzio, adatti all’assemblea radunata, per mezzo dei quali, con l’aiuto dello Spirito Santo, la parola di Dio venga accolta nel cuore e si prepari la risposta con la preghiera. Questi momenti di silenzio si possono osservare, ad esempio, prima che inizi la stessa Liturgia della Parola, dopo la prima e la seconda lettura, e terminata l’omelia” (OGMR 56).
Precisiamo, inoltre, come nella Preghiera dei fedeli l’assemblea può rispondere alle intenzioni anche pregando in silenzio (cf. OGMR 71).
- Presentazione dei doni: È possibile svolgere i riti offertoriali anche in silenzio (questo potrebbe rivelarsi proficuo ad esempio in Quaresima).
- Comunione: Dopo l’“Agnello di Dio” Il sacerdote si prepara con una preghiera silenziosa a ricevere con frutto il Corpo e il Sangue di Cristo. Lo stesso fanno i fedeli pregando in silenzio (cf. OGMR 84). Inoltre “terminata la distribuzione della Comunione, il sacerdote e i fedeli, secondo l’opportunità, pregano per un po’ di tempo in silenzio” (OGMR 88).
Come?
Se sono diversi i luoghi in cui sono previsti momenti di silenzio, ci si domanda come debbano essere gestiti. Innanzitutto “gestire il silenzio in una celebrazione è una arte, se non è ben preparato o se non è richiesto potrebbe ridursi a un silenzio vuoto e insignificante” (Centro di pastorale liturgica francese, Ars celebrandi, Ed. Qiqajon, 132-133).
Fondamentale è l’atmosfera di silenzio che le parole e i gesti suscitano; tutto ciò si rivela importantissimo, ad esempio, per la Preghiera eucaristica, “che esige che tutti l’ascoltino con riverenza e silenzio” (OGMR 78), o per la liturgia della Parola, che deve essere celebrata “in modo che essa favorisca la meditazione; si deve perciò evitare assolutamente ogni fretta che sia di ostacolo al raccoglimento” (OLM 28). Silenzio e parola sono profondamente legati: il silenzio conduce all’ascolto, l’ascolto vive del silenzio.
Come possiamo creare un tale clima, una tale atmosfera di silenzio?
Di seguito tenteremo di offrire alcune indicazioni concrete:
- è opportuno che l’invito al silenzio “sia breve, già improntato a un tono raccolto, pacato, che indichi eventualmente come abitare il silenzio”;
- “l’entrata nel silenzio non deve essere brusca ma progressiva e richiede che si adotti una postura distesa, che lo sguardo e il corpo non si muovano, che il respiro sia controllato e rallentato”;
- “l’uscita dal silenzio è per lo più accompagnata dalla ripresa della parola da parte di chi ha introdotto il silenzio; anch’essa deve assumere un registro progressivo ed evitare i modi bruschi o la precipitazione” (Ars celebrandi, 133);
- evitare di compiere i gesti in modo affrettato e sciatto;
- partecipare attivamente ascoltando con la mente e con il cuore, concentrati e agendo con “serietà”.
Principi e Norme per la Liturgia delle Ore offre una ulteriore indicazione per la gestione del silenzio, che possiamo adattare alla celebrazione eucaristica: “si deve però evitare di introdurre momenti di silenzio che deformino la struttura dell'Ufficio, o rechino molestia o fastidio ai partecipanti” (PNLO 202).
Quindi l’introduzione arbitraria del silenzio non aiuta i fedeli a partecipare, anzi, oltre a snaturare la struttura celebrativa, rende fastidioso il silenzio. La stessa cosa capita quando il silenzio è eccessivamente breve o troppo lungo.
È importante infine misurare la durata del silenzio tenendo conto dell’assemblea concreta che celebra e della cultura di appartenenza.
Educare al silenzio
Nell’attuale contesto contemporaneo con fatica riusciamo a trovare un certo clima di raccoglimento; probabilmente l’utilizzo senza misura dell’IPhone, dell’IPad… il vivere costantemente “connessi”, rende molto più difficile abitare e desiderare il silenzio (non semplicemente come assenza di parole e rumori ma come luogo di ascolto profondo). La nostra società ha valorizzato il vedere e non l’ascoltare; siamo abituati a sentire, ad avere sempre un sottofondo di suoni, ma non ad ab audire.
È necessaria quindi una assidua educazione al silenzio. “I grandi maestri di vita spirituale affermano che per giungere a formarsi un animo silenzioso è bene non solo astenersi sempre dai discorsi vani o addirittura cattivi, ma anche talora rinunziare a parlare di cose buone ed edificanti, per amore di colui che è la Parola di vita” (A. M. CANOPI, Silenzio. Esperienza mistica della presenza di Dio, EDB, Bologna 2008).
La liturgia, nel suo alternarsi tra parola, gesto e silenzio, potrebbe rappresentare una grande risorsa per riscoprire il grande valore del silenzio ed educarci ad esso.
Verbo crescente, verba deficiunt. (S. Agostino, Sermo 288,5)
Divo Barsotti: La santa Messa Realizzare la comunione nella Liturgia Eucaristica
di Marina Alessandro
L’Eucarestia, centro della vita spirituale cristiana
Un aspetto fondamentale della spiritualità di don Barsotti, fonte e culmine di tutta la sua esperienza di uomo, di sacerdote, di padre spirituale e dunque tratto significativo e caratteristico della spiritualità nella Comunità dei figli di Dio è proprio il rapporto con l’Eucarestia.
Molte sue omelie e meditazioni, pur avendo come punto di partenza altro oggetto, pure vi approdano, necessariamente, ed egli non si stanca mai di meditare sugli aspetti di questo mistero (la presenza reale, il sacrificio, la comunione), che insieme costituiscono la ricchezza inesauribile del sacramento eucaristico, veramente “fonte e culmine” di tutta la realtà e di tutta la vita religiosa.
Partecipare alla vita del Figlio
In don Divo, la consapevolezza della scelta religiosa, scelta che precede quella del ministero sacerdotale, nasce precisamente dal desiderio di incontrare Dio e dalla fiducia di poterlo incontrare sul serio: ad un certo punto della sua vita avrà la certezza che ciò può avvenire realmente e pienamente nell’Eucarestia.
Per lui infatti questa ricerca si riassume nelle parole di una sorta di locuzione interiore che sentì fin dai primi anni di sacerdozio e che rimarrà sempre a fondamento della sua vita di rapporto con l’Assoluto: «Guardami nell’Eucarestia!».
Non si tratta di una contemplazione statica o oggettiva, che renderebbe una “cosa” il sacramento, ma di una immedesimazione col Dio dato “per noi”, di un inserimento nel Figlio, in un processo vertiginoso di adorazione del Padre nel Figlio, il quale assume tutta la realtà. L’Eucarestia sarà sempre per lui questo essere figlio nel Figlio Unigenito che si dà e che partecipa la sua vita a tutti gli uomini, a tutto l’universo.
La via verso una condizione “più gloriosa”
In altre parole, quel rapporto uomo-Dio, che si stabilisce già mediante la creazione, nel sacrificio eucaristico raggiunge il suo culmine, perché nell’incontro con Cristo l’uomo e Dio diventano uno.
Ricorrendo alle parole del padre don Divo ne “La Santa Messa”: «la Messa sarà la morte e resurrezione del Cristo che è la morte e resurrezione di tutta la creazione, il morire cioè di tutta la creazione alla condizione creaturale e il risorgere di tutta la creazione in una condizione nuova, nella condizione della vita di Dio, nella condizione della vita gloriosa».
Più volte il padre insiste sul fatto che non vi è discontinuità tra la rivelazione cosmica e la rivelazione cristiana, il Cristianesimo supera l’economia primitiva, ma non la distrugge. La rivelazione divina non inizia con la chiamata di Abramo, ma con la creazione stessa. Fin d’allora tutta l’umanità è in cammino e si protende verso Cristo.
Vivere questa unità nella liturgia
La Messa cui prendiamo parte non ripete la Morte di Croce, tuttavia la fa presente, non la continua ma la fa presente; d’altronde se la ripetesse non sarebbe più unico il sacrificio di Cristo e se la continuasse il Sacrificio non sarebbe perfetto, perché dunque la necessità della Messa nel tempo – e cosa aggiunge una nostra partecipazione?
Partecipiamo misteriosamente sì, ma realmente, per “prendere tutti” il dono di sé che Dio ci fa, perché la Presenza di Gesù nel sacrificio opera realmente l’unione nuziale di noi uomini con Cristo, diveniamo Chiesa Suo mistico corpo e facciamo unità con tutti i fedeli, mentre rimane per noi cristiani l’impegno di vivere questa unità, di realizzarla sempre più pienamente vivendo non più per noi stessi, ma per gli altri, mettendoci ognuno a servizio di tutti. A questo può prepararci soltanto una nostra progressiva assimilazione a Cristo e ciò avviene facendo comunione con Lui nell’Eucarestia.
Naturalmente questo processo di assimilazione è vissuto in maniera eminente dal celebrante che agisce
“in persona Christi”.
Partecipare al Mistero nella Messa
Don Divo scriveva il 4 settembre del 1958: «Alla Messa di stamani è veramente stata una crocifissione. Dio mi chiedeva che facessi l’atto totale di dedizione a Lui proprio nell’istante in cui consacravo, e ne provavo ripugnanza estrema. Donarmi voleva dire essere crocifisso come Gesù». E ancora: «Mentre alzavo l’Ostia pensavo (…): il mio atto, il mio rapporto personale con Cristo nella celebrazione eucaristica era e doveva risolvere per me ogni cosa, doveva essere per me tutta la storia, tutta la vita, tutta la creazione, tutta la divinità». Diceva anche «oggettivamente parlando, la partecipazione alla liturgia è molto più di tutte le estasi dei santi. L’estasi non implica una partecipazione al Mistero. Ma nell’atto liturgico il Mistero oggettivamente si fa presente».
Don Divo sentiva che la partecipazione alla Messa era per lui, e doveva essere per tutti, un entrare in quell’Atto (morte e resurrezione di Cristo) che stabilisce un eterno “oggi” nel quale l’uomo è chiamato a sprofondare. Diceva: «Tu devi identificare la tua vita a quell’atto. L’atto del Cristo. Non ripetizione o imitazione: tu devi far presente il Cristo, non quasi Egli non fosse, ma perché in Lui devi immergerti, a Lui identificarti, devi essere da Lui preso, posseduto. E tu non sei più che in Lui, che Lui stesso. E la presenza non è per te l’immensità della Natura divina, ma Cristo, Cristo nella sua morte, nella sua resurrezione».
«Durante la Messa, come Dio era vicino, come si imponeva al mio spirito, la sua Realtà unica, vera! Non era Dio, era il Padre, tutta la gioia, la vita. Non era la Immensità divina nella quale naufragavo, era il Padre. Non una mistica dell’unità, un puro perdermi nel Tutto, ma un essere a Lui, un essere per Lui come il Figlio. Se il Figlio non fosse non sarebbe il Padre. E Dio mi chiedeva, voleva Se stesso».
Messa, servizio, vita quotidiana
Così, in un continuo rispondere a Dio, la Messa non rimaneva staccata dalla sua giornata, ma continuava a vivere in lui, lo sollecitava in ogni istante nel suo intimo, nel rapporto con Cristo e in quello con i fratelli. Infatti, per lui «(…) attraverso la Santa Messa dovrebbe saldarsi la fraternità dei cristiani. La santa Messa li educherà a questo, in modo che la loro vita che si svolge fuori dal tempio, nella famiglia, nella scuola, nell’officina, nei campi, sia vissuta come servizio: il lavoro dovrebbe così trasformarsi per ogni cristiano in un sacrificio personale, non solo in preghiera e non solo in atto sociale, ma come nel proprio sacrificio personale, in unione e somiglianza del sacrificio di Gesù».
Questa trasformazione non è certamente opera nostra, è opera del Cristo, Presenza reale nell’Eucarestia, ma presente in modo escatologico.
Don Divo: «Non è il Cristo che entra ora nel mondo (…), è ogni uomo che, mediante la fede nella comunione al suo Corpo, entra nella Presenza (…). La Presenza cancella ogni condizionamento di tempo e di spazio che divide e allontana (…). Gli uomini nell’Atto del Cristo già sono introdotti nell’eternità».
L’uomo dunque, in forza dell’amore totale del Cristo che si dona a lui nella comunione eucaristica vince quei condizionamenti, frutto del peccato, che lo tengono lontano da se stesso, dagli altri uomini e dalle cose create.
Don Divo: «…e noi si vive l’unità: l’unità con Dio, perché siamo un solo Cristo, un solo Figlio unigenito, l’unità con gli uomini, perché siamo tutti un solo corpo; l’unità con la creazione, perché l’intera creazione diviene veramente il regno dell’uomo». Certo l’uomo liberamente può rifiutarsi di accogliere il Cristo ed entrare nella sua Presenza, tuttavia questa rimane la sublime manifestazione dell’amore infinito di Dio che vuole redimere l’umanità.
Adorazione Eucaristica: la «preghiera del Cristo che diviene la nostra preghiera»
Di seguito alcuni pensieri del padre don Divo in merito all’adorazione eucaristica, che aiutano ad entrare
in questa visione così chiara e particolare frutto di una consapevolezza sicuramente ispirata.
«Ora noi possiamo capire e riprendere uno degli elementi essenziali della pietà cristiana: l’adorazione cosiddetta dell’Eucaristia, che non è più adorare noi l’Eucarestia, ma è l’adorazione del Cristo che diviene la nostra adorazione, che non è più la preghiera dell’uomo a Gesù, ma è la preghiera del Cristo che diviene la nostra preghiera, la contemplazione del Verbo che diviene la contemplazione nostra».
«Si è detto tante volte: non si tratta per noi di adorare Gesù; (…) si tratta di entrare nell’adorazione che è propria della sua umanità. Se io veramente vivo una mia comunione col Cristo, l’adorazione dell’umanità sacrosanta del Verbo dinanzi alla faccia del Padre, diviene il mio atto, io contemplo il Padre con gli occhi del Cristo, io adoro il Padre col cuore di Gesù, entro nella Presenza. (…) Vivere l’Eucarestia è l’entrare precisamente nell’anima stessa di Gesù, entrare nel cuore stesso di Gesù, entrare nei sentimenti stessi di Gesù (…)».
Alcuni fraintendimenti della devozione: al centro è il cuore dell’uomo
E, per evitare quello che vedeva come il pericolo della “tabernacolatria” precisava: «Una certa devozione eucaristica rischia di compromettere quello che è il vero valore del Mistero eucaristico, perché fa sì che noi ci ordiniamo al sacramento, e questo è contro la teologia, perché i sacramenti sono per gli uomini, non gli uomini per i sacramenti. Fine dell’Eucarestia è il cristiano, perché l’Eucarestia si dona a noi per trasformarci precisamente nel Corpo di Cristo, per far sì che in noi si renda visibile Gesù benedetto».
E ancora: «Più sacro di ogni tabernacolo è il cuore dell’uomo! Perché nel tabernacolo è presente il Signore, ma per comunicarsi a noi e non per stare lì. È sotto le specie del pane per comunicarsi. Il termine ultimo del Cristo è il mio medesimo cuore, è l’intimo dell’essere mio. Egli vive in me. (…) Noi siamo il paradiso di Dio, il luogo di Dio!».
«Tante volte noi, nei riguardi dell’Eucarestia, abbiamo come il sentimento (non dico la fede) di una presenza “cosica”: è presente come è presente, per esempio questo libro. Veramente è qualche cosa di incredibilmente stupido da pensare questo, perché la presenza di una persona non è nemmeno nel corpo; la presenza di una persona è soltanto nella misura che la persona si dona, perché voi potete essere anche qui, ma se non mi pensate, se non c’è un rapporto vero di amore, siete assenti ed io sono assente a voi. Basta che chiuda gli occhi, e voi mi siete già lontani se io non vi penso, se io non vi amo. La presenza del Cristo non è una presenza “cosica”, è la presenza di una Persona vivente la quale tutta si dà a voi, perché voi non viviate che la sua medesima vita, perché voi siate trasformati in Lui stesso. Vivere questo è tutto! Lasciare che Cristo operi in voi questa trasformazione, questa vostra unione con Lui, perché voi possiate entrare nel seno del Padre».
Nel 1983, ne “La vita in Cristo” afferma : «la comunione eucaristica sembra essere il mezzo escogitato da Dio per il mantenimento della vita e per il suo progresso, com’è il cibo nella vita naturale dell’uomo».
Ciò che l’Eucarestia compie
A proposito di quanto opera la comunione eucaristica, don Divo precisava che se il sacrificio eucaristico è il modo in cui si manifesta la Presenza reale, nella comunione eucaristica finalmente questa Presenza si realizza nell’anima del fedele.
Cristo entra in comunione con lui e, donandosi totalmente, vive con lui una comunione di amore e di vita. E solo Dio, che è puro spirito, si dona totalmente, in Cristo, divenendo intimo all’uomo più di se stesso. «Dio veramente si comunica a me. E tu vivi ora non più l’alienazione, ma vivi, nella presenza di Dio, la presenza anche a te stesso. Nella presenza si realizza anche la comunione con gli altri. Tu divieni un solo corpo con tutti».
È per questo che l’Eucarestia realizza la Chiesa, ma anche la comunione con gli uomini di tutti i tempi e luoghi, con la creazione, e con Maria SS., gli angeli, i santi e con i defunti, perché l’uomo, ricevendo Cristo, vince le conseguenze del peccato: alienazione da Dio, incomunicabilità nei confronti degli uomini e rottura con la creazione.
L’immanenza di Cristo nella nostra unione con tutti
Don Divo teneva anche a sottolineare che, nella Comunione eucaristica, non solo Cristo vive in noi nella fede, ma anche noi viviamo in Lui: è l’ immanenza reciproca. «È un’immanenza che dipende da un atto sacramentale: si comanda all’uomo di rimanervi, non si potrebbe chiedere all’uomo di realizzarla».
«Questa immanenza del Cristo nell’uomo e dell’uomo in Cristo ripete in qualche modo l’immanenza del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre nell’unità dello Spirito (…)»
Così il mistero eucaristico ripete il mistero della Trinità, in cui le tre Persone divine, uguali e distinte, sussistono in una sola natura. Per il mistero eucaristico, nell’unità del Cristo, siamo distinti da Lui, ma siamo anche trasformati in Lui, per partecipazione d’amore diveniamo ciò che riceviamo. «Nella Comunione io divengo davvero il Figlio di Dio (…). Io e Cristo siamo “uno” nella verità, un’unica vita. Come una favilla in un incendio, come una stella che si tuffi nel sole: non è più che una luce infinita”. Ed è sempre Cristo che realizza questa unità; noi siamo chiamati a viverla, entrando sempre più nel mistero della Comunione eucaristica. Ma come questo è possibile? Volete unirvi a Gesù? Non crediate che la Comunione sia un atto privato (…) non è un atto di intimità con Gesù. Non c’è intimità con lui se non realizzi questa unione con tutti. Tu sarai uno con tutti se tu, uomo, sarai tutta la Chiesa; se in te vivrà la pena di tutti i malati, l’angoscia di tutti i peccatori, la beatitudine di tutti i santi”.
La presenza di tutti e di tutto
Se viviamo veramente la comunione con Cristo, abbracciamo in unione d’amore tutti i santi, ma anche Maria, gli angeli e i defunti. “Nella Messa i nostri morti sono vivi, più presenti di quando vivevano quaggiù sulla terra; i santi sono più presenti a noi di quanto non fossero presenti ai loro contemporanei».
E unendoci a Cristo superiamo anche la divisione col creato, perché «in Cristo ritrovi davvero ogni cosa, non abbandoni più nulla. Comunichi con l’universo che s’è riconciliato con te e al quale tu ti sei riconciliato perché hai trovato Dio. Questo vive l’anima nella Messa».
Il sacramento della perfezione
Don Divo ci parlava dell’Eucarestia come il sacramento della perfezione, per lui le ragioni sono due: l’Eucarestia è l’alimento spirituale per eccellenza; l’Eucarestia realizza l’unione nuziale con Cristo.
Infatti, «la Comunione, in quanto alimento per la nostra vita, si accompagna al cammino dell’anima verso la perfezione. Perciò possiamo fare la Comunione anche prima della Confermazione e continuiamo a farla, anche se non siamo perfetti, proprio per raggiungere la perfezione».
«(…) Per il sacramento eucaristico è Dio stesso che diviene il desiderio dell’uomo e la fame dell’uomo diviene così inestinguibile, perché ha la misura stessa di Dio». L’Eucarestia «è un’unione nuziale, nella quale Gesù dona tutto se stesso: non solo la sua umanità, ma anche la sua divinità».
Unità nella distinzione
È il sacramento dell’amore, perché realizza la trasformazione dell’amante nell’Amato e la loro unità, senza che venga meno la loro distinzione. «La nostra santificazione ultima si realizza in una unione nuziale col Verbo. La comunione è la consumazione di questa unione. (…) Basterebbe una Comunione a farci santi. Di fatto basta: quando saremo in Paradiso vivremo una comunione sola, ed è l’eternità, l’atto di una comunione che si trasferisce totalmente in Dio e ci dona Dio per sempre (…)».
Ma, don Divo fa notare, anche Lui ha fame dell’uomo e questa sottolineatura è per noi importantissima e bellissima. Poter credere a questo! Al pari di tutti quelli che amano Dio desidera ardentemente l’amato, desidera di possederlo! È vero, è un linguaggio umano, quasi carnale, quello che don Divo usa per esprimere questo desiderio, questo amore di Dio per ciascuna anima: linguaggio comune a molti mistici che, come don Divo, vivono veramente e pienamente questa unione nuziale con Gesù. «Il sacramento eucaristico come realizza l’unione, così porta a compimento l’adozione nuziale, dando all’uomo di vivere come figlio di Dio il rapporto del Figlio unigenito».
E, nel mistero eucaristico, l’anima che riceve lo Sposo, s’identifica non solo col Cristo, non solo con la Chiesa, ma con tutta l’umanità e tutta la creazione, perché si dilata in una dimensione d’amore che tutto abbraccia. Per questo il padre don Divo teneva a farci comprendere che «(…) il fine di tutta la vita della Chiesa sono i cristiani, i quali debbono essere l’ultima presenza, la presenza definitiva di Cristo, perché i sacramenti cesseranno, e alla fine del mondo non si celebrerà più la Messa sotto le specie del pane e del vino, ma rimarremo eternamente noi se saremo in Paradiso, e il Cristo vivrà in noi e noi vivremo in Lui…».
Liturgia..incontro dell'Eterno
E' nella preghiera liturgica che l’incontro del tempo e dell’Eterno, compiutosi nell’incarnazione e nel mistero pasquale del Figlio di Dio, viene reso presente per illuminare e trasformare la vita dei credenti e della Chiesa tutta.
Afferma il Concilio Vaticano II: “Giustamente la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra” (Costituzione Sacrosanctum Concilium 7). In unione al Verbo fatto carne, sotto l’azione dello Spirito Santo, nella liturgia il credente entra nelle profondità di Dio, reso nuovo dall’amore dei Tre che sono Uno, capace di spendersi con fede, carità e speranza al servizio del prossimo nella comunione della Chiesa.
1. La liturgia, preghiera trinitaria.
Lo specifico della preghiera liturgica è di essere preghiera trinitaria: nello Spirito per il Figlio la comunità che celebra si rivolge al Padre ed è dal Padre per il Figlio che ogni dono perfetto le viene offerto nel Consolatore. Perciò le orazioni liturgiche si concludono con la formula trinitaria, diretta al Padre per Cristo nello Spirito, e invocano dal Padre i doni del Suo amore per mezzo del Figlio nella grazia del Consolatore. Nella preghiera liturgica il cristiano sperimenta la filiazione divina, perché non sta davanti a Dio come un estraneo, ma partecipa alla vita trinitaria nello Spirito, come figlio nel Figlio: “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo, che grida: Abba – Padre!” (Gal 4,6; cf. Rm 8,15). La liturgia rappresenta la porta di ingresso della comunità celebrante nella Trinità divina e di Dio nel cuore di chi prega: in essa “il fragile vaso delle parole umane viene a contenere il diamante infrangibile della divinità” (Pavel A. Florenskij). Alla scuola della liturgia si comprende perché pregare, per il cristiano, non è pregare un Dio, ma pregare in Dio: nello Spirito, per il Figlio la preghiera liturgica va al Padre, da cui, per Cristo nello Spirito, viene offerta agli uomini la partecipazione salvifica alla natura divina.
2. A Te, Dio Padre onnipotente…
La liturgia introduce la comunità e ciascuno dei battezzati in una relazione vivificante con il Padre, che si attua in una duplice direzione: dal Padre agli uomini e dagli uomini al Padre. Dio Padre è la sorgente di ogni dono perfetto (cf. Gc 1,17), colui che prende l’iniziativa dell’amore ed invia il Figlio e lo Spirito Santo. Il Padre è Colui che ama da sempre ed amerà per sempre, né sarà mai stanco di amare. La liturgia è il luogo in cui il singolo e la Chiesa, grazie all’azione dello Spirito Santo, sperimentano l’avvento sempre nuovo dell’amore che proviene dall’eterna Fonte della vita. Perciò la preghiera liturgica è anzitutto accoglienza del Dio vivo, che entra nel cuore della storia: celebrare è lasciarsi amare dal Padre celeste e far spazio al Suo dono nella perseveranza dell’ascolto. In questo senso, vivere la liturgia vuol dire essere raggiunti e trasformati dalla presenza divina: qui si coglie l’importanza dei tempi di silenzio, di ascolto e di raccoglimento nella celebrazione e l’urgenza che ogni parola in essa pronunciata sia sobria, fedele a quelle che la Chiesa ci affida, senza appesantimenti o stravolgimenti arbitrari. Come afferma il Vaticano II, “le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è sacramento di unità, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi” (Sacrosanctum Concilium 26). Il modo di celebrare, perciò, non sia mai stanco, minimalista e poco coinvolgente, ma vivo, preparato con cura, intensamente pregato e tale da invitare tutti alla preghiera, contribuendo così a rigenerare sempre di nuovo la comunità intera. Dall’accoglienza nasce il dono: se tutto viene dal Padre, tutto ritorna a Lui, in un movimento di risposta che relaziona ogni atto a Dio. La preghiera liturgica si presenta, allora, come sacrificio di lode, azione di grazie e di intercessione, in cui il mondo e la vita sono abbracciati per essere orientati sempre di nuovo alla loro origine e alla loro meta: è quanto ci ricorda in particolare la liturgia delle ore, che fa di ogni tempo un’ora di grazia, in cui la salvezza viene accolta per essere condivisa con gli altri. È pregando nella liturgia e a partire da essa che il cristiano impara a vedere tutto nella luce di Dio, a denunciare l’ingiustizia e a servire in parole ed opere la giustizia del Regno che viene. La liturgia pienamente vissuta educa a farsi voce dei senza voce e forma in chi la vive il senso delle cose di Dio, nella cui luce impegnarsi per la verità e il bene al servizio di tutti, specie dei più deboli e bisognosi.
3. Per Cristo, con Cristo ed in Cristo…
Nella liturgia opera il Figlio di Dio, fattosi uomo per noi, Gesù Cristo, sommo Sacerdote della nuova ed eterna alleanza: tutto in essa si compie per Lui, con Lui ed in Lui. Afferma il Concilio Vaticano II: “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, offertosi una volta sulla croce, si offre ancora tramite il ministero dei sacerdoti, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: ‘Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro’ (Mt 18,20)” (Sacrosanctum Concilium 7). Pregare in unione al Figlio e per mezzo di Lui significa entrare nel mistero della Sua condizione filiale di divino Amato, che accoglie l’amore del Padre, per ricevere questo amore in noi stessi, nella Chiesa e nella società. Rendendo presente l’infinita carità del Figlio, fatto uomo per noi, la liturgia suscita l’imitazione di Lui non come copia di un modello lontano, ma come esperienza della Sua vita donata, che coinvolge ogni aspetto del nostro essere, la nostra interiorità più profonda, come la nostra corporeità e le nostre relazioni. Nella liturgia lo Spirito Santo rende presente il Cristo, che insegna ai fedeli ad amare sull’esempio di Lui, che ci ha amato e ha consegnato se stesso per noi (cf. Gal 2,20). Attraverso l’unione al Figlio venuto nella carne, realizzata mediante la liturgia della Parola e l’azione sacramentale, la liturgia educa all’accoglienza degli altri: in essa i molti diventano l’unico Corpo del Signore, nella forza dello Spirito e nella comunione della Chiesa dell’amore!
4. Nell’unità dello Spirito Santo.
Nel seno della Trinità lo Spirito Santo è il legame dell’amore divino: così lo concepisce la teologia occidentale. Fra l’Amante e l’Amato lo Spirito è l’Amore personale, il “vincolo della carità eterna” (Sant’Agostino), che entrando nella storia suscita la comunione degli uomini con Dio e fra di loro. A sua volta, la teologia orientale contempla lo Spirito a partire dalla Croce del Signore, quando Gesù “chinato il capo, consegnò lo Spirito” (Gv 19,30): per essa lo Spirito è Colui grazie al quale Gesù è uscito dal Padre per entrare nella solidarietà dei peccatori, è l’“estasi di Dio”, il dono divino agli uomini affinché questi si aprano gli uni agli altri e al futuro del Dio che viene.
La liturgia insegna a pregare “nell’unità dello Spirito Santo”: la preghiera nello Spirito forma al dialogo e alla comunione e induce a riconoscere l’altro come dono, che non fa concorrenza, né suscita timore. In quanto poi lo Spirito è libertà (cf. 2 Cor. 3, 17), la liturgia apre alla fantasia dell’Eterno e rende docili e sensibili alla profezia. Chi prega nello Spirito sarà aperto al “nuovo” di Dio, perché lo Spirito è sempre vivo e operante nella storia, al servizio del compimento delle promesse divine.
Nella liturgia, l’azione dello Spirito fa sì che fedeltà e novità lungi dall’opporsi si offrano come aspetti della medesima esperienza di fede, in cui il futuro di Dio viene a mettere la sua tenda nel presente degli uomini. La liturgia è in tal senso la sorgente e la scuola della speranza che non delude, come della carità operosa: essa è vertice dell’esistenza redenta, anche se “non esaurisce tutta l’azione della Chiesa” (Sacrosanctum Concilium 9), perché la visibilità della sequela di Gesù nel mondo non è anzitutto la liturgia, ma una comunità che viva la comunione e il servizio. Come nell’esperienza della Trasfigurazione (cf. Mt 17,1-8; Mc 9,2-8 e Lc 9,28-36), la liturgia ci fa salire sul monte ed entrare nell’esperienza del mistero santo, per inviarci poi, scendendo dal monte, a portare a tutti con la parola e la vita il dono di cui siamo divenuti partecipi.
5. Dove Dio ha tempo per l’uomo, perché l’uomo abbia tempo per Dio.
La liturgia è dunque il luogo in cui la Trinità entra nelle umili storie dell’esistenza umana e queste possono essere accolte nel mistero d’amore delle relazioni divine. La liturgia genera e alimenta la vita conforme al Vangelo, dove l’uomo ha tempo per Dio, perché Dio ha avuto tempo per l’uomo: da essa nasce la testimonianza di coloro che – resi nuovi dall’amore – cantano con la vita il cantico nuovo della riconoscenza e della lode. In questa luce si comprende perché la liturgia è culmine e fonte dell’intera vita della Chiesa (cf. Sacrosanctum Concilium 10) e quanto è importante che la celebrazione liturgica sia ben vissuta: a tal fine, invito ogni comunità parrocchiale a costituire un gruppo di animazione liturgica e a formare dei referenti, che non solo curino la celebrazione, ma promuovano anche la comprensione il più possibile ampia e profonda del linguaggio dei segni, di cui la liturgia è tanto ricca. Gli spazi liturgici – altare, ambone, tabernacolo, sede, battistero, confessionale, ecc. – siano tali da favorire l’esercizio del ministero ad essi connesso e ne richiamino l’importanza per la vita dei fedeli. L’Ufficio Diocesano di Pastorale Liturgica offra occasioni di approfondimento e corsi di adeguata formazione al fine di favorire la partecipazione attiva dei fedeli alla preghiera liturgica. Parimenti, si dia la necessaria attenzione al canto liturgico, voce della Chiesa Sposa che celebra lo Sposo, incoraggiando la partecipazione alle iniziative della Scuola diocesana di musica e canto sacro. Si promuova un canto ricco nei contenuti e tale che il maggior numero possibile dei fedeli lo faccia suo, dando voce alla propria fede nella comunità celebrante. L’intero dinamismo trinitario della liturgia, richiamato in queste riflessioni, è riassunto nella preghiera di lode (“dossologia”), cantata a conclusione del canone eucaristico. Concludo perciò questa lettera con le parole che la compongono: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo a Te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen”.
Bruno Forte
La preghiera...bellezza dell'Assoluto in Romano Guardini
Gianfranco Bertagni
La preghiera, come slancio gratuito verso ciò che è grande, intreccia un altro grande filone dell’esercizio millenario del pregare; la preghiera diventa filocalica perché contempla e introietta la bellezza dell’Assoluto, trascendendo la dimensione sensibile in cui siamo usi incontrarla. Nella Lode filocalica tutto l’universo è chiamato a cantare la bellezza di Dio e con essa assecondiamo in noi stessi la penetrazione di questo senso profondo, come una corrente che ci trascina, secondo la parole del Salmo 148: “Lodate il Signore, sole e luna, lodatelo tutte, o fulgide stelle […] Fuoco e grandine, neve e nebbia, vento tempestoso, esecutore dei Suoi ordini; voi monti ed ogni colle, alberi fruttiferi ed ogni cedro; le belve e tutto il bestiame, i rettili e gli alati uccelli… “ (11).
Ma vediamo adesso il tema della domanda sempre presente nella preghiera, forse l’aspetto più umano del pregare perché ci innesta nella nostra fragile natura. La domanda equivale alla parole di richiesta del pane quotidiano nella preghiera del Pater Noster, le parole che il Cristo ha insegnato all’umanità tutta tramite gli apostoli. Tutto il Pater è infatti una domanda, ove l’insufficienza radicale della natura umana anela a colmare quel limite nell’appello a ciò che è più grande. Preghiera difficile e ardua perché non prevede un facile ed immediato risarcimento ed esaudimento, una colmatura immediata di ciò che ci manca. Nello stato di domanda proviamo davvero la consistenza della fede perché, dice Guardini, “la preghiera deve diventare più forte del sentimento” (12), nel senso che Dio va pregato trasfigurando la stessa condizione in cui ci troviamo. Nulla c’è dato nell’immediato. Non che il sentimento sia di ostacolo, esso tuttavia deve arretrare per far emergere pienamente la speranza nell’Altissimo, anche se il cuore sembra dettarci il contrario, e Dio pare non rispondere, non ascoltare, come indifferente alle nostre parole. In realtà in questo possibile silenzio di Dio, per chi si dispone con il cuore puro e non animato da una fede risarcitoria, Dio interviene ed agisce nella sua mutezza, a condizione di voler leggere e capire i suoi segni. Scrive Guardini con grande nitidezza:
Perciò io mi devo immergere nel pensiero dell’eterna e infinita realtà di Dio e convincere che tutto solo per opera di Lui esiste e solo davanti a Lui ha consistenza. Devo riflettere sull’operare di Dio e dirmi che Egli non lavora al modo di un uomo che prende uno strumento e si mette all’opera, ma agisce per mille vie nascoste, attraverso la natura stessa delle cose le quali sono al Suo servizio. Il luogo però dove questa azione immediatamente comincia è il cuore dell’uomo, la sua volontà e il suo amore (13).
Esaminando poi la forma della preghiera di ringraziamento, essa si pone come continuazione e conclusione della preghiera di domanda, ma non nel senso di uno scambio rispetto a qualcosa che ci è stato dato. La logica umana che ci governa sembra voler condurci in questa direzione, ove tutto è misurabile e quantificabile, sottomesso ad un principio di proporzione. Il ringraziamento umano avviene quindi in presenza di una realtà che è visibile e di una successione di atti tra gli uomini che sono numerabili, grandi o piccoli che siano.
La preghiera di ringraziamento cancella questa misura operante nelle cose umane alle quali siamo legati dalla natura sensibile che è in noi. La preghiera di ringraziamento si manifesta anzitutto come superamento di quella pressione sensibile e si palesa nell’apertura al mistero; ciò che abbiamo è misterioso perché proviene da una infinità entro la quale abitiamo come finiti elementi umani. Allora la preghiera di ringraziamento, ricollegandoci al mistero trascendente che ci plasma, è per Guardini vivere in accordo con la volontà di Dio. Il ringraziamento è percepire, sentire e accettare questo accordo:
Per esso accettiamo dalla mano di Dio anche le prove più dure, che sembrano volerci annientare. Non è una cosa facile e non dobbiamo illuderci. Cerchiamo di andare avanti solo fin dove ci portano le nostre forze; esse possono però più di quanto il nostro sentimento immediato crede. Sorretto dalla fede, il ringraziamento potrà innalzarsi a Dio anche nelle ore più buie e nella misura in cui vi riuscirà esse ne verranno trasformate e il peso si farà più lieve (14).
Guardini richiama sovente come il pregare sia un tutto unico nel nostro porci davanti a Dio. Quelle che mutano sono le forme del porgersi e dell’interrogazione al divino, ma non l’essenza dell’atto assolutamente straordinario nel quale l’umanità finita si appella all’infintamente altro da noi. In questo rapporto dimettiamo la nostra volontà e umilmente balbettiamo con le parole del Cristo al Getsemani: “Non come voglio io ma come vuoi Tu” (Mt 26 39). La stessa Trinità ci sollecita ad un modo particolare di pregare; la preghiera a Gesù Cristo, la preghiera al Padre e la preghiera allo Spirito Santo non sono distinguibili, non sono atti separati rivolti a volti diversi. Nell’atto del pregare le tre forme convergono in una sola, poiché il volto del Cristo è il volto del Padre (“quando vediamo Lui, vediamo il Padre”, Gv 14 9, “Nessuno va al Padre se non per mezzo mio”, Gv, 14, 6). La preghiera a Cristo significa “entrare in questo rapporto, imparare a conoscerlo e attuarlo in noi” […], l’orante “chiede a Cristo di amarlo, abitua il suo cuore all’amore che è tanto diverso da quello che la nostra natura chiama amore e procura di farlo diventare una forza della propria esistenza. Egli si colloca nell’azione salvatrice di Cristo e lo prega di rappresentare la sua vita davanti alla giustizia del Padre” (15).
Ma anche la preghiera al Padre passa attraverso il Cristo, mediante il quale il Padre si è rivelato. Non più un Dio astratto ordinatore, ma il Padre che ha dato il Figlio perché nel Figlio e con il Figlio potessimo incontrarlo, cosicché “solo nel rapporto con Cristo la preghiera al Padre raggiunge il vero Padre in cielo” (16).
La preghiera allo Spirito Santo si presenta in forma sottile e complessa poiché lo Spirito Santo si cela, eppure esso conserva e reca in sé il contorni della speranza. Poiché è effusione, Logos spermatikòs, principio che si dissemina, possiamo invocarlo nelle forme canonizzate nella storia della Chiesa, perché risplasmi in noi l’uomo nuovo ad immagine del Cristo. Esso rimodella di nuovo la speranza che altrimenti andrebbe persa nei bui vicoli della storia degli uomini, negli errori e nelle tragedie. Per questo abbiamo bisogno della speranza, ma non di una speranza vuota ed astratta, indeterminata, ma di una speranza che sia vivificatrice forza di comunione e di rinnovamento, una speranza che annunci, come nelle parole dell’Apocalisse, un nuovo cielo e una nuova terra.
Una speranza apocalittica e rivelatrice. Abbiamo quindi bisogno della speranza:
Ma questo evento è nascosto, e quando noi vediamo ed esperimentiamo contraddice al messaggio. Per questo abbiamo bisogno della speranza. Lo Spirito la suscita in noi. Egli è colui stesso che opera quel rinnovamento. Ricreatore del già creato. Egli lavora per il futuro che deve diventare eternità. Così può Egli solo assicurare a noi quel futuro” (17).
Vediamo ora di esaminare, seguendo la riflessione di Romano Guardini, la relazione tra intenzione e parola così come essi si legano nella condizione della preghiera. Va evitato preliminarmente qualsiasi schematismo dicotomizzante e semmai assunta la dimensione della penetrazione dell’una nell’altra. Se la parola è il veicolo che ci mette in comunione con Dio, essa tuttavia non preclude l’esercizio della parola silenziosa, non pronunciata ma avvertita e vissuta, al di là dell’articolazione linguistica. Sebbene l’intenzione non basti a fare preghiera, una preghiera senza intenzione diventa mera formulazione. Per Guardini, “l’animo rettamente disposto alla preghiera saprà trovare anche l’espressione corrispondente e sentita” (18). Viene qui postulata una interazione profonda, sostanzialmente misteriosa e inspiegabile alla mente umana, tra la disposizione interiore e la parola, senza alcun automatismo tra l’una e l’altra, uno stato di simultaneità, proprio della preghiera interiore, ove la parola può anche rimanere inespressa, fermarsi sulla soglia delle labbra, negli antri silenziosi del cuore.
Inserita nel più vasto ambito della preghiera orale, la preghiera individuale abita questa sottile soglia della dicibilità/indicibilità della parola, poiché non abbisogna di nessun codice liturgico entro cui incardinarsi:
Quando un uomo sente la vicinanza di Dio o quando è tribolato e si affida alle mani benigne del Signore della Grazia, le parole vengono da sole ed egli deve solo preoccuparsi che esse rimangano vere (19).
Nel tempo di povertà del cuore, sempre possibile per la fragile natura umana, può tuttavia capitare di avvertire uno stato di difficoltà, un ostacolo nel comunicare con il divino. Questa difficoltà non va forzata, ma assecondata con l’atteggiamento sobrio di chi, nel tempo della povertà, non rinuncia a pregare, pur attraverso sentieri impervi e con rarità delle parole. Dovrà allora Limitarsi all’essenziale. Alle semplici dichiarazioni delle fede, della venerazione, della fiducia, della sottomissione. Questa parola non è peggiore di quella che sgorga con abbondanza, forse persino migliore. In ogni caso essa è ora la giusta e insostituibile (20).
La “scuola della interiore povertà” (21) può divenire allora una risorsa in cui “si impara quello che non può insegnare neppure il più devoto libro di preghiera” (22), a condizione di consultare questo stato, accettarlo e lasciar che da questo si stacchi il senso del nostro pregare. Pregare quindi non solo nel silenzio e col silenzio ma perfino nella difficoltà, nella situazione di ostacolo, disagio, bei confronti del divino. Ed è questa la soglia dell’esicasmo, della preghiera ininterrotta, ove tutto di noi immoliamo come preghiera.
La preghiera ricevuta è quella che invece attingiamo dall’esperienza altrui, da quelle parole che altri hanno pronunciato e che sono diventate universali. Le preghiere dei Santi, le parole dei Salmi che “sono venuti da un cuore orante; non tuttavia, per così dire, da una esperienza privata, ma da un’esperienza in certo modo universale” (23).
Guardini guarda poi alla sfera della preghiera interiore o mentale i cui confini sono prossimi alla meditazione e alla contemplazione e che “aspira al silenzio”(24). In quest’ordine la preghiera abbandona il discorso convergendo in una sintesi tutta interiore ove la parola resta indeclinabile, non abbisogna di una formulazione. Ovviamente le vari fasi della preghiera non devono essere lette come in antitesi l’una all’altra. In realtà tutto è preghiera, allorché l’intenzione precipita nelle forme diverse del manifestarsi.
In questo stato di preghiera il processo cui assistiamo è quello del rarefarsi e di riduzione al semplice e all’essenziale :
Si manifesta la inclinazione di passare dal discorso interiore al silenzio; o addirittura in una posizione che sta ancor prima dell’originaria duplicità del parlare e del tacere. […] Non si tratta di raggiungere una verità teoretica ma una verità che trapassi in realtà. La contemplazione non chiede dunque soltanto “Che cosa è” ma “Come devo diventare, che cosa devo evitare, superare, fare?” (25).
Siamo quindi davanti al rinvenimento e manifestarsi di un terreno precategoriale originario che sta prima della polarità del parlare e del tacere, poiché entrambi abitano sulla sottile soglia ove non è possibile distinguere l’uno dall’altro. La preghiera li attraversa, riscattandoli dall’inerzia del codice linguistico e trasfigurandoli in un altro ordine. Deve avvenire ed avviene, lentamente e talora faticosamente, una conversione, un dislocarsi oltre, che apre nella fragile natura umana, un varco nuovo ed una nuova modulazione dei sensi (26) che, pur restando pienamente umani, subiscono una rigenerazione. Scrive Guardini a proposito dello stato di preghiera così raggiunto:
Con questo si chiede ben altro che di imparare a conoscere realtà e rapporti finora ignorati. Si tratta piuttosto di accogliere una verità che può essere udita solo dalla bocca di Dio e fatta propria con la fede. Colui che sta in ascolto, inoltre, potrà compenetrarsi nella santa realtà che egli qui si rivela solo nella misura in cui egli oserà avvicinarseli e nutrirsi di essa. A questo si oppone la sua volontà particolare e, perciò conoscenza significa nello stesso tempo necessità di conversione; non solo dei costumi ma anche dello sguardo, del giudizio, del senso del vero e del falso, del valore e del non-valore, della sostanza e dell’apparenza. Così lo spirito deve penetrare nelle parole e nelle figure sante, il cuore avvezzarsi a vivere in esse. Solo qui e gradualmente si schiude all’uomo il messaggio divino (27).
Contemplare e pensare si fondono in un atto solo perché la preghiera fa cadere la barriera del pensiero noetico, guadagnando il terreno di una mente naturale capace di ascoltare un senso sempre più profondo che nella storia della preghiera ha dato luogo all’esperienza mistica. Il termine viene talora usato in senso riduttivo, (un indegno abuso, scrive Guardini), come se all’uomo che accedesse a questo stato di preghiera venisse amputata la sua natura umana. Si tratta invece di rispondere ad una chiamata che ci raggiunge su questa terra e che non cancella niente della nostra natura; essa ci invita a purificarci e ad una attenzione particolare al transito incessante del mistero nell’esistenza dell’uomo. L’esperienza mistica è autentica se, scrive Guardini, supera la prova di cui parla Giovanni: “Ogni spirito che confessa che Gesù Cristo è venuto in carne, è da Dio, ma ogni spirito che non confessa Gesù, non è da Dio” (1 Gv, 4, 2-3) (28).
Va sempre tenuto presente che lo stato di preghiera richiede uno sforzo, una tensione, una fatica nel rivolgersi a ciò che è infinito, diverso dalla nostra natura.
La preghiera si trova talora ad agire in quello che Guardini chiama il tempo dell’impossibilità, ove le forze inerziali che operano in noi, emergenti dalla natura materiale, sembrano prendere il sopravvento, ci distraggono, ci confondono, si intromettono. E’ questo il tempo difficile e sempre incombente che minaccia lo stato di preghiera, quando viviamo in aridità, in confusione, in stato di malinconia e frustrazione. Forze immense e prevaricatrici sembrano schiacciarci, talora presentandosi a noi nelle forme di crisi di fede. Per chi supera la prova della preghiera nel tempo dell’impossibilità, emerge chiaramente che ciò che ha reso possibile il superamento delle difficoltà è stato il carattere, più del sentimento. Lungi dal contrapporli, in taluni frangenti il carattere, il perseverare, l’opporsi all’incertezza, il tentare e tentare ancora, diventa risolutivo. Bisogna tenere conto
che la fede stessa dipende dalla preghiera. Non vi è infatti una fede compiuta che poi a piacimento preghi o no; la preghiera, in qualunque forma, è al contrario l’atto più elementare della fede, come il respiro è l’atto immediato della vita. Perciò la pena che ci diamo per credere, il nostro ricercare, pensare e discutere deve in qualche modo diventare preghiera o alla preghiera avvicinarsi. E’ davvero come il respiro: appena qualcosa ha vita, respira e del respiro di nuovo vive (29).
Quando la preghiera non sgorga piena e matura o quando l’uomo è ancora in ricerca di essa, come il non credente che tuttavia sente in lui il muoversi di qualcosa che ancora non si è palesato, incontriamo le forme velate o indirette di preghiera. Esse sono segni assecondando i quali può farsi strada nel tempo una fioritura della preghiera matura. L’interpretazione e lettura dei fatti della vita (la sofferenza, l’incontro con l’altro, la manifestazione artistica) possono essere forme prerivelatrici di una scoperta più grande che maturerà in noi. Queste forme non vanno sottovalutate e sminuite; esse sono spesso feconde vie, seppur ardue ed impervie, per l’approdo ad una preghiera spiritualmente piena.
NOTE
1. R. Guardini, Vorschule des Bretens, Mathias Gruneswald Verlag,, Mainz 1986, trad. it. di Maria Luisa Rossi e Maria Maraschini, Introduzione alla preghera, Morcelliana, Brescia, 1994, d’ora in poi riportata con la sigla IP. Romano Guardini, sacerdote, filosofo e teologo, nacque a Verona, nel 1885 ma fin dall’anno successivo la famiglia si trasferì in Germania ove Romano frequentò le scuole fra cui il Ginnasio umanistico. Frequentò successivamente per due semestri la facoltà di chimica a Tubinga ed economia politica a Monaco e Berlino. Poi gli studi di teologia a Friburgo e la decisione di divenire sacerdote, la cui ordinazione avvenne nel 1910. Ottenne il dottorato con una tesi su Bonaventura. Gli studi sull’autore dell’Itinerarium mentis gli consentirono nel 1922 il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento della Dogmatica. Dal 1923 al 1939 insegnò Filosofia della religione all’Università di Berlino, fino all’allontanamento da parte dei nazisti, ritirandosi a Mooshausen. Con la caduta del regime di Hitler nel 1945 riprese l’insegmamento di Filosofia della religione a Tubinga e successivamente a Monaco. In Baviera fu tra i fondatori della Katholische Akademie. Nel 1952 vinse il Premio alla Pace dei librai tedeschi. La sua attività accademica terminò nel 1962 per sopraggiunti motivi di salute, che gli impedirono anche di partecipare ai lavori del Concilio Vaticano II al quale era stato invitato. Si spense nel 1968. La sua vasta opera filosofica e teologica nonché di predicazione appassionata, si inserisce in un contesto culturale caratterizzato dal disorientamento per la caduta dello Stato prussiano e poi per l’avvento del nazismo. Guardini si sforzò di dare con la sua opera di ricerca un sostegno spirituale e un solido sostegno di vita alle giovani generazioni tedesche che avevano smarrito un punto di riferimento. Tra le sue opere ricordiamo L’Essenza del Cristianesimo, i lavori di ricerca ermeneutica su Pascal, Agostino, Dostojewskij, Holderlin, Rilke, e la monografia Il Signore, ove confluiscono i testi di quattro anni di predicazione alla Messa domenicale per gli studenti universitari.
2. IP, p. 10.
3. Vedasi Teresa d’Avila, in particolare nel suo Il Castello interiore, edizione italiana a cura di Giovanna della Croce, traduzione di Letizia Falzone, Paoline, Milano, 2005 e la ripresa di questo tema da parte di Edith Stein nell’omologo Il castello interiore, in Natura, Persona, Mistica, a cura di Angela Ales Bello, in Città Nuova Editrice, Roma, 1997, pp. 115-147.
4. IP. pp.. 15-16.
5. p. 21.
6. “Dal raccoglimento dipende tutto. Nessuna fatica impiegata a questo scopo è sprecata. E, se anche tutto il tempo destinato alla preghiera trascorresse nel cercarlo, sarebbe bene impiegato, poiché in sostanza il raccoglimento è già preghiera” (IP, p. 23).
7. Citato da Guardini in IP, p. 31.
8. p. 33.
9. p. 63.
10. p. 66.
11. Citato da Guardini in IP, p. 68.
12. p. 76.
13. p. 79.
14. p. 89
15. pp. 99-100.
16. p. 102.
17. p. 107.
18. p. 109.
19. p. 111.
20. p. 111.
21. p. 112.
22. p. 112.
23. p. 113.
24. p. 123.
25. p. 125.
26. Cristina Campo ha parlato a tal proposito di sensi soprannaturali che ci rivelano l’esistenza di una “vita spirituale del corpo”(vedasi il saggio Sensi soprannaturali, in Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987, p. 232 e segg.).
27. IP, cit., p. 126.
28 citato da Guardini in IP, p. 139.
29. pp. 187- 188.
Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore
I linguaggi
della preghiera
Loris Della Pietra
Sia ben lungi dalla preghiera un’eccessiva quantità di parole, ma non venga meno l’abbondanza di suppliche, se perdura una tensione fervida. Parlare molto, infatti, vuol dire, nel caso della preghiera, compiere una cosa necessaria con parole inutili. Pregare molto, invece, è bussare con costante e devota mozione del cuore presso colui che preghiamo.
In effetti questo si fa generalmente più con i lamenti che con i discorsi, con il pianto più che con le parole. Egli d’altra parte pone le nostre lacrime al proprio cospetto; il nostro lamento non è nascosto a colui che fece ogni cosa per mezzo del Verbo e che non cerca parole umane [1].
Definire la preghiera è operazione complessa sia nell’ambito dell’esperienza religiosa in genere, sia nel contesto del cristianesimo, soprattutto perché il momento orante non si lascia esaurire da un’unica definizione che potrebbe essere segnata da influssi culturali o da accentuazioni parziali [2]. Di certo, nel pregare si assiste a un fenomeno singolare per cui l’orante intende mettersi in contatto con l’Altro e l’Altrove e stabilire una comunicazione e un movimento. Siamo dunque nell’ordine del simbolico, per cui vi è una costante dialettica tra il qui e l’oltre, la terra e il cielo, la storia e l’eternità, l’umano e il divino, e dove chi prega si pone in relazione con colui che è pregato e a lui presenta le sue istanze in vista di un benessere globale, di un’autentica salute/salvezza [3].
In quest’ottica, piuttosto che tentare un’astrazione sul concetto di preghiera sembra più proficuo incontrare la preghiera nel terreno della sua manifestazione concreta ponendo particolare attenzione alle modalità “linguistiche” del pregare, ovvero i linguaggi della preghiera, e alle forme peculiari che il soggetto orante abita quando invoca o riconosce la salvezza.
Una rete di linguaggi
È proprio la connotazione simbolica dell’atto del pregare e la sua indole comunicativa a supporre una pluralità di linguaggi che coinvolge tutto l’uomo. La simbolicità è inscritta nella struttura corporea dell’essere umano che permette al soggetto di accedere al mondo e di conoscerlo e di percepire il dentro e il fuori, l’alto e il basso, l’io e il tu, rispetto a se stesso [4]. Sia che si tratti di preghiera comunitaria, sia che si tratti di preghiera individuale, l’orante non è mai ripiegato in se stesso, ma volto verso un Altro: qui si ha la ragione della natura gestuale di ogni atto di preghiera. Nel silenzio adorante, nell’espressione verbale o nelle braccia alzate verso il cielo, colui che prega si sporge oltre se stesso, si estroflette e si protende verso il divino. Piegando il proprio corpo o congiungendo le mani, l’orante disegna lo spazio così da creare un’apertura al divino, una possibilità per l’incontro, una premessa affidabile perché ha la forma del corpo [5]. Nell’atto di pregare il soggetto esce da se stesso e si proietta verso l’origine e il compimento della sua vita dilatandosi oltre i limiti e i condizionamenti della razionalità dove tutto è già conosciuto e frequentato:
Se vi è un legame stretto tra la preghiera e il gesto, è perché la preghiera estende l’uomo verso ciò che non è percepibile né pensabile, verso ciò che può essere posto solo come il gesto che muove verso una terra che non si conosce e non si percepisce ancora. Col gesto, con l’azione l’uomo osa andare verso il mondo che solo dopo essere stato raggiunto può venire percepito e conosciuto. Ed è per questo motivo che la preghiera si avvale spesso di metafore che sono tratte da gesti o, comunque, da fenomeni esterni che implicano il movimento con cui l’uomo si estende a tali fenomeni [6].
In questa prospettiva si comprende la multimedialità della preghiera in quanto azione che interessa la totalità della persona la quale, spingendosi oltre se stessa, si dispone all’incontro. Il corpo, nel quale è scritta la verità della persona, si prepara a ricevere il dono sorprendente della presenza di Dio. A questo proposito, è interessante notare come l’evangelista descriva la diversa gestualità del fariseo e del pubblicano nella celebre parabola (Lc 18,9-14): il primo, stando in piedi, di fatto recita un monologo, mentre il secondo, fermatosi a distanza, non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo e si batte il petto; il primo, pronuncia una preghiera piuttosto lunga e formalmente ineccepibile, mentre il secondo dice una sobria invocazione, aperta al novum di Dio. Due atteggiamenti che rivelano una diversa disponibilità all’incontro e alla relazione.
Se autentica premessa della preghiera è l’affidamento all’agire di Dio che precede e sovrasta ogni pretesa umana, anche la preghiera deve garantire il delicato rapporto tra l’attivazione dei linguaggi e la loro sospensione in modo che la relazione sia data dall’attività (parlare, protendere le mani, muoversi) e la docilità all’agire di Dio sia data dall’inattività (silenzio, moderazione nei gesti e nel movimento). Esemplare, in questo senso, è il guardare: azione più importante di quanto si pensi nella preghiera. La tradizione cristiana conosce la preghiera davanti al Santissimo Sacramento, alla croce e alle icone, preghiera che può avvenire anche senza parole, dove lo sguardo stesso si fa elevazione e non si fissa sull’immagine, ma va oltre puntando al contatto e alla partecipazione. Soltanto chi sa guardare e distogliere lo sguardo può pregare in questo modo pena la riduzione dello sguardo stesso a consumo vorace.
Nell’attivazione dei codici tutto l’uomo è coinvolto nell’incontro con Dio; nella loro sospensione l’uomo si apre all’inedito di Dio, sempre altro e sempre oltre rispetto alle pretese dell’uomo. In ogni parola e in ogni gesto della preghiera si avverte un senso d’incompiutezza: si dice e si agisce, ma è molto di più il non detto e il non fatto perché nell’insufficiente del dire e del fare si dà la possibilità che Dio operi la sua salvezza.
Poiché nella preghiera sono in atto una relazione e una comunicazione, anche la parola della preghiera deve essere colta innanzitutto come linguaggio prima ancora che come contenuto, come significante che precede il significato, come contatto che supera il concetto. È la non verbalità del verbale, il suo accadere, a operare il legame relazionale tra l’orante e il destinatario della preghiera e tra coloro che insieme pregano. Quando l’uomo pronuncia il nome di Dio nella preghiera non è interessato a definire con precisione il significato del termine poiché non si tratta di una parola su Dio, ma instaura un atteggiamento religioso, un’autentica conoscenza che non è procurata dall’acquisizione di dati, ma semmai dallo stare di fronte a Dio, dall’incontrarlo, dal percepire l’emozione nel dire e nell’ascoltare il nome di Dio. Infatti, è una parola rivolta a Dio. Nelle parole su Dio c’è il rischio di costringere le possibilità di Dio e di circoscriverle nelle idee della mente; nelle parole rivolte a Dio è possibile esprimere un desiderio “aperto”, una nostalgia vivibile, una mancanza che può farsi terreno buono per l’accoglienza dell’imponderabile.
«Vox orationis»: le parole della preghiera
Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole: intendi il mio lamento. Sii attento alla voce del mio grido, o mio re e mio Dio, perché a te, Signore, rivolgo la mia preghiera (Sal 5,2-3).
Così prende avvio un’accorata invocazione mattutina del salterio. In essa l’orante esprime il suo anelito nei termini di un appello accorato nel quale l’uomo proferisce «parole» di lamento e il Signore «porge l’orecchio» per raccoglierle e comprenderle, l’uomo chiede attenzione a Dio per la «voce» e il «grido» (vox orationis secondo la Volgata) perché la preghiera a lui è «rivolta». Bocca e orecchie sono convocate per la relazione tra colui che prega e colui che è pregato e la preghiera possiede una voce, necessita di essere gridata e di raggiungere le «orecchie» di Dio.
La «parola» della preghiera è in primo luogo voce e suono che si distende nello spazio e nel tempo e, in quanto atto, trova la sua prima efficacia nel suo risuonare e nella carnalità del suono: è lì, infatti, che avviene l’impatto con l’altro, con lo spazio e con il tempo e la parola non è più rinchiusa nella sfera del privato e del nascosto, ma è ridata all’uomo e a Dio nella sua vitalità [7].
Se è noto che la preghiera nasce dal suono delle parole, è altrettanto noto che, nell’ambito del cristianesimo occidentale, si è radicata una presa di distanza dalla preghiera liturgica e vocale, accompagnata dalle tipiche antinomie tra individuale e collettivo, spontaneo e istituzionale, soggettivo ed oggettivo, dove a prevalere è l’aspetto individuale, interiore e anti-istituzionale. Nell’affermarsi della religio mentis della tarda antichità avviene il passaggio culturale verso una religione “spirituale”, dove l’autentico sacrificio è quello della preghiera, fino a spingersi alla devotio moderna medievale, preoccupata della cura dell’interiorità attraverso il rifugio in se stessi, la lettura spirituale e la sfiducia verso ciò che è esterno e corporeo [8]. Non a caso il movimento liturgico novecentesco opererà allo scopo di affermare la liturgia, in quanto azione divina e umana, interna ed esterna, vissuta nelle modalità simbolico-rituali, come vera «preghiera della Chiesa» [9]: una presa di posizione per certi aspetti troppo unilaterale, ma decisiva e feconda nel tentativo di guadagnare terreno alla vita liturgica e di riproporla come nutrimento spirituale di tutto il popolo di Dio.
Una riscoperta matura della preghiera, non distratta rispetto all’esperienza dell’orante che si pone di fronte a Dio, non può disattendere il valore dell’oralità, del dire le parole della preghiera. In altri termini, si tratta di riconoscere piena cittadinanza alla voce e alla parola nella preghiera interrompendo il fraintendimento per il quale la voce risente della materialità del corpo mentre la preghiera sincera dovrebbe abbandonare ogni appoggio corporeo o materiale. Se la preghiera è in primo luogo pronunciare il Nome, essa è e-vocazione: chiamare presso, condurre alla presenza, riconoscere; pertanto, è bisognosa di voce: «La denominazione degli oggetti non viene dopo il riconoscimento, ma è il riconoscimento stesso» [10]. Nella sintesi tra interno ed esterno, che è la vita spirituale, la parola della preghiera, anche quando cede il passo al silenzio adorante, rifugge ogni censura del corpo e affida proprio al corpo parlante la possibilità di rivelare se stesso e dischiudere la via all’incontro che salva. Non una parola che chiude e definisce, ma una parola che apre e stringe un’alleanza, che permette di vivere e di convivere [11].
È il carattere transitivo della preghiera, il suo essere tensione benefica tra l’uomo a Dio, a esigere una parola detta o taciuta, una parola che viene esplicitata affinché Qualcuno l’ascolti e sia premessa di un mondo nuovo, se è vero che è vincolata al credere e al desiderare ciò che ancora non c’è. E l’atto del dire la preghiera possiede una sua efficacia che le viene dall’inserimento in un quadro rituale le cui regole sono accettate e condivise da chi vi partecipa: è in questo contesto che davvero è possibile e plausibile dire Dio, nominarlo e chiamarlo [12].
L’orante compie un atto di esposizione verso Dio, consegnandosi all’azione della preghiera e allo sguardo di Dio, purché vengano custoditi a un tempo il pudore, che salvaguarda l’eccedenza del mistero divino su ogni umana espressione, e l’audacia («Audemus dicere»!) per pronunciare il Nome senza catturarlo.
Le forme della preghiera
In questo sforzo comunicativo tra l’uomo e Dio è quanto mai importante sottolineare che nella preghiera emerge la funzione linguistica dell’invocativo, modello originario che pone il soggetto di fronte all’Altro per intimargli qualcosa. Qui si dà la parola come atto linguistico del chiedere, del ringraziare, del pentirsi: in altri termini, la parola si conforma e dà forma alle possibilità della fede. Attingendo alla classificazione di John L. Austin la parola della preghiera è un «atto illocutorio», ovvero un azione che si compie nel dire attraverso il ricorso a un verbo che esprime il tipo di operazione (pregare, dire, chiedere). Il tutto entro un «contesto pragmatico» che permetta l’efficacia della preghiera dato da chi proferisce le parole, dalla circostanza in cui vengono dette e dal destinatario della preghiera [13].
Lo studio delle forme illocutorie della preghiera ridona fiducia all’atto stesso della preghiera troppe volte sottoposto a una sorta di verifica in ordine all’efficacia in base alla moralità dell’orante, alla bontà dell’oggetto della preghiera e al rapporto con la vita e la testimonianza. È nell’atto del pregare che l’uomo si pone davanti a Dio e agisce da credente.
Con questa consapevolezza è possibile esaminare rapidamente alcune forme illocutorie della preghiera per coglierne il respiro originario, la spinta primaria, che consente all’uomo di volgersi verso il divino prima di ogni tematizzazione o di ogni ricaduta pratica.
La domanda di grazie
Nello sguardo rivolto al tu che è Dio viene a cadere ogni forma di autonomia. Chi prega lo fa perché ha un bisogno e perché sa che la via d’uscita dai problemi quotidiani, come la salute, il cibo, il lavoro, sta in colui che rimane altro dall’uomo, ma comunque custode dei suoi beni. Come Ester, la quale «presa da un’angoscia mortale», vestita a lutto e coperta di cenere, supplica il Signore: «Vieni in aiuto a me che sono sola e non ho altro soccorso all’infuori di te, perché un grande pericolo mi sovrasta» (Est 4,17l); come Gesù nella preghiera insegnata e consegnata ai suoi: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11). Tale abbandono fiducioso, caricato della forza dell’intercessione, si registra anche nella tradizione ecclesiale come, ad esempio, nella formula litanica introdotta dall’ut: «Ut fructus terrae dare et conservare digneris, te rogamus audi nos». Constatata l’impotenza di fronte alle avversità della vita, il credente, ben consapevole della sua corporeità, osa chiedere ciò che da solo non può produrre. La richiesta di beni immediati come il pane, la guarigione, la pace, il bel tempo, si colloca nella fiducia totale nell’Onnipotente, il quale può dare ogni cosa fino al dono più grande, lo Spirito Santo (cf. Lc 11,13).
Ringraziamento
Rendere grazie è proprio di chi riconosce la manifestazione dell’opera di Dio e, pertanto, la celebra e la esalta. Il Figlio di Dio è modello di chi rende grazie al Padre: «Ti rendo grazie, Padre, Signore del cielo e della terra» (Mt 11,25) e la chiesa fa memoria dell’opera della salvezza in Cristo nella preghiera di rendimento di grazie. Ogni eucaristia, infatti, in quanto lode ecclesiale, è presenza di Dio perché ne vengono proclamate le azioni salvifiche: si tratta di una memoria cultuale della fedeltà di Dio dove la vicenda di salvezza che ha Dio e l’uomo per protagonisti viene narrata. Siamo nella linea delle berakhot giudaiche e delle tante azioni di grazie anticotestamentarie dove la lode del popolo fa riaffiorare l’azione misericordiosa di Dio (cf., tra gli altri, i Sal 100, 106 e 136). Se la preghiera di supplica affonda le sue radici nella crisi e nel particolare, la preghiera di lode e di ringraziamento procede dalla permanenza dell’amore di Dio ed è per questo che riaccende la scintilla dell’alleanza qualora si fosse affievolita. Questa è la ragione per cui nella tradizione liturgica la petitio è sostenuta e motivata dall’anamnesi come si evince dalla struttura della preghiera eucaristica e come si può cogliere anche nelle altre grandi preghiere della tradizione romana, in primis tra queste, le collette della messa. Ogni richiesta, e a maggior ragione l’invocazione di perdono, devono procedere dalla lode narrante, se è vero che la lode è attestazione stupita della differenza tra Dio e l’uomo.
Adorazione
«Entrate: prostràti, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati» (Sal 95,6). Lo stare alla presenza di Dio induce il credente ad atteggiamenti del corpo che indicano sottomissione, dipendenza, rispetto profondo, venerazione, quali il prostrarsi, il genuflettere, l’inchinarsi, il togliersi i sandali (cf. Es 3,5) o il coprirsi il volto (1Re 19,13). Non a caso il tacitare le parole sembra essere la via naturale dell’adorazione: quando ci si “arrende” di fronte alla Presenza e ci si lascia sorprendere dal mistero, ci si rende conto del limite umano e dell’ineffabilità di Dio. L’unica parola che conta è quella non detta. L’adorazione silente avviene quando ogni parola, gesto o azione dichiarano la loro incompetenza e si arrendono di fronte all’epifania di Dio. Adorare significa disporsi ad accogliere colui che si fa presente, colui che è presente pur nella sua indicibilità, colui che si manifesta nella ricerca affannosa dell’uomo. Trovarlo e riconoscerlo, oltre le umane aspettative, è atto di libertà che conduce alla comunione intima con Dio, a un faccia a faccia (cf. Es 33,11) che non squalifica la precarietà dell’uomo, ma la trasforma. Laddove la parola arretra e il concetto è inutile, la preghiera ha la forma del corpo che si piega e del silenzio che ospita.
Richiesta di perdono
Alla stregua della tradizione giudaica (cf. Ne 1,4-11; 9,6-37; Dn 3,26-35), anche nella tradizione cristiana si prega per avere il perdono dei peccati. Una preghiera che è confessione dell’amore di Dio e dell’infedeltà dell’uomo, della superiorità del primo e della piccolezza del secondo. La parola della confessione è «sempre una proclamazione esistenzialmente relazionata della superiorità assoluta dell’Altro, che emerge dal confronto, gioioso e a un tempo sofferto, con la nostra umanità necessariamente permeata di infedeltà e di peccato» [14]. Un testo particolarmente significativo è il Confiteor della messa dove la dichiarazione di peccato, fatta a Dio e ai fratelli, si salda con la richiesta dell’intercessione della Vergine, degli angeli, dei santi e dei fratelli stessi. Nelle preghiere del penitente (Atto di dolore) del Rito della penitenza è marcato l’illocutorio della richiesta: «Perdona tutti i miei peccati», «liberami dai miei peccati», «riconciliami con il Padre», «non guardare ai miei peccati», «abbi pietà di me peccatore» [15], mentre nella prima di queste è evidente l’atto che si compie nel dire il pentimento e il dolore insieme con il proposito di non peccare ulteriormente: «Mio Dio, mi pento e mi dolgo… Propongo con il tuo santo aiuto di non offenderti mai più». Già il riconoscere la propria infedeltà e di provarne dolore è azione che induce un cambiamento nella persona: in questo caso l’azione della parola decide della vita del soggetto.
Una sinfonia di linguaggi
Se nella mentalità comune la parola sembra essere svalutata a favore di una presunta sostanza, del concetto o dell’intenzione, nella preghiera conta il fatto stesso di dire. In essa avviene
un evento nuovo nella misura in cui, in virtù della sua struttura linguistica di dialogo (struttura almeno implicita nel caso della preghiera non verbale), pone l’uomo orante in una relazione effettiva di dipendenza e di fiducia nei confronti di Dio[16].
Ciò che conta è l’estroversione del soggetto, il suo tendere a Dio e l’implicazione dell’esistenza del soggetto nell’esistenza dell’Altro.
È quanto Agostino ricordava a Proba a proposito della preghiera incessante e intensa: essa non si identifica con la quantità delle parole, ma è piuttosto persistente con il compito di mantenere la tensione fervida (fervens intentio) e lo scambio da cuore a cuore; non ha bisogno di espressioni lunghe, ma cerca una sinfonia di linguaggi che consenta l’esposizione di tutto ciò che umano allo sguardo di Dio.
Per questo dire Dio non nell’affermazione, ma nell’invocazione significa ravvivare la fiamma di un dialogo, che per il fatto di essere accesa è già fuoco che riscalda, brucia e purifica.
Nota bibliografica essenziale
Oltre a quanto indicato nelle note, per un’essenziale bibliografia si vedano G. Bonaccorso, Il tempo come segno: vigilanza, testimonianza, silenzio, EDB, Bologna 2004; G. Cavagnoli, Le parole della preghiera, EMP, Padova 2017; A. Grillo, Problematiche attuali della preghiera nei ritmi del tempo, in Liturgia delle ore. Tempo e rito, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1994, 45-88; Id., Tempo e preghiera. Dialoghi e monologhi sul «segreto» della Liturgia delle Ore, EDB, Bologna 2014; F. La Cecla - L. Scaraffia (edd.), Pregare, un’esperienza umana. L’incontro con il divino nelle culture del mondo, Vita e Pensiero, Milano 2015; E. Salmann, La preghiera: monologo e dia-logo come cammino in-a-davanti a Dio, in Id., Presenza di spirito. Il cristianesimo come gesto e pensiero, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 2000, 363-416; A.N. Terrin, Preghiera ed esperienza religiosa. Per una fenomenologia del credere, Cittadella, Assisi (PG) 2014.
NOTE
[1] Agostino d’Ippona, Lettera a Proba. La preghiera, a cura di A. Cacciari, Paoline, Milano 2009, 100.
[2] Cf. E. Bianchi, Preghiera, in G. Barbaglio - G. Bof - S. Dianich (edd.), Teologia, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2002, 1188-1216.
[3] Su questi aspetti cf. le puntualizzazioni di A.N. Terrin, L’istinto della preghiera. Considerazioni antropologiche e storico-religiose, in Id. (ed.), Preghiera e rito, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 2015, 34-42.
[4] Cf. S. Biancu, Il simbolo: una sfida per la filosofia, in S. Biancu - A. Grillo, Il simbolo. Una sfida per la filosofia e per la teologia, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2013, 91-95.
[5] Cf. G. Bonaccorso, L’alleanza tra Dio e l’uomo nei gesti del culto, in Id., Il rito e l’altro. La liturgia come tempo, linguaggio e azione, LEV, Città del Vaticano 2001, 147-165; Id., Il gesto come spazio e azione della liturgia, in Celebrare il mistero di Cristo. III: La celebrazione e i suoi linguaggi, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 2012, 423-444.
[6] G. Bonaccorso, Lode corale ed esperienza dell’intimità orante, in Id., I colori dello spirito. Prova, speranza, preghiera, Cittadella, Assisi 2009, 128.
[7] Per alcune suggestioni su questo aspetto cf. L. Della Pietra, La parola restituita. La ricchezza del linguaggio liturgico, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2017.
[8] Cf. G.G. Stroumsa, La fine del sacrificio, Le mutazioni religiose della tarda antichità, Einaudi, Torino 2006; L. Artuso, Liturgia e spiritualità. Profilo storico, EMP - Abbazia di Santa Giustina, Padova 2002, 77-107.
[9] A questo si riferisce l’opera di L. Beauduin, La piété de l’Église. Principes et faits, Abbaye du Mont-César - Abbaye de Maredsous, Louvain - Denée 1914.
[10] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2005, 248.
[11] Sulla vicenda della parola nell’ambito del dualismo occidentale cf. U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2013, 173-187.
[12] Cf. G. Bonaccorso, La parola nel rito, in Id., Il dono efficace. Rito e sacramento, Cittadella, Assisi 2010, 159-161.
[13] Su questi aspetti cf. A.N. Terrin, Leitourghia. Dimensione fenomenologica e aspetti semiotici, Morcelliana, Brescia 1988, 151-186.
[14] C. Giraudo, Confessare i peccati e confessare il Signore, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2016, 17.
[15] Conferenza Episcopale Italiana, Rito della Penitenza, LEV, Città del Vaticano 1974, 49-50 (si tratta delle formule 6, 7, 8 e 9).
[16] L.-M. Chauvet, Liturgia e preghiera. Elementi di riflessione antropologica, teologica e pastorale, in Id., L’umanità dei sacramenti, Comunità di Bose, Magnano (BI) 2010, 62-63.
Credere Oggi - n°223 gen/feb 2018
E' nella preghiera liturgica che l’incontro del tempo e dell’Eterno, compiutosi nell’incarnazione e nel mistero pasquale del Figlio di Dio, viene reso presente per illuminare e trasformare la vita dei credenti e della Chiesa tutta.
.Afferma il Concilio Vaticano II: “Giustamente la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra” (Costituzione Sacrosanctum Concilium 7). In unione al Verbo fatto carne, sotto l’azione dello Spirito Santo, nella liturgia il credente entra nelle profondità di Dio, reso nuovo dall’amore dei Tre che sono Uno, capace di spendersi con fede, carità e speranza al servizio del prossimo nella comunione della Chiesa.
1. La liturgia, preghiera trinitaria.
Lo specifico della preghiera liturgica è di essere preghiera trinitaria: nello Spirito per il Figlio la comunità che celebra si rivolge al Padre ed è dal Padre per il Figlio che ogni dono perfetto le viene offerto nel Consolatore. Perciò le orazioni liturgiche si concludono con la formula trinitaria, diretta al Padre per Cristo nello Spirito, e invocano dal Padre i doni del Suo amore per mezzo del Figlio nella grazia del Consolatore. Nella preghiera liturgica il cristiano sperimenta la filiazione divina, perché non sta davanti a Dio come un estraneo, ma partecipa alla vita trinitaria nello Spirito, come figlio nel Figlio: “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo, che grida: Abba – Padre!” (Gal 4,6; cf. Rm 8,15). La liturgia rappresenta la porta di ingresso della comunità celebrante nella Trinità divina e di Dio nel cuore di chi prega: in essa “il fragile vaso delle parole umane viene a contenere il diamante infrangibile della divinità” (Pavel A. Florenskij). Alla scuola della liturgia si comprende perché pregare, per il cristiano, non è pregare un Dio, ma pregare in Dio: nello Spirito, per il Figlio la preghiera liturgica va al Padre, da cui, per Cristo nello Spirito, viene offerta agli uomini la partecipazione salvifica alla natura divina.
2. A Te, Dio Padre onnipotente…
La liturgia introduce la comunità e ciascuno dei battezzati in una relazione vivificante con il Padre, che si attua in una duplice direzione: dal Padre agli uomini e dagli uomini al Padre. Dio Padre è la sorgente di ogni dono perfetto (cf. Gc 1,17), colui che prende l’iniziativa dell’amore ed invia il Figlio e lo Spirito Santo. Il Padre è Colui che ama da sempre ed amerà per sempre, né sarà mai stanco di amare. La liturgia è il luogo in cui il singolo e la Chiesa, grazie all’azione dello Spirito Santo, sperimentano l’avvento sempre nuovo dell’amore che proviene dall’eterna Fonte della vita. Perciò la preghiera liturgica è anzitutto accoglienza del Dio vivo, che entra nel cuore della storia: celebrare è lasciarsi amare dal Padre celeste e far spazio al Suo dono nella perseveranza dell’ascolto. In questo senso, vivere la liturgia vuol dire essere raggiunti e trasformati dalla presenza divina: qui si coglie l’importanza dei tempi di silenzio, di ascolto e di raccoglimento nella celebrazione e l’urgenza che ogni parola in essa pronunciata sia sobria, fedele a quelle che la Chiesa ci affida, senza appesantimenti o stravolgimenti arbitrari. Come afferma il Vaticano II, “le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è sacramento di unità, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi” (Sacrosanctum Concilium 26). Il modo di celebrare, perciò, non sia mai stanco, minimalista e poco coinvolgente, ma vivo, preparato con cura, intensamente pregato e tale da invitare tutti alla preghiera, contribuendo così a rigenerare sempre di nuovo la comunità intera. Dall’accoglienza nasce il dono: se tutto viene dal Padre, tutto ritorna a Lui, in un movimento di risposta che relaziona ogni atto a Dio. La preghiera liturgica si presenta, allora, come sacrificio di lode, azione di grazie e di intercessione, in cui il mondo e la vita sono abbracciati per essere orientati sempre di nuovo alla loro origine e alla loro meta: è quanto ci ricorda in particolare la liturgia delle ore, che fa di ogni tempo un’ora di grazia, in cui la salvezza viene accolta per essere condivisa con gli altri. È pregando nella liturgia e a partire da essa che il cristiano impara a vedere tutto nella luce di Dio, a denunciare l’ingiustizia e a servire in parole ed opere la giustizia del Regno che viene. La liturgia pienamente vissuta educa a farsi voce dei senza voce e forma in chi la vive il senso delle cose di Dio, nella cui luce impegnarsi per la verità e il bene al servizio di tutti, specie dei più deboli e bisognosi.
3. Per Cristo, con Cristo ed in Cristo…
Nella liturgia opera il Figlio di Dio, fattosi uomo per noi, Gesù Cristo, sommo Sacerdote della nuova ed eterna alleanza: tutto in essa si compie per Lui, con Lui ed in Lui. Afferma il Concilio Vaticano II: “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, offertosi una volta sulla croce, si offre ancora tramite il ministero dei sacerdoti, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: ‘Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro’ (Mt 18,20)” (Sacrosanctum Concilium 7). Pregare in unione al Figlio e per mezzo di Lui significa entrare nel mistero della Sua condizione filiale di divino Amato, che accoglie l’amore del Padre, per ricevere questo amore in noi stessi, nella Chiesa e nella società. Rendendo presente l’infinita carità del Figlio, fatto uomo per noi, la liturgia suscita l’imitazione di Lui non come copia di un modello lontano, ma come esperienza della Sua vita donata, che coinvolge ogni aspetto del nostro essere, la nostra interiorità più profonda, come la nostra corporeità e le nostre relazioni. Nella liturgia lo Spirito Santo rende presente il Cristo, che insegna ai fedeli ad amare sull’esempio di Lui, che ci ha amato e ha consegnato se stesso per noi (cf. Gal 2,20). Attraverso l’unione al Figlio venuto nella carne, realizzata mediante la liturgia della Parola e l’azione sacramentale, la liturgia educa all’accoglienza degli altri: in essa i molti diventano l’unico Corpo del Signore, nella forza dello Spirito e nella comunione della Chiesa dell’amore!
4. Nell’unità dello Spirito Santo.
Nel seno della Trinità lo Spirito Santo è il legame dell’amore divino: così lo concepisce la teologia occidentale. Fra l’Amante e l’Amato lo Spirito è l’Amore personale, il “vincolo della carità eterna” (Sant’Agostino), che entrando nella storia suscita la comunione degli uomini con Dio e fra di loro. A sua volta, la teologia orientale contempla lo Spirito a partire dalla Croce del Signore, quando Gesù “chinato il capo, consegnò lo Spirito” (Gv 19,30): per essa lo Spirito è Colui grazie al quale Gesù è uscito dal Padre per entrare nella solidarietà dei peccatori, è l’“estasi di Dio”, il dono divino agli uomini affinché questi si aprano gli uni agli altri e al futuro del Dio che viene.
La liturgia insegna a pregare “nell’unità dello Spirito Santo”: la preghiera nello Spirito forma al dialogo e alla comunione e induce a riconoscere l’altro come dono, che non fa concorrenza, né suscita timore. In quanto poi lo Spirito è libertà (cf. 2 Cor. 3, 17), la liturgia apre alla fantasia dell’Eterno e rende docili e sensibili alla profezia. Chi prega nello Spirito sarà aperto al “nuovo” di Dio, perché lo Spirito è sempre vivo e operante nella storia, al servizio del compimento delle promesse divine.
Nella liturgia, l’azione dello Spirito fa sì che fedeltà e novità lungi dall’opporsi si offrano come aspetti della medesima esperienza di fede, in cui il futuro di Dio viene a mettere la sua tenda nel presente degli uomini. La liturgia è in tal senso la sorgente e la scuola della speranza che non delude, come della carità operosa: essa è vertice dell’esistenza redenta, anche se “non esaurisce tutta l’azione della Chiesa” (Sacrosanctum Concilium 9), perché la visibilità della sequela di Gesù nel mondo non è anzitutto la liturgia, ma una comunità che viva la comunione e il servizio. Come nell’esperienza della Trasfigurazione (cf. Mt 17,1-8; Mc 9,2-8 e Lc 9,28-36), la liturgia ci fa salire sul monte ed entrare nell’esperienza del mistero santo, per inviarci poi, scendendo dal monte, a portare a tutti con la parola e la vita il dono di cui siamo divenuti partecipi.
5. Dove Dio ha tempo per l’uomo, perché l’uomo abbia tempo per Dio.
La liturgia è dunque il luogo in cui la Trinità entra nelle umili storie dell’esistenza umana e queste possono essere accolte nel mistero d’amore delle relazioni divine. La liturgia genera e alimenta la vita conforme al Vangelo, dove l’uomo ha tempo per Dio, perché Dio ha avuto tempo per l’uomo: da essa nasce la testimonianza di coloro che – resi nuovi dall’amore – cantano con la vita il cantico nuovo della riconoscenza e della lode. In questa luce si comprende perché la liturgia è culmine e fonte dell’intera vita della Chiesa (cf. Sacrosanctum Concilium 10) e quanto è importante che la celebrazione liturgica sia ben vissuta: a tal fine, invito ogni comunità parrocchiale a costituire un gruppo di animazione liturgica e a formare dei referenti, che non solo curino la celebrazione, ma promuovano anche la comprensione il più possibile ampia e profonda del linguaggio dei segni, di cui la liturgia è tanto ricca. Gli spazi liturgici – altare, ambone, tabernacolo, sede, battistero, confessionale, ecc. – siano tali da favorire l’esercizio del ministero ad essi connesso e ne richiamino l’importanza per la vita dei fedeli. L’Ufficio Diocesano di Pastorale Liturgica offra occasioni di approfondimento e corsi di adeguata formazione al fine di favorire la partecipazione attiva dei fedeli alla preghiera liturgica. Parimenti, si dia la necessaria attenzione al canto liturgico, voce della Chiesa Sposa che celebra lo Sposo, incoraggiando la partecipazione alle iniziative della Scuola diocesana di musica e canto sacro. Si promuova un canto ricco nei contenuti e tale che il maggior numero possibile dei fedeli lo faccia suo, dando voce alla propria fede nella comunità celebrante. L’intero dinamismo trinitario della liturgia, richiamato in queste riflessioni, è riassunto nella preghiera di lode (“dossologia”), cantata a conclusione del canone eucaristico. Concludo perciò questa lettera con le parole che la compongono: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo a Te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen”.
Bruno Forte
Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto
Liturgia come gioco
Romano Guardini
Certe nature gravi e serie, tutte rivolte alla ricerca e alla contemplazione della verità, che in ogni cosa vedono il compito morale e dovunque cercano il fine, incontrano facilmente nella liturgia una difficoltà singolare. La liturgia appare loro facilmente come qualcosa senza scopo, un cumulo superfluo di cose, una realtà inutilmente complicata, artificiosa. Costoro si scandalizzano che la liturgia fissi con tanta minuziosità ciò che si deve compiere prima e ciò che deve avvenire dopo, se a destra o a sinistra, ad alta voce o piano. A che scopo tutto ciò? L'essenziale nella Santa Messa, l’offerta e la consumazione del cibo divino, può essere compiuto così semplicemente: perché tale grande spiegamento di un rituale levitico? Le necessarie consacrazioni potrebbero essere fatte così semplicemente con poche parole, i sacramenti essere amministrati senza complicazioni rituali: a che pro' tutte quelle preghiere e cerimonie? La liturgia può avere per costoro un carattere di gioco e di teatralità.
Questo problema si deve prendere sul serio. Esso non si presenta a tutti; ma non appena affiora, costituisce sempre la rivelazione di un temperamento spirituale inteso all'essenziale.
Esso sembra aver stretta relazione con la questione dello scopo in assoluto. Scopo, in senso proprio, noi denominiamo quel principio d'ordine, per cui cose ed azioni si subordinano le une alle altre, in modo che l’una serva all’altra, l'una si presenti in funzione dell'altra. Ciò ch'è subordinato, il mezzo, ha significato solo in quanto è in grado di servire a ciò ch'è sopraordinato, allo scopo. Chi agisce non si indugia spiritualmente in esso, giacché per lui costituisce solo un passaggio ad altro, via che conduce allo scopo, dove propriamente stanno la mèta ed il riposo. Da questo punto di vista ogni mezzo deve saperci assicurare se e in che limiti è in grado di portarci allo scopo. Questo esame ha per intento di escludere tutto ciò che non appartiene alla cosa, ciò che è marginale, superfluo. Domina qui il principio economico di raggiungere il fine nel modo più perfetto possibile col minore impiego di forza, tempo e materia. Il corrispondente stato d'animo è caratterizzato da una certa febbrilità, da una tensione senza riguardo e da una rigida oggettività.
Questo atteggiamento spirituale è legittimo e necessario nella totalità della vita. Le assicura serietà e salda direzione. Corrisponde anche alla struttura della realtà nella misura in cui ogni cosa in certo modo cade sotto il punto di vista dello scopo. Molti dati di fatto possono essere giustificati quasi totalmente dal punto di vista dello scopo, come ad es. la vita economica ed i processi della tecnica; tutti poi possono esserlo almeno in parte e per qualche riguardo. Nessun fenomeno, però, cade esclusivamente sotto questo concetto; di molti, anzi, solo una piccola parte. Ovvero, per dir meglio: ciò che assicura alle cose, ai processi il diritto dell'esistenza e la giustificazione della loro peculiarità è, per talune, non solamente, per altre, non certo in prima linea, la loro attitudine ad uno scopo. Le foglie ed i fiori hanno uno scopo? Certamente, giacché sono organi delle piante; ma a tale scopo essi non devono assumere proprio quella forma, quel colore, quel profumo determinato. A che scopo pertanto la prodigalità di forme, colori, profumi della natura? A che pro' la molteplicità della specie? Le cose potrebbero andare anche con maggior semplicità. L'intera natura potrebbe essere piena di esseri, la cui riproduzione potrebbe essere ottenuta in una maniera assai più rapida e «funzionale». La indiscriminata applicazione del finalismo alla natura non rimane per nulla immune da contestazioni. E per approfondire maggiormente il problema: quale scopo deve avere in genere l'esistenza di questa o quella pianta, di questo o quell’ animale? Forse quello di servir da nutrimento ad altri? Certo no! Se noi applichiamo soltanto il criterio dell'esteriore funzionalità, troviamo che molte cose della natura sono funzionari solo in parte, e nessuna è utile in tutto e per tutto. Molte cose anzi, alla luce di questo criterio, appaiono senza scopo. In una creazione della tecnica, sia una macchina od un ponte, tutto risponde ad uno scopo: altrettanto in una impresa commerciale, nella burocrazia d'uno Stato; eppure neanche per queste cose il concetto della finalità basta a risolvere tutti i problemi relativi al loro diritto di esistere. Se, pertanto, vogliamo renderci pieno conto della cosa, dobbiamo assumere un angolo visuale più ampio. Il concetto di scopo pone il centro di gravità d'una cosa al di fuori ed al di là di essa; tale concetto la considera quale tramite per un movimento che va oltre e precisamente si dirige alla mèta. ogni cosa, pertanto, è anche - e taluna lo è quasi del tutto - un quid a sé stante, uno scopo a sé, nella misura in cui si può applicare ancora questo concetto in tale più ampia significazione, cui si adatta meglio il concetto di senso. Tali cose non hanno scopo nella stretta accezione della parola; hanno però un senso. E questo senso è mostrato, non dal fatto ch'esse producono fuori di sé un effetto ovvero contribuiscono alla costituzione o alla modificazione di qualcosa d'altro, bensì il loro significato consiste nel loro essere quello che sono. Nella rigorosa accezione dei vocaboli, esse sono senza scopo, ma piene di senso.
Scopo e senso sono i due modi di presentarsi del fatto che una cosa esistente ha motivo e diritto al proprio essere. Dal punto di vista dello scopo, una cosa si inserisce in un ordine che va oltre di essa; nei riguardi del senso, essa riposa in se stessa.
Qual è ora il senso di ciò che è? D'esistere e d'essere un riflesso del Dio infinito. E qual è il senso di ciò che vive? Di vivere, esplicare l'intima essenza propria, di fiorire quale rivelazione naturale del Dio vivente.
Questo non vale solo per la natura, ma anche per vita dello spirito. La scienza ha forse uno scopo nel senso proprio della parola? No. Il pragmatismo vuoi attribuirgliene uno: quello di incitar gli uomini a migliorarsi moralmente. Ma questo significa misconoscere la dignità sovrana della conoscenza. Essa non ha alcuno scopo, ha però un senso, che riposa in se stesso: la verità.
L'attività legislativa di un parlamento ad es. ha uno scopo; essa intende far valere nella vita statale una direttiva nettamente determinata. La scienza del diritto invece non ne ha. mirando solo a conoscere la verità nelle questioni giuridiche.
E così è di ogni autentica scienza, che è, in base alla sua essenza, conoscenza della verità, servizio della verità.
Neppur l’arte ha uno scopo. Si dovrebbe altrimenti pensare che la sua ragione d'essere sia la necessità dell’artista di procurarsi con essa di che nutrirsi e di che vestirsi. Oppure, come pensava l’illuminismo, che Parte sia destinata ad offrire esempi intuitivi della verità di ragione ed a insegnare la virtù. L'opera d'arte non ha scopo, bensì ha un senso, e precisamente quello ut sit, d'essere concretamente, e che in essa l’essenza delle cose, la vita interiore dell’uomo artista ottenga un'espressione sincera e pura. L'opera d'arte deve essere soltanto splendor veritatís.
Quando la vita si sottrae al rigoroso ordine dei fini, allora diventa un gioco di dilettanti. Muore, però, anche quando la si vuoi costringere nella rigida armatura di una dottrina puramente utilitaria. I due elementi si integrano reciprocamente. Lo scopo è il fine dello sforzo, dei lavoro, dell’ordine; il senso è il contenuto dell’esistenza, della vita che fiorisce e matura. I due poli dell'essere pertanto sono: scopo e senso, sforzo e crescita, lavoro e produzione, ordinamento e creazione.
Anche la vita della Chiesa universale si svolge tra queste due direzioni.
Ecco la possente struttura degli scopi nel diritto canonico, nella costituzione e nell'amministrazione della Chiesa. Qui tutto è mezzo ordinato ad un unico scopo, quello di mantenere in efficienza la grande macchina della amministrazione ecclesiastica. Decisivo qui è il criterio, se la istituzione o l’ordinanza considerata risponda alla finalità generale, se essa la raggiunga col minor impegno di forze e tempo. Lo spirito della praticità deve costituire la forza determinante in questa ampia organizzazione del lavoro. La Chiesa, però, ha pure un altro aspetto. La sua vita abbraccia un campo in cui essa rimane libera dallo scopo nel senso proprio della parola. Questo campo è la liturgia. Anche questa certo include un complesso di scopi, i quali costituiscono, per così dire, l'armatura che la sostiene; così i Sacramenti hanno il compito di comunicare determinati doni di grazia. Ma questa comunicazione, presupposte le condizioni richieste, può anche aver luogo in forma assai semplificata. L'amministrazione d'urgenza dei Sacramenti offre l’esempio di una azione liturgica rigidamente limitata al mero suo scopo.
Si può anche affermare che la liturgia, ogni sua azione ed ogni sua preghiera, ha lo scopo di educare religiosamente. E questo è pur vero. Però essa non ha un piano d'educazione preordinato e voluto di proposito. Per comprendere la differenza, si confronti il decorso di una settimana dell’anno ecclesiastico con gli esercizi di S. Ignazio. In questi ultimi tutto è consapevolmente pesato, tutto organizzato allo scopo di raggiungere un determinato effetto pedagogico sulla vita spirituale; ogni esercizio, ogni preghiera, anzi le stesse ore di riposo sono indirizzate allo scopo fondamentale di determinare la conversione della volontà. Non così avviene nella liturgia: è già abbastanza significativo che la liturgia non abbia posto alcuno negli esercizi. Anch'essa vuole formare, ma non attraverso un sistema di influssi educativi calcolato appositamente in vista del fine, bensì creando semplicemente una perfetta atmosfera religiosa in cui l’anima si dispieghi religiosamente. Vi è una differenza simile a quella che passa tra una palestra ginnastica, dove ogni attrezzo, ogni esercizio è calcolato, e l'aperta campagna o la foresta. Là tutto è sviluppo consapevole delle forze, qui tutto è vita naturale, crescita delle intime energie nella natura e con la natura. La liturgia crea un ampio mondo esuberante di.intensa vita spirituale e fa sì che l’anima vi si muova e vi si sviluppi. Questa ricchezza di preghiere, pensieri, azioni; questo intero ordinamento di tempi rimane incomprensibile, se lo si commisura all’unità lineare della funzionalità rigorosamente oggettiva.
La liturgia non ha «scopo», o almeno non può essere ridotta soltanto sotto l'angolo visuale della sola finalità pratica. Essa non è un mezzo impiegato per raggiungere un determinato effetto, bensì - almeno in una certa misura - fine a sé. Essa, secondo le vedute della Chiesa, non è una tappa sulla via che conduce ad una mèta che sta fuori di essa, bensì un mondo di realtà viventi che riposa in se stesso. Questo è l'importante: se lo si trascura, ci si sforza di trovare nella liturgia intenti pedagogici d'ogni specie, che possono in qualche modo esservi introdotti, ma che non vi occupano però un posto essenziale.
La liturgia non può avere «scopo» alcuno anche per questo motivo: perché essa, presa in senso proprio, ha la sua ragione d'essere non nell’uomo, ma in Dio. Nella liturgia l'uomo non guarda a sé, bensì a Dio; verso di Lui è diretto lo sguardo. In essa l'uomo non deve tanto educarsi, quanto contemplare la gloria di Dio. Il senso della liturgia è pertanto questo: che l'anima stia dinanzi a Dio, si effonda dinanzi a Lui, si inserisca nella Sua vita, nel mondo santo delle realtà, verità, misteri, segni divini, e cosi si assicuri la vera e reale vita sua propria. Ci sono due passi molto profondi nella Sacra Scrittura che avviano alla soluzione definitiva di questo problema, per non dire che pronunziano la parola liberatrice. L'uno sta nella visione d'Ezechiele. Questi fiammeggianti Cherubini «andavano dritti dove il vento li spingeva..., né si voltavano nell’andare..., andavano e venivano come la vampa della folgore.... andavano... e stavano... e si alzavano dal suolo ... ; il fruscio delle loro ali assomigliava al murmure di molt'acqua.... e quando si fermavano abbassavano nuovamente le ali ... ». Come sono «senza scopo» codeste creature! Come sono addirittura sconfortanti per uno zelatore della funzionalità raziocinata! Essi sono «soltanto» mero movimento possente e maestoso che si dispiega come lo spirito lo sollecita; che null'altro vuole se non esprimere l'intimo essere dello spirito, rivelasse esteriormente l'intimo fervore e l’impetuosa forza; ecco una viva immagine della liturgia!
E in un altro passo- parla l’Eterna Sapienza e dice: «Io stavo presso di Lui intenta ad ordinare le cose tutte, ed ero tutta compiacenza giorno per giorno, ricreandomi (ludens) in sua presenza ogni momento, ricreandomi sul globo terrestre ... ». Questa è la parola decisiva!
Il Padre eterno si compiace che la Sapienza, il Figlio, la Pienezza assoluta d'ogni verità, dispieghi dinanzi a Lui in una inesprimibile bellezza questo contenuto infinito senza alcuna «mira» - a che dovrebbe Egli «mirare»? -; ma nella pienezza più definitiva del senso, in mera e schietta gioiosità di vita: Egli «gioca» dinanzi a lui.
E questa è la vita degli esseri più elevati, degli Angeli; essi, senza scopo, come lo Spirito li sollecita, si muovono dinanzi a Dio in un senso misterioso, sono dinanzi a Lui un gioco ed un canto vivente.Anche nell’ambito delle cose terrene vi sono due fenomeni che accennano alla stessa tendenza: il gioco del bambino e la creazione dell'artista.
Nel gioco il bambino non si propone di raggiungere nulla, non ha alcuno scopo. Non mira ad altro che ad esplicare le sue forze giovanili, ad espandere la sua vita nella forma disinteressata dei movimenti, delle parole, delle azioni, e con ciò a crescere. a diventar sempre più perfettamente sé stesso. Senza scopo, ma piena di significato profondo è questa giovane vita; e il senso non è altro che questo: che essa si manifesti senza impedimenti nei pensieri, nelle parole, nei movimenti, nelle azioni, si renda padrona dell’essere suo, semplicemente esista. E giacché non mira a nulla di particolare, giacché si dispiega così spontaneamente e senza coercizioni, appunto perciò anche l'espressione riesce armonica, la forma limpida e suggestiva: il suo gesto si tramuta da sé in ritmo ed immagine, in rima, melodia, canto. Questa è gioco: espandersi disinteressato della vita che prende possesso della propria pienezza, e ch'è piena di senso anche nella sua mera esistenza, ed è bella quando la si lascia a sé, quando non vi vengono introdotti intenti riflessi con precettistica mal illuminata pedagogizzante, rendendola in tal modo innaturale.
Coll'avanzare degli anni, si presentano anche le lotte: la vita si sente agitata da conflitti ed odiosa. L'uomo si pone dinanzi agli occhi ciò che egli vuole, ciò che egli deve, e cerca di realizzarlo nella sua vita e nell'essere suo. Ma qui esperimenta quante forze vi contrastino, e constata quanto di rado egli è veramente ciò che dovrebbe e vorrebbe essere.
Questa contraddizione tra ciò ch'egli potrebbe essere e quello chè in realtà, cerca di superarla in un altro ordine di realtà, nel mondo irreale dell'immaginazione, nell’arte. Nell’arte l’uomo cerca di ristabilire l'unità tra ciò che vuole e ciò che ha; tra ciò che dev'essere e ciò che è; tra l’anima ch'è dentro di noi e la natura ch'è fuori di noi; tra il corpo e lo spirito. Tali sono le creazioni dell'arte. Non hanno dunque alcuno scopo istruttivo, non mirano ad insegnare determinate verità o virtù. Nessun artista si è mai proposto questo. Nell’arte l'artista non mira ad altro che a risolvere questa tensione interiore, a dar espressione nel mondo dell'immaginazione a quella vita superiore a cui anela e che nella realtà raggiunge solo approssimativamente. L'artista non vuol altro se non dare una realtà esteriore al suo essere intimo ed al suo anelito, assicurare alla verità interiore forma concreta. Ed anche chi contempla l'opera d'arte non deve proporsi null’altro che di soffermarsi in essa, respirarvi, muoversi liberamente, prendere consapevolezza della parte migliore del suo essere, anelare al compimento della propria brama intima. Non deve perciò riflettervi sopra con mutria critica «raziocinante» o cercarvi dottrina o savi ammonimenti. Ora la liturgia fa qualcosa di ancor più elevato. In essa viene offerta all'uomo l'occasione di realizzare, sostenuto dalla grazia, il senso più singolare e proprio del suo essere, d'essere quale egli dovrebbe e vorrebbe essere in conformità alla sua vocazione divina: un «figlio di Dio». Nella liturgia, dinanzi a Dio, egli deve «allietarsi della sua giovinezza». Questa è certamente una cosa del tutto soprannaturale, corrispondente però, nello stesso tempo alla natura intima dell'uomo. E poiché questa vita è più elevata di quella a cui dà occasione ed espressione la realtà consueta, essa trae forme ed immagini adeguate da quel dominio nel quale soltanto le può trovare, vale a dire nell'arte. Essa parla in ritmi e melodie; si muove con gesti solenni e misurati; si riveste di colori e paludamenti che non appartengono alla vita consueta; si svolge in luoghi e momenti che sono stabiliti ed organizzati secondo leggi superiori. Diventa cosi, in un senso più elevato. una vita filiale e infantile in cui tutto è immagine, ritmo e canto.
Questo pertanto il fatto mirabile che si offre nella liturgia: arte e realtà diventano una unica cosa nella condizione soprannaturale del figlio e fanciullo insieme, sotto lo sguardo di Dio. Ciò che altrimenti è dato solo nel regno dell'irreale, nell'immaginazione artistica, vale a dire le forme dell’arte come espressione della vita umana pienamente consapevole, qui è realtà. Le forme dell'arte diventano la traduzione espressiva di una vita reale, sia pur soprannaturale. E anche questa ha un elemento comune con quella del bambino e dell'artista: è libera da ogni scopo, e perciò appunto piena del senso più profondo. Non è lavoro, ma gioco. Fare un gioco dinanzi a Dio, non creare, ma essere un'opera d'arte, questo costituisce il nucleo più intimo della liturgia. Di qui la sublime combinazione di profonda serietà e di letizia divina che in essa percepiamo. E solo chi sa prendere sul serio Parte ed il gioco può comprendere perché con tanta severità ed accuratezza la liturgia stabilisca in una moltitudine di prescrizioni come debbano essere le parole, i movimenti, i colori, le vesti, gli oggetti di culto.
Hai tu veduto mai con quale serietà i bambini stabiliscono le regole nei loro giochi, in che modo deve svolgersi il loro girotondo, come tutti debbano tenere le mani, che significhi questo bastoncino o quell’albero? Tutto ciò appare sciocco solo a chi non avverte il suo significato o senso e sa vedere la giustificazione d'un atto soltanto negli scopi che se ne possono addurre. E non hai letto mai, oppure direttamente sperimentato, con quale spietata serietà l'artista stia al servizio dell’arte, come egli soffra sotto «la parola» che non si presenta adeguata all’idea, quale padrona esigente sia la forma?
E tutto ciò per qualcosa che non ha scopo! No, l'arte non ha nulla a che fare con gli scopi. Qualcuno crede seriamente che l'artista si assoggetterebbe alle mille emozioni. alla febbre ardente della creazione, se coll'opera sua non mirasse ad altro che a dar ai lettori od agli spettatori un insegnamento che avrebbe potuto esprimere non meno bene in un paio di frasi trovate senza fatica, oppure in qualche esempio tratto dalla storia, ovvero con alcune fotografie ben azzeccate? Certo no! Essere artista significa lottare per esprimere la vita profonda, affinché, espressa che sia, essa possa esistere. E null’altro: ma non è già molto questo? È niente di meno che una imitazione della creatività divina, della quale si dice che abbia fatto le cose ut sint, perché semplicemente esistano.
La stessa cosa fa la liturgia. Anch’essa ha cercato con cura infinita, con tutta la serietà del bambino e la coscienziosità rigorosa del vero artista, di dar espressione in mille forme alla vita dell’anima, vita santa alimentata da Dio, mirando a null'altro se non a che essa vi possa dimorare e vivere. Con severissime leggi essa ha regolato il santo gioco che l'anima svolge dinanzi a Dio. Se vogliamo attingere il nucleo intimo di questo mistero, dobbiamo riconoscere: è lo Spirito Santo, lo Spirito del fervore e della santa disciplina, «che ha potere sulla parola»; è esso che ha regolato il gioco, che la eterna Saggezza dispiega dinanzi al Padre celeste nella Chiesa, il suo regno sulla terra. «E la sua delizia», pertanto, «sta nell’essere tra i figli degli uomini».
Può comprendere la liturgia solo chi non si scandalizza di questo, come ha fatto innanzitutto ogni razionalismo. Agire liturgicamente significa diventare, col sostegno della grazia, sotto la guida della Chiesa, vivente opera d'arte dinanzi a Dio, con nessun altro scopo se non d'essere e vivere proprio sotto lo sguardo di Dio; significa compiere la parola del Signore e «diventare come bambini»; rinunciando, una volta per sempre, ad essere adulti che vogliono agire sempre con finalità determinate per decidersi a giocare, come faceva Davide quando danzava dinanzi all'Arca dell'alleanza. Può certo avvenire che persone troppo assennate, le quali, con la piena maturità, hanno perduto la libertà e la freschezza dello spirito, non lo comprendano e ne facciano argomento di scherno. Ma anche Davide dovette sopportare che Michol ridesse di lui. Il compito, pertanto, della educazione liturgica comprende anche questo aspetto: l’anima deve apprendere a non vedere dovunque scopi, a non essere troppo sensibile ai motivi utilitari, troppo prudente, troppo «adulta», bensì deve sapere anche vivere semplicemente. Essa deve apprendere a liberarsi almeno nella preghiera dalla irrequietudine dell’attività utilitaria, imparare ad essere prodiga di tempo per Dio; deve trovar parole e pensieri e gesti per il santo gioco, senza domandarsi ad ogni momento: a che scopo e perché? Non voler far sempre qualche cosa, raggiungere qualche cosa, qualcosa produrre od ottenere di utile, bensì apprendere a fare in libertà, bellezza, santa letizia dinanzi a Dio il gioco da Lui regolato della liturgia.
Da ultimo, anche la vita eterna non sarà che il compimento di questo gioco. E chi non comprende questo, potrà afferrare poi che il compimento celeste della nostra vita è «un cantico eterno di lode»? Non finirà costui per rientrare nella categoria delle persone attive, che trovano inutile e noiosa tale eternità?
La missione “Ad Gentes” in Dom Adrien Gréa e la comunità CRIC in Brasile
"Dans les pays de mission, on ne fait pas le principal, même quand les missions sont fleurissantes, si la vie hiérarchique ne s'organise pas avec les indigènes. Il y a entre la mission et une église constituée la différence d'une fleur parfois magnifique et mise dans un vase avec la fleur moins brillante, peut-être, mais enracinée... Il faut faire un clergé indigène régulier et hiérarchique, mais pas avec la méthode sulpicienne, car avant de faire un Monsieur de St. Sulpice, il faut commencer par faire un européen... Ne cherchez pas à faire des Européens. C'est vous qui, comme St. Paul, devez vous faire Chinois, Japonais, "Omnia Omnibus". Mangez comme eux du riz à l'huile de ricin ou des boulettes de farine comme les Arabes. Construisez des maisons comme le leurs. Est-ce que St. Paul, St. Denys ont cherché à implanter la civilisation romaine chez leur peuples? St. Martin et d'autres sont plutôt devenus moins barbares que séculiers européens. Non, ne l'amenez pas en Europe votre nègre intelligent qui va y mourir poitrinaire. Gardez-le trente ans dans la vie monastique ou canoniale, dans la pratique des observances régulières et à l'abri de la vie commune. Et après cela, ordonnez-le prêtre en le laissant religieux. Multipliez l'opération et vous aurez un vrai clergé".
Dalla Lettera del 30.6.1903 di Dom Gréa all'amico M. Delpech; citazione di P. BROUTIN, L'Idée de Dom Gréa, in NRT 4(1939) 478-479.
Nei paesi di missione, Dom Gréa suggerisce di fare la “cosa principale”: organizzare la vita gerarchica con i propri indigeni. La missione può essere fiorente, ma se non si preoccupa di dare vita ad un clero locale, ad una chiesa locale può correre il pericolo di diventare una imposizione culturale, importata da fuori. Peggio, trattandosi di congregazioni, può essere una nuova “tratta di schiavi” in vesti moderne, ma non meno colpevoli. Andare in missione per “riempire” i conventi vuoti dell’Europa non è senz’altro compiere il comandamento del Signore: “andate ed annunciate a tutti i popoli la Buona Novella”.
Dom Gréa usa un’altra analogia, fantastica e delicatissima: “Tra la missione e una chiesa costituita c’è la differenza di un fiore forse magnifico, collocato in un vaso con un fiore meno appariscente, forse, ma radicato…” Quanto è vera questa verità e come valorizza la “verità” locale della missione: un fiore che abbia le sue radici ha più vita, più senso, più dignità che un fiore sradicato e trapiantato fuori dal suo humus.
“Bisogna fare un clero indigeno regolare e gerarchico, ma non secondo il metodo sulpiciano, perché prima di fare un Monsignore di St. Sulpice, bisogna iniziare a fare un europeo… Non cercate di fare degli europei… Nel 1903 Dom Gréa ebbe il coraggio di scrivere questo, in piena epoca in cui molte congregazioni religiose europee si lanciarono alla missione, senza dubbio motivate da fini nobilissimi (annunciare il vangelo) ma, purtroppo, ancorate alla zavorra ideologica e culturale di “esportazione” delle forme e dei modelli della cristianità europea.
Basta vedere un po’ più da vicino la storia di tante congregazioni per constare l’“insuccesso” del metodo del cristianesimo esportato. Lo stesso vale per i proprio figli di Dom Gréa: quanti nostri padri francesi si “immolarono” nelle missioni del Canada e del Peru; ma viene spontanea la domanda: si preoccuparono di far nascere un clero locale? Certamente si preoccuparono, ma forse, proponendo modelli culturali europei. Evidentemente, i frutti non furono quelli sperati.
Ed è il rischio che corriamo tutt’oggi. Continuiamo la lettura di Dom Gréa.
Dovete essere voi, come S. Paolo, che vi dovete fare Cinesi, Giapponesi, “Omnia Omnibus”. Mangiate come loro del riso all’olio di ricino o delle palline di farina come gli Arabi. Costruite case come le loro. Forse che S. Paolo e St. Denys hanno cercato di impiantare la civilizzazione romana presso i loro popoli? S. Martino e altri sono divenuti meno barbari piuttosto che secolari europei.
Ecco ciò che oggi teologi, missionari, Magistero della Chiesa chiamano “inculturazione”: il missionario scopre nella cultura locale, sotto forme proprie, lo stesso Vangelo. Quindi non si tratta di convincere l’africano a farsi la casetta all’italiana e nemmeno di fare cantare all’indio dell’Amazzonia l’Adeste Fideles il giorno di Natale. Non si discute la bellezza del canto gregoriano, si obietta la pretesa di volerlo come unica forma del canto liturgico in ogni parte del mondo.
Qualcuno potrà dirmi che tutto questo è pacificamente superato, già che il Concilio Vaticano II riportò la liturgia alle lingue autoctone. E’ vero, ma solo in parte. Se passiamo al campo della morale, del governo, dentro la Chiesa, come siamo lontani da una vera inculturazione. Una cosa è scimmiottare un Vangelo cantato alla moda gregoriana e così altre parti della messa, altro è esprimere, celebrare lo stesso mistero della fede nella cultura propria del luogo… Celebrare non è indulgere alla teatralità, ma fare “anamnesi” del Signore Gesù.
Direi che è imperativo celebrare insieme, non solo ripetere gesti, è imperativo “far parlare” i simboli da se stessi e abbandonare la mania di “spiegarli”. Simbolo spiegato, oppure simbolo che non dice più niente, non serve a nessuno.
Ho ancora la chiara sensazione che anche qui in missione si stia “impiantando la civilizzazione romana”. Perciò il nostro sforzo di entrare nella mentalità di questa gente, di dire la vita con le loro parole e di celebrarla con i loro riti e miti. La propria Parola di Dio, il suo stesso Verbo, non hanno potuto fare a meno della mediazione umana e di un popolo tra i tanti su questa terra.
“No, non portate in Europa il vostro negro intelligente, perché vi morirebbe pancione. Tenetelo trenta anni nella vita monastica o canonicale, nella pratica delle osservanze regolari e al riparo della vita comune. E dopo sì, ordinatelo sacerdote, lasciandolo religioso. Moltiplicate l’operazione e avrete un vero clero.”
Ecco perché abbiamo preferito tenere i nostri seminaristi qui in Brasile. Senz’altro non hanno le famose e dotte università pontificie romane in cui studiare. Non hanno le risorse di cui dispongono i loro fratelli in Europa. Addirittura, i nostri lavoravano la terra, mungevano le mucche, ecc... Certamente non è questa particolarità che li ha resi più o meno degni, preparati o no, più bravi o meno bravi. Se vogliono essere un giorno sacerdoti “con” questa gente, non possono dimenticare la vita della gente, una vita molto più vulnerabile da una parte e, dall’altra, molto ricca di fede.
Nelle situazioni attuali è ancora visibile la ricerca del seminario come “status” di vita più che sequela di una vocazione. Questo fa emergere che, dopo tutto, il seminario è ancora un luogo di fate, dove la vita è garantita, lo studio è gratuito, ecc. Perciò abbiamo cercato di far capire ai nostri seminaristi di tenere i piedi per terra e non dimenticare le loro radici. Così come noi missionari europei, faremmo un grande sbaglio a dimenticare le nostre radici: sarebbe l’altra faccia della medaglia dell’esportazione di un modello culturale di Vangelo. Con la sana volontà di “svuotarsi”, possiamo perdere il vero senso di una “kenosis”, intesa come assenza di orgoglio e mania di potere, cioè, vissuta come servizio e donazione. Ogni cultura ha molto da offrire. E l’integrazione reciproca evita l’orrore dell’attuale e voluto “scontro di culture”. Senza dimenticare la globalizzazione, con tutte le sue ambiguità: globalizzare lo sfruttamento della povertà concentrando la ricchezza nelle mani di pochi. Il Vangelo è radicale, non scende a facili compromessi di interesse individuale.
La missione vuole che comprendiamo il ritmo di questa gente, che possiamo camminare con lei, insieme. Ogni popolo e cultura ha pregi e difetti. Quindi non si vuol demonizzare né ostentare santità impossibili, ancor meno perdere tempo in diatribe sterili, proprie di chi ritiene “unico e assoluto” il “suo” modo di vivere o di interpretare il Vangelo.
Ciò che mi dà gioia è constatare che il pensiero di Dom Gréa a rispetto della missione lo ritroviamo nella bellissima Evangelii Nuntiandi di Paolo VI. Pensiamo ai Bartolomeo de las Casas, ai Montesinos, ai José de Anchieta, veri apostoli latinoamericani; gira e rigira non ci vuole molto per capire la missionarietà della Chiesa: basta avere l’umiltà di aprire gli occhi. E ci sono ancor oggi i Tomás Ortis alleati ai Pizzarro che usano l’ideologia religiosa per imporre, ipocritamente, il dominio sui più poveri.
Alla nostra comunità CRIC qui in Brasile resta ancora molto cammino da fare. Non sono mancati i peccati di non testimonianza di amore fraterno, come del resto ci ha unito e ci unisce tutt’ora il desiderio di vivere l’ideale canonicale propostoci da Dom Gréa. E’ evidente che il nostro ritmo di qui sia differente, lo stesso modo di pregare, di vivere la pastorale nelle nostre comunità ecclesiali. Lo stesso Dom Gréa, non giustificava forme fine a se stesse per alleggerire le norme di vita nelle comunità canadesi, ma come buon padre, saggio, permetteva, perché capiva, il modo di vita e di testimonianza dei suoi missionari, mitigando alcune regole. Lo stesso vale per noi qui in Brasile.
C’è chi ha interpretato la nostra presenza CRIC in Brasile come una disobbedienza, come una velleità personale del sottoscritto e di coloro che hanno condiviso questa scelta. Ciò che gli altri pensano ci interessa, ma non può condizionare il nostro sogno: fondare una comunità CRIC in Brasile. Perché è di questo che si tratta. Non siamo venuti in mezzo ai poveri esclusivamente per “rifocillarci” di vocazioni, solo per far fronte alla carenza vocazionale europea. Ci interessa far nascere dei CRIC brasiliani, come altri Canonici Regolari hanno già fatto, per esempio, i Lateranensi.
Siamo qui in missione, per lasciarci evangelizzare dai poveri, la cui vita denuncia la disumanità di una ideologia economica imposta ai paesi in via di sviluppo. E’ terribile notare come vengono sacrificate tantissime vite umane per causa del dio denaro, della bramosia dell’avere, del concentrare ricchezza. Evidentemente la chiesa vissuta dai poveri ha il suo impatto su di noi, tradotto poi in termini di ricerca del necessario e abbandono del superfluo, di maggior semplicità e autenticità. Il che non vuol dire fare i pezzenti o non curarsi anche dei luoghi di culto. In tutto ci deve essere dignità, segni efficaci, direi, mistagogia, del Regno di Dio.
Come figli di Dom Gréa amiamo la liturgia, anche qui intesa non come una anacronistica ostentazione di riti del passato, bensì come espressione di una delle caratteristiche fondamentali della persona umana: la celebrazione, la capacità di cantare la vita, richiamando sempre il mistero pasquale come centro della nostra esistenza. Non importa se si celebra in una basilica o sotto un albero: questi sono mezzi. Il fine è celebrare la gloria di Dio. Sant’Ignazio di Antiochia ci ricorda che questa gloria di Dio è la persona vivente, cioè ogni essere umano. Il vangelo di Giovanni ci dice che il tempio, con Gesù, è la persona umana: è questa la vera casa dell’Altissimo. A volte sono celebrazioni con grandi moltitudini, a volte con gruppi piccolissimi. E’ necessario portare l’Annuncio a tutti, celebrando, vivendo con le persone, condividendo i loro momenti, sia tristi che gioiosi. La frazione del pane, l’eucarestia, non può ridursi a mera azione simbolica; deve essere fonte della condivisione reale e concreta, altrimenti, sì, corriamo il grave pericolo di ripetere solo dei riti che oggi non avrebbero più niente da dire all’uomo contemporaneo.
Desideriamo che la nostra comunità CRIC in Brasile non perda il suo aspetto locale, come lo pensava Dom Gréa: una casa maggiore, centrale, la casa di tutti, e all’intorno i piccoli priorati, piccole comunità dedicate al ministero e traducendo in pratica la vita fraterna nelle sue forme più differenti.
Dom Gréa parlava di digiuni e astinenze, ma mai come fine a se stesse. Se oggi lui vivesse qui in mezzo a noi non avrebbe difficoltà a riconoscere ed accettare che tutte queste pratiche sono forme della condivisione: digiunare per condividere l’alimento con chi non ne ha; praticare l’elemosina non come atto liberatorio del nostro superfluo, ma come segno concreto di fraternità, di vera compassione con i nostri simili esclusi dalla società, dal convivio, dal gioire del creato.
E poi la preghiera, tanto personale come comunitaria, è espressione di comunione di intenti, di reciproco affetto tra noi, di sintonia col mistero pasquale di Gesù che si prolunga nelle comunità cristiane.
Infine una domanda: noi CRIC viviamo tutto questo? No, ma ci proviamo, ogni giorno, coscienti che la bontà del Signore non si misura in base ai nostri meriti; piuttosto Lui la riversa su di noi per la sua infinita misericordia.
A nome della comunità brasiliana, confratelli e laici, uomini e donne, il nostro caro saluto e grazie a quanti ci amano e ci hanno amato e sostenuto in tutti questi 32 anni di presenza CRIC in Brasile.
p. Tino Treccani – cric
Brazabrantes, 28 febbraio 2016.