“ Se guardassi uno specchio e non ci vedessi la mia faccia proverei lo stesso tipo di sensazione che ora mi prende quando guardo questo mondo vivo, affaccendato, e non vi trovo alcun riflesso del suo creatore.. Se non fosse per questa voce che parla così chiaramente nella mia coscienza e nel mio cuore, quando guardo il mondo io diventerei ateo.. e sono ben lontano dal negare la forza reale degli argomenti dell’esistenza di Dio tratti dall’osservazione sulla società umana in generale e sul corso della storia; ma questi non mi riscaldano, non mi illuminano; non tolgono l’inverno della mia desolazione, non fanno germogliare le foglie nel mio cuore e non rallegrano il mio spirito
Card Newman
( Apologia pro vita sua,cit pp381-382)
Il cristiano è sollecitato così come da tutta la Scrittura, a imitare Dio, il mondo e le sue realtà sono un ostacolo alla sua "divinizzazione", alla sua santità, per il cristiano che vive secondo lo Spirito Amore, il mondo e le sue realtà sono la condizione stessa per divinizzarsi, per entrare per ciò che gli compete, nel disegno e nell'economia della salvezza dell'umanità e del mondo. Così come non v'è salvezza del mondo senza l'opera dell'uomo che lo conduce a perfezione, il cristiano non si salva senza il mondo, poichè è chiamato a santificarlo finchè "Dio sia tutto in tutti", Il mondo è il luogo e il mezzo grazie al quale il cristiano " guidato dallo Spirito" raggiunge la sua santità e il suo essere e vivere nell'Amore"
Padre Lorenzo Rossi
...Sarà la riscoperta del bello che aiuterà ad incontrare il Tutto nel frammento: «la via della bellezza» non va concepita a guisa di una formula totalizzante, ma come metafora di un cammino possibile e fecondo per restituire ai frammenti un orizzonte di senso e cogliere nella Verità ultima e sovrana la vera sorgente della dignità del frammento. Occorre aprirsi a una sorta di ritrovata «filocalía», di un senso del bello, cioè, che sia educato all’amore della Bellezza che salva, offerta nella Rivelazione. Solo il riconoscimento dell’offrirsi dell’infinito nel finito, della lontananza nella prossimità, solo la comprensione estetica della verità e del bene, potrà essere in grado di parlare efficacemente al mondo umano, «troppo umano», che è il nostro mondo post-moderno. Esso non ha bisogno di prove di forza, dopo le tante offerte dall’ ideologia. Esso non ha neanche bisogno di rinunce deboli, di sterili riflussi nel privato. Ciò di cui abbiamo tutti bisogno è l’offerta dell’eternità nel tempo, dell’onnipotenza nella prossimità dell’amore capace di misericordia e di compassione. Il volto della verità e del bene che più può attrarre a sé è quello della bellezza umile del Crocifisso amore.."
( da I nomi del bello e il mistero di Dio; Bruno Forte)
Vita..Ri-co-nascenza!
L'uomo è chiamato a nascere, venire alla luce, venire al mondo, per tutta la vita.
In ogni ambito, ciascuno nel suo, vivere è creare condizioni di co-nascenza. Solo così smettiamo di oscillare tra voler occupare tutta la scena e voler toglierci di scena, per paura di non esistere abbastanza, e ci apriamo all'unica forma felice di vita, quella che ci permette di nascere fino alla morte: la ri-co-nascenza.
Alessandro D'Avenia
Quel ch’è vero smuove la pietra dal tuo sepolcro
"Quel ch’è vero non sparge sabbia nei tuoi occhi,
per quel ch’è vero morte e sonno con te si scuseranno, come incarnato, saggio per ogni dolore,
quel ch’è vero smuove la pietra dal tuo sepolcro.
Quel ch’è vero, caduto ormai, slavato
seme o già foglia, nel letto malsano della lingua,
un anno e un anno ancora ed ogni anno –
quel ch’è vero non crea tempo, lo salva.
Quel ch’è vero nel muro apre le crepe.
Vegli e nel buio vai scrutando intorno,
a ignota via d’uscita tu sei volto."
Ingeborg Bachmann
"Perché la poesia è l’unica parola che risiede naturalmente nella realtà,
l’unica di cui la realtà si fidi veramente."
Daniele Mencarelli ( scrittore)
La vita regna definitivamente
di Enzo Bianchi
O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, tu non sei più l’ultima parola per gli uomini, ma sei diventata un passaggio, l’ora dell’esodo dalla vita terrena alla vita eterna, da questo mondo al regno di Dio …
Questo dovrebbe essere il canto del cristiano in questo giorno della Pasqua, festa delle feste, perché Cristo è risorto quale primizia di tutti noi, perché la vita regna definitivamente e in ogni creatura è iniziato un processo segreto ma reale di redenzione, di trasfigurazione.
La morte è una dominante su tutti gli uomini, una vera potenza efficace: non solo perché desta paura e angoscia contraddicendo la vita degli uomini, ma anche perché a causa di essa gli uomini diventano cattivi e peccano. Il peccato è sempre egoismo, è sempre contraddizione alla comunione con gli uomini e con Dio, ed è proprio la presenza della morte che scatena questo bisogno di salvarsi, di vivere addirittura senza gli altri o contro gli altri. La morte non è solo «salario del peccato» (Rm 6,23), ma anche istigazione al peccato … Se gli uomini sono spinti a peccare è a causa dell’angoscia della morte, di quella paura che rende gli uomini schiavi per tutta la loro vita (cf. Eb 2,14-15). A causa dell’angoscia e della paura la brama di vita degli uomini diventa odio, misconoscimento dell’altro, concorrenza, rivalità, sopraffazione. L’angoscia può sfigurare tutto, anche l’amore. Così la morte appare essere attiva e presente non solo nel momento dello spegnimento della vita fisica del corpo umano, ma anche prima: essa è una potenza che compie incursioni nella sfera dell’esistenza e attenta alla pienezza delle relazioni e della vita.
Questa è la morte contro la quale Gesù ha lottato fino a riportare la vittoria. L’agonía iniziata da Gesù nell’orto degli Ulivi (Lc 22,44) è una lotta (agón) che si è conclusa con la discesa agli inferi, quando ha sconfitto il diavolo – e dunque la morte e il peccato – in modo definitivo. E Gesù non ha vinto solo la sua morte, ma la Morte: «Con la morte ha vinto la morte», canta oggi la liturgia! Ora, questa dimensione di lotta è essenziale per il cristiano: tutta la vita è lotta, è una guerra contro la morte che ci abita e contro gli istinti e le pulsioni di morte che ci attraggono.
La resurrezione di Gesù è dunque il sigillo posto dal Padre sulla lotta del Figlio, sul suo agón: questi, mostrando di avere una ragione per morire (dare la vita per gli altri), ha mostrato che c’è una ragione per vivere (amare, dimorare nella comunione). Allora il Padre lo ha richiamato dai morti facendolo Signore per sempre.
Gli uomini tutti, anche se non conoscono Dio e neppure il suo disegno, portano nel loro cuore il senso dell’eternità e tutti si domandano: «Che cosa possiamo sperare?» Essi sanno che, se restano insensibili alla resurrezione, si vietano di conoscere «il senso del senso» della loro vita. Gli uomini attendono, cercano a fatica, e a volte per cammini sbagliati, la buona notizia della vita più forte della morte, dell’amore più forte dell’odio e della violenza. Cristo, risorto e vivente per sempre, è la risposta vera che attende dai cristiani quella narrazione autentica che solo chi ha fatto l’esperienza del Vivente può dare. Dove sono questi cristiani? Sì, oggi ci sono ancora cristiani capaci di questo: ci sono nuovamente martiri cristiani, ci sono nuovamente profeti cristiani, ci sono testimoni che non arrossiscono mai del Vangelo. Ancora una volta giunge dalla tomba vuota, oggi come quel mattino della resurrezione, l’annuncio: «Non temete, non abbiate paura, non siate nell’angoscia! Il Crocifisso è risorto e vi precede!» Sì, è ormai vicina per la chiesa una primavera, una stagione in cui lo Spirito del Risorto si farà presente più che mai, una stagione in cui la Parola di Dio sarà meno rara.
E sarà una stagione senza fughe, né evasioni, né spiritualismi, ma segnata dal vivere la risurrezione nell’esistenza, nella storia, nell’oggi, in modo che la fede pasquale diventi efficace già ora e qui. Cosa significa questo secondo i Vangeli? Che i credenti devono mostrare nella compagnia degli uomini la risurrezione, devono narrare agli uomini che la vita è più forte della morte, e devono farlo nel costruire comunità in cui si passa dall’io al noi, nel perdonare senza chiedere reciprocità, nella gioia profonda che permane anche nelle situazioni di pressura, nella compassione per ogni creatura, soprattutto per gli ultimi, i sofferenti, nella giustizia che porta a operare la liberazione dalle situazioni di morte in cui giacciono tanti uomini, nell’accettare di spendere la propria vita per gli altri, nel rinunciare ad affermare se stessi senza gli altri o contro di essi, nel dare la vita liberamente e per amore, fino a pregare per gli stessi assassini.
Perché il cuore della fede cristiana sta proprio in questo: credere l’incredibile, amare chi non è amabile, sperare contro ogni speranza. Sì, fede, speranza e carità sono possibili solo se si crede alla risurrezione. Allora, davvero l’ultima nostra parola non sarà la morte né l’inferno, ma la vittoria sulla morte e sull’inferno. La Pasqua apre per tutti l’orizzonte della vita eterna: che questa Pasqua sia Pasqua di speranza per tutti. Veramente per tutti!
Rinascere
Alessandro D'Avenia
Il giorno di pasquetta mi chiedevo se la resurrezione celebrata il giorno prima riguardasse anche me, deluso da un bel maglione ricevuto a Natale che mostrava già i primi pallini. Tutte le cose umane, prima o poi, vanno “a pallini”. Eppure anche se nulla riesce a soddisfarci, continuiamo a cercare, ascoltando l’infinito richiamo che ci mette in moto: il desiderio. Il proprio del desiderio è infatti non aver nulla di proprio, perché vuole l’infinito e mai sarà colmato da un qualche finito o dalla somma di tantissimi finiti: l’infinito vuole l’infinito. Il desiderio, mancanza che rende inquieti, è però ciò che rende inesauribile ogni aspetto della realtà, ma purtroppo una cultura che ripete “la vita fa schifo, non ci pensare, divertititi e consuma” (a immagini del creato in rovina segue la pubblicità di un prodotto superfluo, a quelle di povertà seguono piatti stellati a costi stellari) anestetizza il desiderio e quindi la gioia. Il calo del desiderio erotico nella nostra società ne è un esempio: se l’altro esiste come oggetto finito di consumo e non soggetto d’amore infinito, il cuore si pietrifica. Il prezzo dell’erosione del desiderio è altissimo, perché solo la sua insopprimibile pretesa di infinito rende la vita una gioia, spingendoci a: scoprire e creare il nuovo, uscire da sé per amare, mettersi in relazione con gli altri e il mondo. Tutto il contrario dell’illusione egocentrica che “finisce” tutto e tutti, e poi “sfinisce” noi. Come si fa allora a risorgere anche con il corpo, come si narra di Cristo?
Risvegliando il desiderio attraverso la bellezza. Desiderio e bellezza appartengono allo stesso ordine di realtà, che precede ragionamenti e quindi possibili inganni. La bellezza è semplice: immerge il corpo in un mondo nuovo, a cui sentiamo di voler appartenere e collaborare.
E così quel lunedì di Pasqua, camminando nel bosco, sono arrivato in una valle incastonata tra i monti a circa duemila metri, mi sono coricato su un prato lasciato da poco dalla neve che, rimasta solo negli anfratti e sulle cime, aveva forgiato attorno a noi una corona di ghiaccio. I crochi, fiori delle altitudini, aprivano infinite iridi bianche e viola nell’erba muta e ingrigita dal peso dei mesi invernali: corolle più modeste di quelle delle stesse fioriture in maggio e giugno, ma non meno belle in quanto sentinelle intrepide al primo risveglio. Gli alberi del bosco, pini, abeti, larici, erano immersi in un silenzio diverso da quello invernale, un silenzio simile alla sospensione che precede le prime battute di un concerto, un silenzio pieno di attesa e fermento. La neve superstite era rimasta aggrappata ai tratti in ombra del sentiero in lastre di ghiaccio che, al viandante distratto, paiono innocui specchi d’acqua.
Questa bellezza, propensione delle cose tra loro e dialogo delle cose con noi, traccia la frontiera su un mondo fatto solo di verità e in cui, infatti, gli uomini immergono i loro corpi, camminando, tenendosi per mano e dialogando tra loro nella pausa festiva, spezzando così l’incantesimo mentale che a questa bellezza gratuita crede meno che alla bruttezza a pagamento. Alla verità preferiamo la viralità, eppure la prima è un dono, la seconda sottomissione. La verità è semplice come il vento che si contendeva il mio viso con il sole: un equilibrio di forze che, su quel prato, mi ha donato un sonno breve ma perfetto, capace di ripulire la mia mente dalla tristezza e dalla rabbia di un corpo non risorto. Quella bellezza, a cui il mio corpo si disponeva invece come l’astuccio più adatto, mi ha ricordato che la verità non è mai dove il corpo viene torturato o manipolato, la verità è solo dove il corpo risorge, dove la vita lo chiama alla vita, gratis.
La verità è nella lingua di bosco che si protende sulla distesa di neve fin dove l’altitudine decide che le radici devono fermarsi, la verità è la neve che filtra nello specchio puro di un lago che trema al vento tra le pendici… perché la verità è la relazione indistruttibile e feconda tra le cose, il bene-bello che tutte le abita e collega, e che solo noi umani siamo capaci di vedere e custodire, ma anche di ignorare e ostacolare, creando contro-verità affette dalla stessa deficienza: non uniscono le cose e le persone, le sottomettono, in qualsiasi modo si dia il loro potere (fisico, politico, ideologico, economico…). La vita si mostra con i legami, la morte con le catene.
Quei crochi sono la verità, non doping emotivo contro la durezza del vivere, ma dimostrazione che una vita custodita, compiuta, collegata è possibile. E infatti al richiamo dei crochi risponde in noi il desiderio di un mondo da fare al pari di quello che in loro è già ri-sorto, cioè sorto (di) nuovo. Come la luce chiede alle piante la fotosintesi per esser trasformata in ossigeno, anche la bellezza chiede al nostro desiderio di esser trasformata in azione. La bellezza rende con-tenti (tenuti insieme) e incoraggia a pro-creare, come segnalano, lungo il cammino, le opere di ignoti a cui siamo grati per il loro lavoro anche se non sappiamo chi sono: i fienili ben incastonati nel paesaggio, i crocifissi intagliati e piantati come alberi tra gli alberi, le raccolte d’acqua fresca scavate nei tronchi, la chiesetta rustica in cui tutti, anche non credenti, entrano in cerca di ciò che altri devono aver ricevuto per decidere di fare una casa più bella, lì, nel nulla.
Questa bellezza avviene nel corpo che, in relazione viva con le cose e le persone, si scopre destinatario di doni che non deve accaparrarsi perché sono già suoi, diventa corpo del mondo e corpo sociale, al contrario del corpo che si sente vuoto perché privo di cose che in realtà non gli servono e alle quali, nel tentativo di possederle, si sottomette. Il corpo è desiderio incarnato a cui le cose chiedono di affidarsi, con-tenute e non de-tenute, libere non prigioniere, per ri-crearsi nuove, come quei crochi che, finché fioriranno, non smetteranno di dire la verità: se noi, brevi vite eterne, siamo ri-sorti, tu che aspetti?
Ho aperto gli occhi, ero di nuovo vivo.
Alla ricerca della risurrezione
Vito Mancuso
A Pasqua si celebra quella di Cristo ma il simbolo che rappresenta va al di là della fede. Oggi a correre un pericolo mortale è l’anima, l’unica che può costituire la nostra rinascita.
Il punto decisivo consiste nel chiarire che cosa dentro di noi sta morendo, per comprendere se esiste almeno un po’ la possibilità che un giorno possa risorgere. Sul fatto che qualcosa dentro di noi stia morendo, nessuno, penso, ha più dubbi: lo sentiamo perfettamente, è un rumore sordo e persistente, una specie di basso continuo che ritma funereo le nostre giornate e che deriva dalla consapevolezza delle sempre più incombenti minacce: la guerra nucleare, l’emergenza climatica, lo scollamento tra generazioni mai così profondo nella storia dell’umanità, le abissali sperequazioni tra i pochi super-ricchi e le masse di diseredati, le migrazioni così massicce di popoli da generare una “deriva dei continenti” di tipo sociale, l’uso dell’intelligenza artificiale assai facilmente trasformabile in abuso, l’ingegneria genetica che corre esattamente lo stesso rischio. E poi c’è quel processo di crescente “infantilizzazione delle masse”, per dirla con Amos Oz, che cancella il confine tra politica e spettacolo per cui la gente non vota più chi può governare meglio, ma chi emoziona e diverte, perché questo oggi desiderano i più: essere emozionati, come bambini viziati nel paese dei balocchi. Tutte insieme queste ombre che gravano su di noi costituiscono una tale oscura densità da portarci a dire: “Basta, voglio andarmene da questa via crucis”. Ma di fronte a minacce così globali non è possibile scappare da nessuna parte. Perciò torna la domanda: che cosa precisamente dentro di noi sta morendo?
Hannah Arendt, dal cui pensiero promana la luce salvifica della vera filosofia, ha scritto: “La cosa veramente da comprendere è che l’«anima» può essere distrutta anche senza distruggere l’uomo fisico” (Le origini del totalitarismo, p. 603). A correre un pericolo mortale oggi è “l’anima”. L’altro giorno Umberto Galimberti ha dichiarato a questo giornale che l’anima “non appartiene né alla cultura cristiana, né a quella ebraica: è un’invenzione di Platone”. Non è vero. Platone ha certamente contribuito ad approfondirne il concetto, ma l’anima era presente in tutte le grandi civiltà prima di lui: in Cina il taoismo parlava di “hun” (l’anima spirituale che sopravvive) e di “po’” (quella psichica che muore); in India gli hindu di “atman” e di “jiva” sostenendo la reincarnazione; in Grecia con Pitagora, Empedocle e Anassagora la filosofia coniò i concetti di “nous” e di “psyché”; ancora prima gli egizi conoscevano tre tipi di anima (“ak, ba, ka”) e per ognuno di noi prevedevano al termine della vita la psicostasia, la pesatura della sua anima. Quanto all’ebraismo, in esso è presente un triplice concetto di anima (“nefesh, ruah, neshamà”), per il quale si veda il saggio del rabbino Adin Steinsalz, “L’anima” (Giuntina 2018) al cui inizio è scritto: “Abbiamo un’anima. Possiamo affermarlo perché lo percepiamo”. E che infine Gesù, teologicamente vicino al movimento dei farisei, condividesse l’esistenza dell’anima e la sua immortalità, risulta evidente dai Vangeli. Altro che “invenzione di Platone”. Ma perché le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, religiose e filosofiche, sentirono l’esigenza di parlare di anima? Io penso sia stato per sottolineare la peculiarità umana. Noi umani per molti aspetti siamo un pezzo di mondo materiale, identici a ogni altra manifestazione della materia; per altri aspetti però no, siamo diversi. E fu per esprimere questa differenza che la mente coniò il concetto di anima. La medesima funzione rivestirono altri concetti analoghi, tra cui spirito, coscienza, libertà.
Ecco quindi la risposta alla domanda iniziale: ciò che dentro di noi sta agonizzando è la nostra differenza specifica di esseri umani. La nostra interiorità (la si chiami anima o in altri modi poco importa, ciò che importa è che la si consideri la nostra più preziosa ricchezza) oggi corre il pericolo di essere distrutta, avvertiva Hannah Arendt. Oggi noi possiamo dire: hackerata. Forse lo è già. Forse noi siamo già in parte hackerati, e i pensieri che esprimiamo a parole non sono più nostri ma di qualcun altro introdottosi dentro la nostra mente. Quando parliamo, chi parla dentro di noi? Quando abbiamo sentimenti, chi sente dentro di noi? Quello che è sicuro, comunque, è che, non credendo all’anima spirituale e alla sua capacità di guida (detta da Marco Aurelio “ēghemonikón”), noi soffriamo di sfiducia in noi stessi. È questa la malattia mortale, la via crucis di noi postmoderni e postumani: la sfiducia nella nostra umanità. Pico della Mirandola, gloria del pensiero filosofico del rinascimento italiano, poté scrivere un saggio dal titolo: “Oratio de hominis dignitate”, ovvero: “Discorso sulla grandezza dell'essere umano”. Oggi siamo solo capaci di mettere in evidenza le nostre miserie. Le quali ci sono, è evidente, e sono tante, ma, io penso, non sono tutto.
Si può credere o no alla risurrezione di Cristo che la Chiesa cattolica celebra domani, ma il simbolo che essa rappresenta va al di là della fede teologica perché rimanda alla speranza e alla visione positiva del processo vitale. E se la malattia di cui soffriamo è la sfiducia in noi stessi, il farmaco che ci potrà curare si chiama fiducia. È un atteggiamento razionale? No, non lo è. Tutte le cose veramente importanti dell'esistenza psichica non sono razionali: si pensi all'amore, alla passione, all'entusiasmo, all'ispirazione. Ma irrazionale non vuol dire falso, perché la verità non coincide con la ragione, è piuttosto l'esattezza a coincidere con la ragione. La verità è più dell'esattezza: è forza, energia, impeto, impegno; “eroico furore”, diceva Giordano Bruno. Il 3 luglio 1943, mentre si trovava nel lager olandese di Westerbork da cui poi sarebbe stata deportata ad Auschwitz trovandovi la morte il 30 novembre di quello stesso anno, una giovane donna ebrea, Etty Hillesum, scriveva ad alcuni amici: “La miseria che c’è qui è veramente terribile, eppure, la sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare –, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere”. E concludeva: “Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia, se ne avete già uno dentro di voi”. L’anima (o la coscienza, o come ancora la si voglia chiamare) è questo posto di guardia dentro di noi, che, per chi ha la fortuna di averlo, può costituire la sua salvezza. La sua risurrezione quotidiana. E che non ci sia nulla di più prezioso, lo insegnano tutti i grandi maestri spirituali, da Socrate al Buddha, da Confucio a Gesù. Quest’ultimo un giorno disse: “A che serve a un essere umano guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?”.
Remare insieme nella sofferenza
Eugenio Borgna
Se soffri, se stai male, se hai bisogno, istintivamente sceglierai chi ha conosciuto il dolore e convissuto con la sofferenza, forse con la tua stessa sofferenza. Questo andare verso l’altro, facendosi accogliere e al tempo stesso accogliendolo, questo sfiorare l’altro in uno sfiorarsi di destini, questa scelta istintiva, con tutta la sua carica di docile potenza, deriva dal fatto che solo una persona che ha attraversato il territorio oscuro dell’anima potrà comprenderci e aiutarci nei momenti di caduta. Come ha scritto lo psichiatra tedesco, Kurt Schneider, non dovremmo spaventarci «dell’ansia, dell’angoscia, della tristezza, che in determinati momenti nascono e non possono non nascere in noi, spaventiamoci, piuttosto, quando questa angoscia, questa disperazione non l’abbiamo mai conosciuta». È in questa condivisione che nasce il senso della cura. Ma non c’è cura, senza utopia, più propriamente senza apertura al mistero. Il grande scrittore e poeta tedesco Robert Musil ha scritto che l’utopia è la vera realtà perché racchiude la dimensione dell’indicibile che vive in noi. Una dimensione che entra prepotentemente in scena, quando abbiamo a che fare con quelle esperienze di pericolo che toccano il cuore stesso del nostro destino. Ecco perché ciò che spesso denominiamo “comunità di cura” si può comprendere e acquista un senso proprio nella misura in cui diventi una comunità di destino, per cui il destino di chi soffre è in qualche modo il nostro destino.
Molti versi di Emily Dickinson esprimono questo concetto, in un’incredibile risonanza tra pensieri e aperture poetiche sulla comunità, la cura, la fratellanza e, appunto, il destino. «Forse sarei più sola, senza la mia solitudine», scriveva Emily Dickinson. Eppure, proprio lei, la solitaria che trascorse gli anni migliori dell’esistenza a Amherst, senza mai uscire dalla propria stanza, ha perimetrato con forza mistica altezze e abissi di quella comune paura che sa volgersi in umanissima speranza. La Dickinson ha scrutato la solitudine – la Loneliness, così la chiama – attraversandola in tutte le sue polarità esistenziali e emotive. La solitudine come apertura al mistero, come ricchezza, e salvezza certamente. Ma anche la solitudine come abisso, come pericolo. La solitudine – scrive – è qualcosa «che non si osa sondare e che si vuole indovinare per stabilirne la misura». La solitudine. «la cui peggiore paura è vedere se stessa».
La solitudine come risonanza affettiva attraversa l’arco dell’intera vita di questa donna che per vent’anni – dal 1866 al 1886, anno della sua morte – visse in reclusione volontaria nella casa paterna, osservando il mondo da dietro la porta della sua stanza. Le sue parole ci interrogano, interrogano il nostro mondo, così come la sua solitudine e il suo destino interrogano le nostre solitudini e i nostri destini. Le sue parole ci legano a lei, come ponti gettati tra due rive.
La Dickinson ha mostrato, con immagini potenti e delicate al tempo stesso come sia possibile perdersi anche nei pochi metri di una stanza, quando la perdita del centro e dell’io sconfina nell’angoscia di ogni punto di riferimento esistenziale.
Elias Canetti diceva che, a volte, quando «cade un nome in questo spaventoso deserto ogni granello di sabbia fiorisce». Stiamo facendo dei nomi, citando dei versi. Ma in un nome, in un’immagine, in certi versi talvolta si sente qualcosa di incredibilmente unico e, al tempo stesso, di incredibilmente comune. È come se in quei nomi annunciassero il desiderio di un ritorno a casa. La parola sembra il modo forse più diretto per unire esistenze altrimenti divise. Unirle attraverso la necessità, facendo provare agli uomini il bisogno di conoscersi reciprocamente per poter sopravvivere.
Eugenio Borgna: Quando nei primi anni della mia esperienza, da Milano arrivai a Novara, mi trovai letteralmente gettato in un ospedale psichiatrico dove le donne ospiti venivano considerate prive di ogni capacità di “comunità” e gentilezza, ma solo di implicita aggressività o esplicita aggressione. Scoprii che quelle donne coltivavano, invece, dentro di sé straordinarie attitudini ad ascoltare, a chiedere aiuto senza parlare, con linguaggi che aprivano istintivamente arcobaleni e orizzonti inattesi. Dentro la sofferenza critica si nasconde infatti la nostalgia di un passato che dava loro comprensione e accoglienza. Ma al tempo stesso, in quella sofferenza c’era una sorta di aurora muta di speranza. Speranza che si è lasciata intravvedere solo quando infermiere, suore e psichiatri hanno cambiato radicalmente il pregiudizio che avevano sulle loro “pazienti”. E il pregiudizio che avevano su una follia considerata come mancanza di senso o emblema di violenza che si trasmetteva di paziente in paziente. Solo creando nuclei di colloquio, a volte colloquio nel silenzio, questa aurora si lasciava intravvedere. Perché le parole – come ha magistralmente scritto Franco Basaglia – quando si sta davvero male, rappresentano un rischio grandissimo. Perché è quasi impossibile non entrare, attraverso le parole, in collisione con chi è sprofondato in abissi di sofferenza senza fondo. Allora soltanto il silenzio, soltanto questa comunità inespressa di volti e di destini riesce a costruire con chi sta male dei ponti che fanno di monadi completamente chiuse e con le finestre sbarrate, delle monadi con le porte aperte.
Abbiamo bisogno di parole “ponte”?
Eugenio Borgna: Ricordiamo anche altre parole, stavolta di Martin Heidegger proprio sulla figura densa e intensa del ponte: «Il ponte si slancia “leggero e possente” al di sopra del fiume. Esso non solo collega due rive del fiume. Esso non solo collega due rive già esistenti. Il collegamento stabilito dal ponte – anzitutto – fa si che le due rive appaiano come rive. È il ponte che le oppone propriamente l’una all’altra. (…). Il vecchio e poco appariscente ponte di pietra che traversa un piccolo corso d’acqua dà il passaggio al carro del raccolto che va dalla campagna al villaggio, e conduce il carico di legname dal sentiero di campagna alla strada principale. Il ponte d’autostrada è una maglia della rete delle grandi correnti di traffico, rette dal calcolo e dal principio della massima rapidità. In ognuno di questi casi, e in modi sempre diversi, il ponte conduce su e giù gli itinerari esitanti o affrettati degli uomini, permettendo loro di giungere sempre ad altre rive. Il nostro pensiero è abituato da sempre a stimare troppo poco l’essenza della cosa. Il ponte è una cosa di tipo particolare. Il luogo non esiste già prima del ponte. Certo anche prima che il ponte ci sia, esistono lungo il fiume numerosi spazi che possono essere occupati da qualcosa. Uno di essi diventa a un certo punto un luogo, e ciò in virtù del ponte. Sicché il ponte non viene a porsi in un luogo che c’è già, ma il luogo si origina solo a partire dal ponte».
Soltanto se procediamo in un’operazione continua su noi stessi, in un continuo lavoro dentro noi stessi riusciamo ad aprire quelle porte fuori di noi. Soltanto se rimettiamo in discussione continuamente noi stessi, noi e le tradizioni che ci portiamo addosso, le memorie, i saperi filosofici, pratici e teorici che possediamo possiamo riattivare quel processo di costante cambiamento che è presupposto necessario per rompere un assedio altrimenti senza fine. Solo così un mondo apparentemente chiuso, sbarrato si può aprire. È un mondo di un dolore che può essere quello della follia, ma non solo. Può essere il mondo dell’esclusione, dell’indifferenza, della globalizzazione feroce, della crisi. Può essere anche solo il mondo di un mendicante che ti passa davanti e tu non riesci nemmeno a salutare, ad accogliere, ad ascoltare. Perso – lui – negli abissi profondi della sua speranza negata dalla – nostra – indifferenza. Una speranza negata, certo, ma pronta a risorgere se incontrasse sguardi, incrociasse destini, non solo gesti o mancanze di gesti. Queste parabole agoniche, io le ho incontrate così palpitanti di vita soltanto quando, provenendo dalla clinica psichiatrica universitaria – dove i pazienti erano vissuti come mummie senza vita e senz’anima – sono arrivato a Novara. Aiutato da suore e infermiere – che, dal punto di vista della sapienza pratica ne sapevano molto di più di noi che avevamo letto i testi di Karl Jaspers e Ludwig Biswanger – ho scoperto questa importanza dello sguardo, della pazienza, dell’attesa. Del dialogo nel silenzio. Perché in fondo si è costruttori di comunità di destino, soprattutto quando ci si libera dalle grandi costruzioni psichiatriche e filosofiche, entrando in sintonia con la frequenza d’onda del cuore. Un cuore pascaliano, un cuore dell’intuizione che, trasformando noi stessi, ci aiuta a trasformare gli altri. Un cuore che riapre questo ponte interrotto che la sofferenza ha posto attorno a sé. Ma che lo riapre soltanto quando chi sta male e in chi sta male (si) coglie soltanto qualcosa di lieve, come un sorriso o una lacrima.
Ciò che spesso denominiamo “comunità di cura” si può comprendere e acquista un senso proprio nella misura in cui diventi una comunità di destino, per cui il destino di chi soffre è in qualche modo il nostro destino
Eugenio Borgna – psichiatra
Le lacrime ci rivelano ciò che nell’uomo tace… scrive San Francesco di Sales in Traité de l’amour de Dieu. Lui vede nelle lacrime uno stadio intermedio tra il dolore e l’amore puro. «Fra le tribolazioni e il rammarico di un vivo pentimento, Dio pone molto spesso in fondo al nostro cuore il fuoco sacro del suo amore. Questo fuoco si trasforma poi nell’acqua di molte lacrime e, attraverso una seconda metamorfosi, queste lacrime si mutano in un altro gran fuoco d’amore».
Eugenio Borgna: Soltanto quando si velano di lacrime, come scriveva Hermann Broch, gli occhi ci consentono di cogliere l’invisibile e l’indicibile dell’altro e del mondo in cui viviamo. Costruendo quindi, in qualche modo, inedite, impensate, inimmaginate e inimmaginabili comunità di destino possiamo avanzare e riaprire valichi, strade e ponti. Comunità di destino: ovvero associazioni invisibili, legami tra i cuori (cuore è del resto una grande parola biblica). Comunità che si costituiscono solo dopo che nei cuori di chi le partecipa nasca la percezione presaga delle grandezze e delle speranze che esistono nel proprio cuore e nel cuore degli altri. Comunità di destino, quindi, come infiniti modi di suscitarla, ma anche come moltiplicazione di infiniti modi per spegnerla, per ucciderla – ed è facilissimo. Dove c’è il pericolo, scriveva Hölderlin, là c’è ciò che salva.
Questa è forse l’esperienza peculiare della crisi: la vita umana che si rivela come territorio della possibilità, anche delle possibilità di un incontro?
Eugenio Borgna: Dentro la fondazione e dentro la definizione di comunità di destino gli splendori delle scienze esatte si oscurano. Si salvano però certe mete, certi ideali che a modo loro tentano di fare emergere i legami, creandoli magari dal nulla attraverso una condivisione, mai un’imposizione. È la magia e il mistero – tutti umani, tutti evidenti – di una comunione e di un comune sentire, che qui chiamiamo destino e che prima di un incontro, prima di uno sguardo nemmeno esistevano. Al tempo stesso è una creazione istantanea di progetti che possono apparire insensati, se soppesati al freddo calibro della ragione calcolante, ma che calati dentro le ragioni profonde del cuore si caricano di senso. Quel senso che è, in fondo, la ricerca dell’umano, anche nello sguardo di chi ci dicono e, talvolta, in forma reattiva vorremmo illuderci umano non fosse. Solo lungo il sentiero che corre lungo gli abissi dell’illusione di creare ideologia ed esclusioni attraverso la cultura, cogliendo invece ciò che fa di una persona apparentemente senza alcuna cultura un soggetto nel senso pieno del termine, ecco solo lungo questo sentiero si intravede la costituzione al tempo stesso fragile e potente della comunità che abbiamo chiamato di destino. Dolori, fallimenti, cadute, silenzi, gioie, speranze, vibrazioni sono tutte parti di un percorso di vita che presiedono al sorgere di una comunità di questo tipo. Non ci sono patti di sangue, ma sguardi. Al netto delle condizioni ambientali e economiche, che però influenzano spesso solo negativamente la nascita sorgiva e spontanea di questo legame invisibile e indicibile che sta a fondamento dello scambiarsi e del renderci partecipi in qualcosa di comune che oltrepassa la nostra storia personale, siamo noi, nel lavoro su di noi, e oltre di noi gli artefici e al tempo stesso gli oggetti di questo accadere. La comunità di destino accade e sorge dall’incontro, non dallo scontro.
Deserti del senso
Oggi, che abbiamo forse più coscienza del deserto di senso in cui ci troviamo, vorremmo fare e incontrare ma le condizioni sembrano impedircelo, favorendo al contrario lo scontro. Condizioni non solo finanziarie e economiche globali, ma anche di burocrazia, di vincoli, di regolamenti e carte. Tutte cose che si frappongono tra il cuore dell’uomo e il suo desiderio – e li mortificano. Forse dovremmo essere più anarchici, riuscire a sottrarci ai mille schermi che si frappongono come uno schermo tra noi e le radici del nostro desiderio. La crisi è certamente un problema, ma che cosa è un “problema”? Porsi un problema, significa porsi davanti agli occhi qualcosa, non nasconderlo. Né agli altri, né a sé. Esattamente quanto chiede Salomone a Dio: dammi un cuore umile, che sappia distinguere tra il bene e il male.
Eugenio Borgna: Dammi un cuore che sia libero dall’indifferenza. Perché posso anche conoscere tutto quello che avviene in me, posso anche cogliere ciò che mi unisce a chi, mendicante, per strada, folgorato dalla vita stende una mano che io non accolgo. Posso anche essere dotato di questa conoscenza che è conditio sine qua non per capire qualcosa sociologicamente o filosoficamente della vita, se però insieme a questo uso lo schermo gelido dell’indifferenza che non va al cuore del senso, ma offre soltanto il ritorno istantaneo che hanno sul mio io, in quello che è il mio benessere, nemmeno qui alcuna comunità di destino può sorgere. Non parlo solo di interesse, ma di benessere: perché ci si può “stancare” dell’altro, anche perché è ci si può stancare di sentire, di partecipare, soffrire, di consumare in qualche modo questa ricchezza interiore. Perché apparentemente questa ricchezza interiore si consuma, anche perdendo tempo. Ma cosa saremmo se non perdessimo tempo, con gli amici, con gli sconosciuti, con la gente che ci chiede tempo, non per vampirizzarlo, ma perché è una necessità esistenziale, quella del dialogo? Molti psichiatri pensano che sia una mera perdita di tempo parlare con una persona che sta male e che, con dei farmaci, potrebbe guarire. Potrebbe, ma non guarisce se, accanto ai farmaci, c’è questa “perdita di tempo” – l’ascolto. Ascoltare l’altro, ascoltarne il discorso insensato, ascoltarne i deliri, ascoltarle le allucinazioni è considerato indegno, da una gerarchia psichiatrica che si ritiene portatrice sana di ragione. Ma non si può spezzare la melagrana in due parti secche con tanta superficialità. Da una parte la cultura, la superiorità, l’umanità. Dall’altra la sconfitta, la follia, la povertà, a volte anche l’aggressività che, però, non sempre è un fenomeno patologico, ma talvolta è un meccanismo disperato di difesa. Credo che riusciremo a rompere questo giogo perverso soltanto se avremo la coscienza ferma, decisa, precisa che dobbiamo sfuggire all’indifferenza e alla semplificazione della melagrana spaccata. Per farlo ognuno deve guardare dentro di sé, ma sapere anche che guardare dentro di sé costa. La conoscenza di sé si infrange sugli scogli di una visione del mondo fatta di indifferenza non solo come rifiuto, ma anche come modo per scansare il dolore e la fatica che il lavoro su di sé comporta. Certe grandi esperienze – penso a don Zeno a Nomadelfia – sono comunità di destino conquistate a caro prezzo. Costa, il lavoro su di sé, costa lavorare a stretto contatto col dolore, la rassegnazione, il silenzio. Ma è lì, nelle intermittenze del cuore, che qualcosa accade. E dentro certe immagini, come quella della comunità di destino, esplodono mille sentieri che ci portano a riflette cioè a flettere in noi il reale. Un reale a cui siamo abbandonati ma nel quale dobbiamo far sorgere la speranza a cui ci chiama il dolore degli altri. Un richiamo a cui non possiamo sfuggire. Un reale che dobbiamo esplorare se vogliamo essere rigorosi, non solo se vogliamo essere cristiani, ma se vogliamo essere semplicemente onesti con noi stessi, perché si può anche essere prigionieri di vite tranquille. Ma se non scendiamo nel cuore di una percezione etica delle cose che deve diventare anche relazione, come quella di destini che si rispecchiano invisibilmente, ecco che forse perdiamo il senso profondo della vita.
Riscoprire la pazienza
Al fondo di questa percezione etica, potremmo riscoprire il fatto che dall’uomo, anche in tempi ostili, ci si può sempre attendere l’inatteso. L’insondabilità e la sorprendente unicità del suo agire sembrano accordarsi quasi per miracolo con la capacità di marcare la vita anche con gesti minimi o con piccole intermittenze dell’esistenza e del cuore. È con i suoi “sì” e i suoi “no”, spesso pronunciati sottovoce, talvolta appena sussurrati che l’uomo cerca di ri-radicarsi in un mondo dal quale la tecnica, la finanza, la globalizzazione lo vorrebbero sradicato per sempre.
Eugenio Borgna: In questo momento, dove strategie di globalizzazione, di comunicazione, di complessità mettono il mondo sotto pressione, anche parole bellissime, anche le buone e belle intenzioni possono offrire soltanto degli orizzonti che sappiamo poi che non si realizzeranno e non si concreteranno nell’incarnazione di comportamenti nostri e di coloro che ascoltano. Tutto si fa difficile, anche agire. Eppure, partendo da quella cellula originaria che è la partecipazione, la relazione, il destino di perdita e di angoscia che dovremmo vivere con gli altri, qualcosa è possibile. Qualcosa di fragile e potente, come esili vite che si piegano, ma che – come la Palma di una poesia Paul Valéry – sanno dare improvvisi frutti. Vite che scavano, attendono, sperano. Occhi che sanno guardare in altro, verso l’azzurro e mani che sanno affondare nella terrà, là dove stanno acqua e radici.
Scrive Paul Valéry:
Giorni che ti paiono vuoti
E perduti per l’universo
Hanno radici avide
Che affaticano i deserti.
La sostanza barbuta
Dalle tenebre eletta
Non si può smettere mai,
Fin nelle viscere del mondo,
Di cercare l’acqua profonda
Che le cime ci domandano.
Pazienza, pazienza,
Pazienza nell’azzurro!
Ogni atomo di silenzio è
La sorte di un frutto maturo!
Questa palma è un’immagine straordinariamente densa, radicata ma libera di comunità di destino. Valéry mette però l’accento su quel misto di attesa e attenzione che chiama “pazienza” – «Patience, patience, / Patience dans l’azur!» – e suona alquanto strana nella nostra società, segnata da un’indigenza nuova. Radici avide, dice ancora Valéry, una definizione perfetta per indicare come il nostro desiderio debba lavorare.
Il passaggio dal pensiero alla sua concretizzazione nel mondo richiede tempi lunghi. Richiede pazienza. Viviamo in un mondo che ha troppe certezze, troppe sicurezze, troppe corazze. Un mondo che non sa più guardarsi dentro, lacerato e ferito mille e mille volte, ma che non sa più provare dolore. Dobbiamo attraversarlo, come si attraversa un deserto, sicuri che alla fine si troverà un campo fiorito. Nessuno avrebbe mai attraversato un deserto, senza questa speranza che diviene certezza. Nonostante i miraggi della televisione, nonostante le terribili forze scatenate dalla crisi, nonostante questa globalizzazione cruenta e feroce. Nonostante questo deserto in cui ci troviamo, noi lo attraverseremo. È il nostro destino.
Il valore del silenzio
Vincenzo Bonato
Nell’esperienza cristiana il comunicare e il tacere non sono posti in contrapposizione né si fa un’assolutizzazione di uno dei due elementi. Afferma un padre del deserto: «La sapienza sta nel sapere in quale momento parlare» e nel come farlo, aggiungo io. «Vi è un uomo che sembra tacere e il suo cuore giudica gli altri: costui parla sempre» (Poimen 27). Possiamo trovare consigli che sembrano contrastanti o che realmente lo sono perché sorgono dall’esperienza che non è unitaria. Non si tratta di stabilire delle massime che valgono sempre ma di fare attenzione all’esperienza.
Su questo argomento molto importante, offro dei semplici spunti, attinti dalle testimonianze di persone che lo hanno vissuto in modo molto positivo.
Il silenzio può essere anche molto negativo, quando è indice di rifiuto della comunicazione o incapacità di comunicare, fino a preparare esplosioni di violenza. Oggi forse per molti il silenzio, più che lo stare zitti, potrebbe essere un esercizio per uscire dal mutismo, dall’incapacità di relazionarsi, di comunicare e per cominciare a parlare in modo umano.
Nel monachesimo, imparare a tacere è meno importante dell’imparare ad osservare e ad esprimere i propri sentimenti. Un cuore che non fa discernimento e non avverte le passioni e i movimenti interiori che lo agitano, non potrà mai essere in quiete. Non si comincia mai dalla totalità, ossia dall’amore pieno, ma dall’analisi sincera della nostra grandezza dentro il nostro limite.
Nel nostro limite l'amore è intrecciato con l'odio. È un’esperienza comune: i tifosi di una squadra che odiano i tifosi di un'altra; i seguaci di una religione che si oppongono a quelli d’un’altra; la mamma che impedisce una vera maturazione del figlio perché lo ama troppo. Non dico nulla per quanto riguarda il lato umano. Dal punto di vista religioso, non dobbiamo nutrire disprezzo né avversione verso coloro che non condividono il nostro credo (o il nostro grande amore), neppure verso chi pensiamo abbia tradito la nostra causa. Non dobbiamo costringere nessuno a difendersi da noi. Gesù voleva interrompere lo stile degli uomini zelanti che difendevano Dio eliminando pagani o apostati. In Lui appare questa grande novità che non è stata compresa in modo adeguato.
Esame di se stessi
Ho accennato all’attenzione a se stessi. Il silenzio, prima ancora di essere assenza di parole, è attenzione al rapporto qualificato, non immediato. Vi presento un testo di un maestro spirituale, Doroteo, che invita i monaci a fare attenzione alla loro interiorità riguardo all’argomento del rancore.
Si può rendere male per male non solo con le azioni, ma anche con le parole e l'atteggiamento. Talvolta si prende un atteggiamento o si fa un movimento o uno sguardo che turba il fratello: sì, si può ferire il fratello anche con uno sguardo o un movimento, ed è anche questo un rendere male per male. Un altro si studia di non rendere male per male né con l'azione né con la parola né con l'atteggiamento o il movimento, però ha in cuore una tristezza contro il suo fratello e si affligge
contro di lui. Guardate che differenza di stati d'animo. Un altro non ha neppure qualche tristezza contro il proprio fratello, ma se sente dire che qualcuno lo ha afflitto o ha mormorato contro di lui o lo ha offeso, si rallegra all'udirlo, e anche costui si trova a rendere male per male nel suo cuore. Un altro invece non solo non ha nessuna cattiveria e non gode a sentire che chi lo ha afflitto è stato offeso, ma si affligge addirittura se quello viene afflitto: però non prova piacere se egli riceve del bene, e si affligge se lo vede onorato o contento: ed è anche questa una sorta di rancore, più leggera, sì, ma lo è pur sempre. Invece bisogna gioire per la contentezza del proprio fratello e fare di tutto per servirlo e preparare ogni cosa per dargli onore e soddisfazione.
Il silenzio è importante nella formazione della persona religiosa: «Ciò che l’irrigazione è per le piante, è il silenzio continuo per la crescita della conoscenza» (Un’umile speranza… 61). «Ogni uomo che si dà al molto parlare, anche se dice cose degne d’ammirazione, sappi che è vuoto dentro» (Isacco di Ninive I,65). Perché vuoto? L’incapacità di custodire il silenzio e di controllare la lingua potrebbe essere segno di inquietudine che deriva dall’avere una cattiva coscienza (per cui la persona sta male con se stessa); può essere segno della volontà di dominio sugli altri - devo essere convincerli delle mie opinioni per rafforzare il mio ruolo - ; di un bisogno affettivo (avere sempre compagnia…). Neppure la logorrea sul piano catechetico o apostolico è una cosa sana. Nell’esporre dobbiamo partire dal rispetto e dall’apprezzamento della persona, delle convinzioni positive che ha elaborato e dei comportamenti nobili messi in pratica. Dobbiamo alimentare la persona non costringerla ad abbuffarsi. Per capire bene una cosa o per accoglierla, tutti abbiamo bisogno di tempo. «Fà profittare con il tuo silenzio piuttosto che con la tua parola di conoscenza colui che non può trarre profitto dalla conoscenza. Abbassati con lui secondo la sua debolezza» (Un’umile speranza… 61).
Il silenzio iniziale, ossia l’apprendere a contenersi, è soltanto una preparazione e un inizio del vero silenzio. All’inizio dobbiamo costringerci (che è diverso dal farsi violenza o dall’essere costretti):
«Sforziamoci di tacere e, allora, dal nostro silenzio, sarà generato in noi un qualcosa che ci condurrà al vero silenzio. Che Dio ti dia di sentire ciò che è generato dal silenzio… Non credere che il silenzio [attuato dal grande Arsenio] sia stato semplicemente un atto spontaneo: all’inizio ha dovuto sforzarsi a fare questo. Dopo un certo tempo, dalla pratica di tale esercizio, è generata nel cuore una qualche dolcezza; ed essa induce con violenza il corpo a perseverare nel silenzio» (113).
La predicazione o il rapporto comunicativo con l’altro deve essere preceduto dal silenzio, non per riflettere meglio su ciò che vogliamo comunicare o annunciare ma anche per vivere una vera compartecipazione. Non si deve mai parlare dall’alto in basso, convinti che la persona con cui tratto sia inferiore a me. È necessario, al contrario, una vera compartecipazione. Lo attesta Gregorio Magno parlando dell’atteggiamento che dovrebbe essere mantenuto dagli evangelizzatori:
[Dice il profeta Ezechiele: Mi fermai presso i deportati e rimasi in mezzo a loro sette giorni nella tristezza (Ez 3,15). Si osservi con quanta compassione il santo profeta si unisce al popolo prigioniero e dimorando con lui, si unisce alla loro desolazione poiché la parola è radicata nella forza dell'azione. E chi ascolta accoglie volentieri la parola che è detta con compassione da parte di chi predica ... Così il profeta si stabilì con il popolo prigioniero e rimase in mezzo a loro afflitto; così, ponendosi nella sua situazione accanto a esso a motivo della sua profonda carità, riuscì a conquistarlo subito con la forza della parola ... Ora, quando furono trascorsi sette giorni, mi fu rivolta la parola del Signore (Ez 3,16). Con il fatto che rimase sette giorni nella tristezza e, dopo il settimo, ricevette dal Signore l'ordine di parlare, il profeta dica chiaramente che durante quei giorni era rimasto in silenzio. Era stato inviato a predicare, e tuttavia era rimasto afflitto, in silenzio per sette giorni. Che cosa ci suggerisce il santo profeta con questo silenzio se non che soltanto chi prima ha taciuto sa veramente parlare? Il silenzio è in certo senso il nutrimento della
parola. E giustamente riceve la parola a opera di una grazia sovrabbondante chi per umiltà dapprima ha taciuto come conviene fare. Per bocca di Salomone si dice infatti: C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare (Qo 3,7). Non si dice: "C'è un tempo per parlare e un tempo per tacere", ma prima viene il tempo per tacere e poi il tempo per parlare, perché non dobbiamo imparare a tacere parlando, ma a parlare tacendo. Se dunque il santo profeta che era stato inviato a parlare, dapprima custodì un lungo silenzio per poter poi parlare in modo autentico, consideriamo quanto sia grande la colpa di chi non tace quando nessuna necessità lo costringe a parlare (Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele 11,2-3).
Il nostro parlare, quindi, deve nascere dalla compartecipazione.
Silenzio mistico
Il rapporto maturo ed autentico con Dio implica che tutto ciò che sperimentiamo nella relazione con Lui non sia riducibile alla sola parola. Almeno la parola che ascoltiamo o che pronunciamo deve formare unità con noi:
«Quando ripeti le parole della preghiera, preoccupati non di ripeterle ma di diventare tu stesso quelle parole. Il nostro profitto non sta nella ripetizione, ma nel fatto che la parola si incorpori in te e divenga opera» (Giovanni di Apamea Discorso sulla preghiera 4-7).
Quando si è ciò che si dice, il dire sconfina nell’indicibile e questa plusvalenza del parlare può essere chiamata silenzio. «Colui che possiede in verità la parola di Gesù può udire anche il suo silenzio» (Ignazio di Antiochia, Efesini 13).
Anche noi sperimentiamo che il sentire spesso supera il parlare. Questo fatto è avvertito anche nella relazione con Dio. Attesta Suso: «Signore, se penso alla tua alta lode, il mio cuore vorrebbe sciogliersi nel mio corpo, i pensieri mi sfuggono, mi mancano le parole. Brilla un non so che nel cuore che nessuno può esprimere a parole, appena voglio lodare te, bene senza limiti; poiché se io sprofondo nel profondo abisso del tuo proprio bene, Signore, svanisce ogni lode per la sua pochezza».
Per condividere questo sentire non occorre essere stati elevati a gradi superiori di vita mistica. È un’espressione del credente consapevole. San Paolo dichiara di essere stato rapito vicino a Dio e di aver udito discorsi ineffabili. I mistici conoscono esperienze elevate che non possono tradotte nel linguaggio comune. Ciò che afferra l’uomo nella sua totalità è più grande del suo parlare. Qui l’essere vale di più del dire. Teresa d’Avila conosce una relazione intima con Dio che è fatta di silenzio e di pace:
Il modo con cui Dio arricchisce ed istruisce l’anima in questa orazione è così calmo e silenzioso da fare pensare alla costruzione del tempio di Salomone, durante la quale non si sentiva il minimo rumore. Così in questo tempio di Dio, in questa mansione che è sua: Dio e l’anima si godono in altissimo silenzio. L’intelletto non ha movimenti né ricerche da fare. Chi l’ha creato vuole che si riposi e contempli ciò che avviene come per una piccola fessura (Castello interiore VII, 11).
Tale esperienza è un rivivere il riposo del sabato al termine della creazione e un anticipo della beatitudine della vita eterna. Comprendiamo meglio ciò che diceva Ignazio: «Colui che possiede in verità la parola di Gesù può udire anche il suo silenzio».
Enzo Bianchi “La debolezza è la virtù del buon cristiano ed è la prova più faticosa del mestiere di vivere”
Come scriveva Gilbert K. Chesterton, il paradosso attraversa il tessuto della fede cristiana. E così la debolezza, l'asthenía che nasce dalla malattia, dall'handicap, dall'umiliazione, dall'imperfezione, dalla sofferenza imposta dalla vita, nel cristianesimo se è vissuta come un cammino pasquale può diventare addirittura un luogo in cui si fa sentire la forza di Dio. Questo viene proclamato da Gesù nel discorso della montagna, quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare avanti con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati, affamati, agli occhi del mondo degli imperfetti e dei deboli. L'Apostolo Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi compone addirittura quello che potrebbe essere definito un inno alla debolezza: «Il Signore mi ha detto: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si esprime pienamente nella debolezza". Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché metta la sua tenda in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte». In questo testo vanno sottolineate due espressioni che normalmente sfuggono al lettore: la potenza di Dio si esprime pienamente nella debolezza e la potenza di Cristo mette la sua tenda – la Shekinah, cioè la presenza di Dio – là dove trova la debolezza dell'uomo, l'incompletezza, l'imperfezione.
Si faccia però attenzione. Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla sofferenza, alla prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al cristianesimo –, ma è una rivelazione: la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa viverla con amore (cioè continuando ad amare e ad accettare di essere amato), la potenza di Cristo raggiunge la sua pienezza. Ma questo messaggio, peraltro centrale nel Nuovo Testamento, è scandaloso e può sembrare follia, e i cristiani abituati a tali parole sono disposti a ripeterle ma non a viverle: quest'ultima è la vera sfida, perché la debolezza è fondativa dell'antropologia cristiana.
Il domenicano francese Sylvain Detoc ha avuto l'intuizione e la capacità di scrivere quello che si potrebbe serenamente definire un elogio dell'imperfezione. In La gloria dei buoni a nulla. Guida spirituale per accogliere l'imperfezione, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, Detoc con senso dell'humour e al contempo raffinato senso teologico (è docente all'Institut Catholique e allo Studium domenicano di Tolosa) e con levità mai mediocre coglie una verità biblica che ha al tempo stesso un valore antropologico e teologico. Per la sua opera nel mondo Dio sceglie generalmente uomini che non brillano per ingegno e cultura, che non sono intellettuali raffinati, dotti e sapienti, ma persone poco dotate, di umili condizioni come pastori o pescatori, che sanno di essere inadeguati alla missione che Dio gli affida, perché deboli, incapaci a parlare in pubblico e poco coraggiosi, degli incapaci, appunto dei "buoni a nulla". Il Dio biblico non consegna il suo messaggio a dei campioni dell'evangelizzazione ma a gente "poco dotata", al punto che scegliere persone inadeguate fa parte della sua politica di reclutamento. O è un bizzarro responsabile delle risorse umane oppure un geniale scopritore di talenti.
Detoc ha buon gioco nel farne l'elenco: «Dio vuole generare un popolo a lui consacrato? Recluta Abramo, un novantenne che fa copia con una sterile, Sara. Dio vuole strappare il suo popolo dalla servitù del faraone e condurlo nella Terra promessa? Assume un leader balbuziente e con poco talento per la politica: Mosè. Dio vuole che la sua parola risuoni presso i sacerdoti nei santuari d'Israele? Assume Amos, un rozzo pastore di bestiame». La lista continua anche con gli uomini e le donne scelte da Gesù: «Pietro? Un codardo e un rinnegato. Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo? Due ambiziosi. Matteo? Un collaborazionista. Paolo? Un fanatico. Maria di Magdala? Una cortigiana, per giunta posseduta». Tuttavia, la goffaggine e l'atteggiamento problematico, spesso incapace, magari solo all'inizio, dei collaboratori che si è scelto, non ha scoraggiato Dio, «esitazioni, cadute e ricadute, peregrinazioni, persino passi indietro: niente di tutto questo ha indotto il Creatore a desistere dal suo benevolo disegno».
Lo humour di Sylvain Detoc cela una verità profonda della condizione umana, di quei "buoni a nulla" che ogni figlio di Adamo, il fatto di terra, il terroso è. Quando osserviamo la vita nel suo svolgersi quotidiano, quando tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la potenza, la forza, l'arroganza, la violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella debolezza una possibile beatitudine. Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza e l'imperfezione, che si presentano a noi sovente come umiliazione? Siamo disposti a vedere in esse un'occasione di spogliazione? Non solo individualmente, ma come comunità umana, come società, e anche come chiesa siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio della discreta caritas, dell'amore discreto che è vissuto quotidianamente senza alzare la voce, senza voler "dare testimonianza" a noi stessi?
C'è poi anche una forma particolare di debolezza, che non può essere dimenticata: quella dell'umiliazione che nasce dall'inadeguatezza, dall'incapacità, dal limite, a volte dal vizio o peccato ripetuto, in cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e agli uomini, anche in questo sia come singoli cristiani sia come chiesa. «Bene per me essere stato nella debolezza», prega il salmista davanti a Dio, ma è bene anche per la chiesa essere umiliata, conoscere giorni di non-successo, di sterilità, di imperfezione, di impotenza tra le potenze di questo mondo, a volte addirittura di insignificanza. Costatarsi come chiesa "buona a nulla". Non è stato forse questo il tragitto di Gesù nell'ultima parte del suo ministero, dopo i successi e la favorevole accoglienza iniziale?
San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un monaco nella storia, sperimentò pure un'ora di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per sua stessa ammissione, una crisi spirituale e morale che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal suo monastero. In quel tempo comprese molte cose della vita cristiana che non aveva capito prima; comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la relazione con gli altri e con Dio, e conobbe veramente cos'è la grazia, la misericordia di Dio. E così giunse ad esclamare: «Optanda infirmitas! (O desiderabile debolezza!)» (come nei Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7). Sì, è possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere di vivere la debolezza e l'imperfezione appaiono sempre anche come prova, come faticosa prova.
Le parole che salvano
Eugenio Borgna
Sono molte le pagine che ho dedicato alle parole, alla loro importanza nelle relazioni quotidiane, e in particolare a quella delle parole nelle relazioni fra medico e paziente: paradigmatiche nel creare relazioni umane, e terapeutiche, o invece conflittuali, e antiterapeutiche. Fra le discipline mediche, la psichiatria è quella che dà la maggiore importanza alle parole, e non può vivere senza le parole, di quelle dei pazienti, e di quelle di chi li cura.
Come diceva Friedrich Hoelderlin, sulla scia di intuizioni nutrite di genialità e di follia, tutto è connesso, e allora vorrei dire che le relazioni sono il background, il tessuto ineliminabile, della vita, intrecciandosi alle emozioni che proviamo, e alle parole che le esprimono. Se vogliamo conoscere qualcosa di quello che avviene in noi, quando siamo in relazione, e non possiamo non esserlo sempre, non dovremmo mai stancarci dal seguire il cammino che ci porta alla nostra interiorità: in interiore homine habitat veritas: lo diceva sant’Agostino.
Noi siamo un colloquio
Ogni relazione è dialogo, è colloquio, è un essere insieme nell’ascolto, e non sempre è facile esserlo, ascoltare è attenzione, che è preghiera, si ascoltano le parole che ci sono dette, ma anche quelle che non ci sono dette, e che parlano con la voce degli occhi, alcuni occhi sbranano, come diceva Elias Canetti, e dei volti, delle lacrime e del sorriso. Quando ci incontriamo con una persona, la dovremmo guardare negli occhi, e la cosa ha una enorme importanza non solo nella relazione fra medico e paziente, fra insegnanti e allievi nella scuola, ma anche fra genitori e figli. Non saprei parlare della violenza che oggi dilaga nelle parole che si dicono nelle più diverse aree tematiche della vita senza svolgere alcune considerazioni sulla fenomenologia delle parole che dovremmo ricordarci di dire.
Le parole sono creature viventi
Le parole sono creature viventi, le parole non sono mai inerti e mute, comunicano sempre qualcosa, sono impegnative per chi le dice, e per chi le ascolta, e una volta dette non ci appartengono più. Non c’è conoscenza se non seguendo il sentiero talora luminoso talora oscuro delle parole, ma ci sono parole che curano, parole che fanno del bene, e parole che fanno del male, e questo non ha importanza solo nella relazione fra medico e paziente, ma anche nella vita di ogni giorno. Sono le parole che ci consentono di essere in relazione con gli altri, con le persone che ci sono amiche, con quelle che ci chiedono di essere ascoltate, e con quelle che curiamo, se siamo medici. Non sempre siamo consapevoli dell’importanza che le parole hanno nel destare risonanze emozionali creative, e nel creare relazioni umane, che siano portatrici di serenità e di attesa, di conforto e di speranza, o invece di malessere e di sofferenza, di angoscia e di disperazione; ma non dovremmo mai dimenticarlo in ogni stagione della nostra vita.
Quando parliamo con una persona, cerchiamo di capire cosa ci dicano il suo volto e il suo sguardo, il suo sorriso e le sue lacrime? Non dovremmo mai dimenticare quello che ha scritto un grande scrittore francese, André Gide: nessuna parola giunga alle nostre labbra che non sia stata prima nel nostro cuore. Se lo facessimo, sapremmo trovare parole gentili che curano, e fanno del bene, parole che creano fiducia, e speranza, parole che ci allontanano dalla indifferenza e dalla violenza del linguaggio. Non so pensare a quanta consapevolezza noi abbiamo della importanza del linguaggio, che richiede in ogni caso riflessione e attenzione a quello che avviene nella nostra vita interiore, e in quella delle persone che la vita ci fa incontrare. Le parole che ci scambiamo in internet non bastano, e non servono, a metterci in una relazione dialogica con gli altri da noi, e semmai ci rendono partecipi di esperienze che non siano nutrite di emozioni.
Grande è la responsabilità delle famiglie e della scuola, degli strumenti di comunicazione, nel ridare importanza alle parole viventi, alle parole che hanno un suono, senza disconoscere i significati della comunicazione digitale, ma rimarcandone i limiti, e circoscrivendone le aree di comunicazione che in essa tendono ad essere astratte, ed estranee ad ogni contenuto emozionale.
Come riscoprire le parole gentili?
Le parole che non fanno male, le parole che aiutano le persone che vivono nel dolore, o nella disperazione, le parole che non consentono il linguaggio della violenza, non le troveremmo mai se non siamo capaci di immedesimarci nelle emozioni delle persone, che la vita ci fa incontrare. Non ci sono ricette, non ci sono consigli, in questo campo, ed è necessario affidarsi all’intuizione e alla sensibilità personali. Ci sono psichiatri e psicologi che non le hanno, e persone semplici che le hanno: sono qualità, almeno in parte, innate, e in ogni caso educabili. Non c’è comunicazione autentica se non quando si evitano parole indistinte e banali, ambigue e indifferenti, glaciali e astratte, crudeli e anonime. Ma è necessario educarsi a rivivere in noi le situazioni dolorose degli altri, e a immaginare quali parole vorremmo sentire dagli altri, se fossimo noi a stare male, e ad avere bisogno di parole che aprano il nostro cuore alla speranza.
Costa tempo, costa fatica, questa educazione alla immedesimazione nei pensieri e nelle emozioni delle persone che incontriamo; ma è un dovere al quale non dovremmo mai venire meno: solo così si può sperare in una rinnovata coscienza etica della vita.
Le relazioni quotidiane
Le parole sono essenziali nel creare relazioni quotidiane gentili e umane, invece gelide e ostili. Non ci sono insomma relazioni quotidiane, che non siano trainate dalle parole, dalla grande importanza che esse hanno nella vita. Non sono ovviamente un linguista, e non saprei inoltrarmi nelle selve oscure delle etimologie, e nondimeno nei lunghi anni di vita in psichiatria, in un manicomio in particolare, sono giunto a mano, a mano a conoscere quali parole dire, e quali non dire, quando ero in dialogo con le pazienti di cui mi occupavo. Le esperienze, che mi è stato possibile fare, mi hanno fatto conoscere l’importanza delle parole nella vita quotidiana, e la frequenza di quelle intessute di noncuranza e di indifferenza, di disinteresse e di apatia: premesse alla nascita della violenza del linguaggio.
Non ho potuto confrontarmi con un tema, come quello della violenza nel linguaggio nelle relazioni quotidiane, di questa radicale importanza, senza riflettere prima sulla fenomenologia e sulla dinamica del linguaggio delle parole: non c’è solo questo, certo, c’è anche il linguaggio del corpo vivente, dei gesti e dei volti, degli sguardi e delle lacrime, e c’è anche, non meno importante, il linguaggio del silenzio. Non dovremmo dimenticarlo, e in ogni caso vorrei ora continuare a riflettere sulla fenomenologia delle parole, e in particolare sulle risonanze, che esse possono avere nelle nostre quotidiane relazioni di vita, evitando le parole portatrici di aggressività e di violenza, che oggi riemergono così frequentemente.
Le parole divorate dall’indifferenza
Mille modi di essere in relazione, ma, prima ancora di parlare della violenza nel linguaggio quotidiano, vorrei dire qualcosa dell’indifferenza che ci porta a essere prigionieri dei nostri desideri e delle nostre attese, e a rifuggire dall’ascolto, e dalla ricerca, di quelli degli altri. L’indifferenza è una delle premesse a non interessarsi del valore e dei significati delle parole, essa crea il deserto in noi: il deserto dei tartari, così come ne parla Dino Buzzati nel suo bellissimo romanzo. La mattina, risvegliandoci, Friedrich Nietzsche diceva che dovremmo augurarci di fare durante la giornata almeno una buona azione: questa sarebbe la sconfitta dell’indifferenza, che si nasconde nella noia, nel disinteresse al dolore e alle sofferenze, nel venire meno al dovere della generosità e della solidarietà, e nella scelta di parole che non hanno risonanze risanatrici nella vita interiore degli altri.
Sono parole non ancora immerse nella violenza, ma fanno del male, generano malessere, e non di rado angoscia, nelle persone, in quelle adolescenti in particolare, con le quali ci incontriamo. L’egoismo e l’indifferenza che ne consegue, o che lo genera, sono i primi germi, i più diffusi, ai quali dovremmo fare attenzione, e ai quali invece non pensiamo, distraendoci, e smarrendo gentilezza e umanità. La violenza nel linguaggio la riconosciamo facilmente, ma non ci accorgiamo che anche parole divorate dall’indifferenza fanno soffrire gli altri che non riescono a difendersi. Le parole dell’egoismo e dell’indifferenza, le une sconfinanti nelle altre, le dovremmo riconoscere, ed evitare a ogni costo, perché sono pericolose ugualmente a quelle violente che sono più facilmente riconosciute nelle loro conseguenze. La violenza del linguaggio nasce da uno sconvolgimento etico ancora più radicale e sconvolgente.
La violenza del linguaggio
Il passaggio dall’indifferenza del linguaggio alla violenza del linguaggio si constata oggi con inquietante frequenza in molte condizioni sociali di vita. Basta andare in macchina, anche su strade provinciali, nemmeno molto trafficate, perché la violenza, e non solo l’indifferenza e l’insofferenza delle persone, si abbia a manifestare nei gesti e nelle parole. Il linguaggio violento si tocca con mano, ed è espressione di una raggelante indifferenza etica. L’andare in macchina, la cosa oggi più banale e più frequente, ci parla della violenza, che non è solo nelle parole, ma anche nei gesti che le accompagnano, causando indelebili ferite alla dignità e alla libertà, all’umanità e alla gentilezza, al rispetto e all’autonomia degli altri da noi.
Il linguaggio della violenza, che sradica le fondazioni etiche delle relazioni quotidiane, dilaga in aree sempre più vaste della vita: da quelle della vita quotidiana a quelle della vita politica. La violenza del linguaggio lascia ferite che non si rimarginano, e continuano a sanguinare; e la cosa è così diffusa che non ce ne accorgiamo. Dall’iniziale indifferenza ai valori delle relazioni quotidiane si passa così alla violenza agghiacciante delle parole, e da queste non si torna più indietro, inaridendo ogni fonte etica della vita. Non dimentichiamoci mai di riflettere sul destino delle parole che diciamo, e talora di quelle che dovremmo dire, e non diciamo, a causa delle nostre paure, e delle nostre negligenze.
La violenza del linguaggio non si manifesta solo quando si è in macchina, ma anche, e in misura ancora più pericolosa, in alcune trasmissioni televisive, in alcuni articoli giornalistici, e nella vita politica. Le relazioni quotidiane ne sono deformate e lacerate nei loro orizzonti di senso, conducono all’esasperazione, e alla creazione di esistenze imprigionate nei grovigli di individualismi, perduti a ogni possibile speranza. Ma la violenza delle parole rinasce nei suoi aspetti più devastanti, direi, nelle forme di espressione politica che raggiungono dissonanze intollerabili. Le parole, quelle che ho cercato di indicare nelle loro sfere semantiche gentili e comunitarie, ne sono sfigurate, non comunicano se non rabbia e aggressività, ritorsioni e violenza, ai confini di una umanità ferita e lacerata. Ciascuno di noi dovrebbe impegnarsi nel recuperare linguaggi e comportamenti educati e gentili, aperti all’ascolto e alla solidarietà, estranei a ogni forma di violenza.
Quale salvezza?
Solo recuperando il valore delle parole, e cogliendone le fragilità e gli orizzonti di senso, è possibile immaginare di moderare il flusso continuo e inarrestabile della violenza del linguaggio. La gentilezza è la forma di vita, antitetica a quella divorata dall’indifferenza e dalla violenza, che dovrebbe essere illustrata nella sua ragione d’essere nella scuola primaria e nelle scuole secondarie. In alcune scuole austriache questo avviene, illustrando il tema non meno importante della follia, considerata come dolorosa possibilità umana, e non demonizzata come esperienza di vita insignificante e desertica. A questa degenerazione etica non ci sarà salvezza se non insegnando nelle scuole il significato umano e rivoluzionario delle parole, e quello della gentilezza, che si dovrebbe accompagnare a ogni momento della nostra vita, e che nobilita la condizione umana: la psichiatria conosce bene queste cose che non si stanca di ripetere. Sì, in psichiatria parole sbagliate e immotivate, sconsiderate e indifferenti, sono causa di dolore e di angoscia, di ferite dell’anima, che possono non guarire più, e allora mi augurerei che queste mie pagine, nutrite di anni e anni trascorsi nel mondo misterioso della follia, possano essere di un qualche aiuto nelle riflessioni sugli infiniti orizzonti di senso delle parole, e in particolare sulla loro incompresa fragilità.
La violenza delle parole non è se non la premessa, voluta, o non voluta, alla violenza delle azioni, ed è allora un tema di radicale attualità. Non dovremmo mai dimenticarlo.
Indicazioni di lettura
Agostino, Le confessioni, Einaudi, Torino 1966.
E. Borgna, La follia che è anche in noi, Einaudi, Torino 2019.
E. Borgna, Saggezza, il Mulino, Bologna 2019.
E. Borgna, Il fiume della vita. Una storia interiore, Feltrinelli, Milano 2020.
D. Buzzati, Il deserto dei tartari, Mondadori, Milano 2016.
E. Canetti, Il gioco degli occhi, Adelphi, Milano 1995.
A. Gide, La sinfonia pastorale, Frassinelli, Torino 1953.
F. Hoelderlin, Tutte le liriche, Mondadori, Milano 2001.
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884, Adelphi, Milano 1976.
L. Serianni, Il sentimento della lingua, il Mulino, Bologna 2019.
Beata debolezza
di Enzo Bianchi
Prima di organizzare dibattiti e confronti su un tema oggi evocato con frequenza come quello della “fragilità”, occorrerebbe fare con intelligenza una distinzione tra fragilità, debolezza, vulnerabilità e imperfezione. Altrimenti si fa confusione e non si accede a una consapevolezza che aiuti il nostro cammino di crescita umana.
Certamente viviamo in un contesto di relativismo, di oblio delle esigenze morali e di fuga dalla fatica che incoraggia una certa inerzia e che non può non diventare debolezza spirituale. Anche la crescita delle ansie esistenziali e delle paure di fronte alla vita stessa, al futuro, alla morte, al fallimento, hanno alimentato un clima di depressione che porta a rimuovere le virtù da conseguirsi con fatica, mentre incoraggia la fragilità. Vulnerabili siamo tutti noi in quanto esseri umani: ma la fragilità è altra cosa e non va confusa!
“Vulnerabilità” significa capacità di essere feriti, apertura ed esposizione all’altro: l’altro che ci sta davanti e ci mostra il volto con le sue ferite e il suo pianto ferisce anche noi, ci fa soffrire e ci porta alla compassione, al “soffrire insieme”. Essere vulnerabili è una grande possibilità di comunione anche perché la vulnerabilità non solo non esclude la fortezza, ma può incitarci all’acquisizione di questa virtù, tanto necessaria per poter aiutare con responsabilità e intelligenza l’altro che soffre.
La fragilità invece è il male che ci coglie a causa della vita, della malattia, delle vicende del mondo. Dalla fragilità vorremmo “essere liberati” perché è un impedimento alla pienezza della nostra vita.
Oggi c’è un elogio della fragilità che è insensato. Viene fatto da impotenti e inerti, ma va giudicato con chiarezza come giustificazione di una vita nella quale si rifiuta la fortezza per un equivoco: la fortezza infatti non è violenza, non è un vile prevalere sugli altri, ma è capacità di resistenza, di saldezza, di resilienza, di pazienza, di makrotymía, capacità di continuare a pensare in grande e a vedere in grande.
Per questo le persone fragili sono riconosciute da chi sa di essere fragile e sono conosciute nel faccia a faccia, guardandosi negli occhi, nel mettere la mano nella mano, nell’abbracciarsi. Abbracciare un corpo deforme o malato, dare la mano a un mendicante, dare un bacio a un povero, accogliere un viandante in casa, è vivere la beatitudine di chi riconosce e discerne l’uomo fragile, dicono i salmi nella Bibbia.
E infine possiamo dire che la debolezza è una consapevolezza spirituale della nostra situazione: siamo sempre deboli, ma è vero che in certi momenti sprofondiamo in una debolezza che rasenta la morte. Nonostante la lotta contro la tentazione cadiamo nel compiere il male, falliamo nel fare il bene, contraddiciamo l’amore. Gregorio Magno dice che se non fossimo deboli e soggetti a cadute e a fallimenti nella vita penseremmo che il bene che facciamo viene da noi e non da Dio. E arriva a dire con molta audacia che i peccati che facciamo, soprattutto quelli impuri, sono un rimedio all’orgoglio. Ma è il grande san Bernardo che dopo una vita in cui comandava al papa e ai re vive una crisi profonda: esce dal monastero e va a vivere da solo, in una capanna nella foresta. E qui confessa a causa dei suoi peccati il fallimento della sua vita da monaco, il fallimento del cammino verso la santità che si era prefisso. Ne esce come un uomo spogliato e canta: O optanda infirmitas! O beata desiderabile debolezza!
Portatori di un dono nuovo
Carlo Molari
Ogni situazione della nostra esistenza può essere vissuta in modo da consentirci di crescere come persone autentiche. Noi possiamo vivere tutte le situazioni, anche quelle causate dal peccato e dalla violenza degli uomini, in modo da renderle spazi di novità, stimoli di rinnovamento, occasione di profezie. Da farne cioè luoghi di crescita per noi e per gli altri. Ma non siamo in grado di farlo da soli. Sono i rapporti con gli altri, gli incontri, le esperienze storiche che ci consentono di crescere, offrendoci ogni giorno possibilità nuove. Non è sufficiente essere nati, per poter vivere intensamente e neppure per poter sopravvivere. Occorre che qualcuno ci offra continuamente la possibilità di crescere. Ciò non vale solo per i più piccoli ma per ogni uomo. Anzi più la persona è grande e più esige offerte intense e profonde. Solo che mentre gli adolescenti, i giovani e soprattutto gli adulti sono in grado di cercarsi da soli ambienti di offerte vitali e di muoversi per allargare gli orizzonti e intensificare i rapporti, gli infanti ed i fanciulli sono costretti all'ambiente e quindi necessariamente condizionati dalle offerte di vita che concretamente essi ricevono.
Quando, nell'orizzonte della fede, diciamo che la salvezza è dono di Dio, intendiamo appunto esprimere questa nostra condizione di creature: abbiamo bisogno di accogliere la nostra perfezione dagli altri. L'amore di Dio, infatti, non è efficace per noi se non quando diventa amore di persone umane: gesto e sorriso di madri e di padri, affetto di amici o di sposi. Ognuno di noi porta per gli altri un dono che è più grande di sé, un dono che però non può trattenere nelle sue mani, ma deve saper offrire perché la vita non venga tradita e possa esprimersi in tutte le sue forme.
Soprattutto quando avvertiamo da qualche parte situazioni di emarginazione, di solitudine, ricordiamo che a nessuno è possibile uscire dalla sua condizione se altri non gli tendono la mano.
Oggi, forse, per qualcuno siamo noi i portatori di un dono nuovo. Come altri forse sono pronti ad offrirci la loro presenza, se saremo attenti ad avvertirla e ad accoglierla senza riserve.
Pensiamoci, oggi, quando ci si offrirà un incontro
Alla porta del mistero
Bruna Capparelli
Il libro Una goccia di Dino Buzzati comincia così: «Una goccia d’acqua sale i gradini della scala. La senti? Disteso a letto nel buio, ascolto il suo arcano cammino. Come fa? Saltella? Tic, tic, si ode a intermittenza. Poi la goccia si ferma e magari per tutta la rimanente notte non si fa più viva. Tuttavia sale. Di gradino in gradino viene su, a differenza delle altre gocce che cascano perpendicolarmente, in ottemperanza alla legge di gravità. Questa no: piano piano si innalza lungo la tromba delle scale».
Leggendo riconoscevo tutte le mie domande sul mistero, a cui Buzzati dava cittadinanza in me. Ma che cosa è il mistero?
***
Nel mondo antico i misteri (dal greco stare a bocca chiusa) erano riti iniziatici nei quali si entrava in contatto con il divino. Con il cristianesimo, il termine passò a indicare i sacramenti, che segnano l’incontro tra l’uomo e Cristo, il mistero per eccellenza: l’unione tra umano e divino.
Ma il mistero non è solo una realtà religiosa: nel Novecento, Gabriel Marcel ha distinto il problema dal mistero: il primo è ciò che non ha ancora soluzione, ma, se pur a fatica, sarà risolto, come i problemi matematici o pratici; il secondo è un orizzonte di verità, non possiamo risolverlo una volta per tutte, ma approfondirlo dà senso alla vita perché fa crescere l’anima che vogliamo avere, come di fronte al mistero del dolore o della morte.
Rimuovere il mistero o ridurlo a un problema da risolvere è tipico dell’ebbrezza tecnologica (la morte sarà sconfitta, il dolore eliminato…), ma questa illusione ci rende infantili. L’uomo maturo, invece, affronta i problemi e resta di fronte al mistero senza fuggire.
Così fece Buzzati, come scrisse il poeta e amico Eugenio Montale nel suo necrologio:
«Tutta la realtà, la vita stessa, gli oggetti erano per lui segnali dell’altrove, erano una porta che un giorno avrebbe potuto aprirsi. E Dino poteva tranquillamente ostinarsi a bussare. E così fu per lunghi anni». Con la scrittura e la pittura l’autore bellunese continuava ad ascoltare il mistero, come fanno le anime semplici, proprio come accade con la goccia: «Non siamo stati noi, adulti, raffinati, sensibilissimi, a segnalarla. Bensì una servetta del primo piano, piccola ignorante creatura. Se ne accorse a ora tarda, quando tutti erano già andati a dormire. Corse a svegliare la padrona. “Signora! C’è una goccia, signora, una goccia che vien su per le scale!”. “Che cosa?”, chiese l’altra sbalordita. “Una goccia che sale i gradini!”, ripeté la servetta. “Va’, va’”, imprecò la padrona. “Sei matta? Torna a letto! Hai bevuto, vergognosa!”».
Anche oggi, chi segnala e indaga il mistero, cioè tiene viva la domanda su Dio, sul destino, sul senso della vita, viene spesso preso per ingenuo, ubriaco o pazzo. Buzzati non rinunciò a questa indagine sino all’ultimo istante della sua vita, come il protagonista della sua opera più bella, Il deserto dei Tartari (1945), a torto ritenuta tragica da chi vuole ignorare il «misterioso» sorriso finale del protagonista. Infatti di quel libro Buzzati diceva: «È il libro della mia vita, perché quando stavo scrivendo capivo che avrei dovuto scriverlo per tutta la durata della mia esistenza e concluderlo solo alla vigilia della mia morte».
Buzzati mi ha insegnato a non temere la paura, perché fuggirla significa perdere i doni «misteriosi» che porta con sé. Chi non ha paura della morte, del dolore, della solitudine, degli eventi inattesi… cioè di tutte «le gocce che salgono» nelle nostre notti interiori? Ma solo affrontando la paura si trova il coraggio, come ha fatto Buzzati che, ricoverato in ospedale, sente che la fine è vicina e chiede alla moglie di fargli la barba: «Voglio che la morte mi trovi in ordine».
Morì baciando un crocifisso, benché non si dicesse credente. Ma chi è il credente, se non colui che, aderendo alla realtà, continua a bussare alla porta del mistero fino all’ultimo istante?
Le virtù quotidiane
Carlo Molari
Vorrei raccogliere e sviluppare alcuni spunti sulle virtù quotidiane che qua e là ho avuto occasione di richiamare.
Virtù, dal latino «virtus», significa potenza, forza operativa, coraggio e indica, nell'uso comune, la capacità abituale di agire correttamente nelle diverse situazioni dell'esistenza.
Virtù sono, quindi, le abitudini buone acquisite con la ripetizione costante di atti.
Come i vizi sono le abitudini perverse e difettose, le virtù sono le abitudini buone e positive. Il criterio della bontà o della imperfezione di una abitudine operativa è la pienezza umana, la crescita della persona, la convivenza sociale, lo sviluppo di un gruppo o di un popolo.
Quando un modo abituale di comportarsi arricchisce di umanità e apre nuovi orizzonti di vita sociale, è una virtù.
Le virtù non si improvvisano ma risultano da una lunga serie di atti compiuti successivamente e con intenti buoni.
Non sono sufficienti atti ripetuti anche perfettamente per acquisire virtù, è necessario che anche le loro ragioni siano perfette.
Se, ad esempio, uno si esercita nella assistenza agli ammalati, ma la ragione delle sue azioni è o il guadagno o il desiderio di fare carriera o la stima dei colleghi, le abitudini che acquisisce non avranno quei caratteri di delicatezza, di rispetto, di dedizione che derivano invece dall'attenzione all'ammalato in quanto uomo sofferente. Le eventuali abitudini derivate dall'esperienza costituiranno capacità tecniche ma non virtù morali. I gesti buoni compiuti aiuteranno il malato a guarire, ma non avranno quella forza di vita che deriva invece da azioni umane autentiche.
Così non sono sufficienti le abitudini acquisite per influsso dell'ambiente o per tendenze naturali. È necessario che questi fattori, pure importanti, vengano personalizzati, diventino cioè espressioni di scelte libere, del dominio intégrale della propria realtà interiore.
Solo allora i gesti umani avranno quella carica vitale che comunica vita e che fa crescere persone.
Anche oggi, amici, con piccoli gesti buoni, compiuti per ideali autentici, possiamo rinsaldare le nostre virtù, contribuire al miglioramento della nostra esistenza e del nostro ambiente
Non sapere
Chandra Candiani
Ho sempre avuto la sensazione scomoda e stupefacente di non sapere niente. A scuola mi sembrava che, anche studiando qualcosa, le lacune aumentassero a dismisura, fino a farmi smettere anche solo di provare a colmarle. Restavo allibita dal non sapere.
Lo stesso poi con la letteratura e con la poesia: piú leggevo e piú mi sfuggiva tutto di mano.
Imparando a meditare, sono entrata in familiarità lentamente, lentamente, con il non sapere. Mi accorgevo che meno sapevo piú sperimentavo. E piú tardi, cercando di passare agli altri la pratica della meditazione, mi sono accorta di come chi sa o crede di sapere molto sperimenta solo esperienze di seconda o di centesima mano, non è mai in intimità con niente, non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra. Perché il sapere dell'esperienza non si può accumulare, l'esperienza inganna come tutto il resto, se credi di poterla ripetere quando ti addentri nei territori del non conosciuto. Non ci sono primi della classe, né esperti, né Maestri, se non quelli che ti spingono a conoscere in prima persona, a ferirti e medicarti, e al massimo ti preparano bende e cerotti per quando sosti un momento e li guardi disperato negli occhi: la disperazione dei cani quando non capiscono i nostri comportamenti discontinui. In ognuno di noi c'è un cane spaventato dalla discontinuità dell'esperienza.
Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora.
La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore piú ferito della terra.
Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c'è sempre, anche in. città. E guardare. A lungo. Si apre un universo minimo. Infinite vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre piú piccole man mano che lo sgitardo si limita a vedere. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura.
(Questo immenso non sapere, Einaudi 2011, pp. 8-9)
Fedeltà
Carlo Molari
Le riflessioni fatte sulla fede ci possono aiutare a comprendere il valore di un'altra virtù che le è profondamente legata anche nel nome: la fedeltà.
Essere fedeli è un esercizio di fede continuato nel tempo.
Fedele è colui che è costante nella dedizione e nell'amore, che mantiene la parola data, che trasmette senza deformazioni i doni ricevuti, che segue anche nei momenti difficili gli ideali ritenuti autentici.
Tutti siamo pronti a fare propositi, ad assumere impegni, ad enunciare promesse. Ma raramente siamo costanti nella loro attuazione. Perché troppo spesso le ragioni reali delle nostre scelte non corrispondono ai valori che pensiamo o diciamo di seguire.
Esaminiamo un esempio concreto. L'impegno che una persona assume nel matrimonio è di volere il bene del coniuge e dei figli, di farli crescere con la propria dedizione.
Molto spesso però le ragioni vere della promessa sono diverse: o l'attrattiva fisica e quindi il piacere, o la volontà di sistemarsi e quindi il proprio interesse, o la fuga da casa e quindi la propria libertà, o la ricchezza, e quindi il proprio benessere, o altro ancora.
Quando l'oggetto reale della scelta matrimoniale non coincide con il bene altrui l'infedeltà all'impegno preso prima o poi si manifesta. Essa in realtà caratterizza fin dall'inizio il rapporto ma resta mascherata finché non è messa alla prova.
Lo stesso può dirsi di tutti gli impegni umani: di lavoro, di amicizia, di famiglia, di sport, di appartenenza a una comunità civile. Tutti richiedono fedeltà non solo nei comportamenti, ma pure nelle ragioni che li ispirano.
La ricchezza di una comunità si regge sul grado di fedeltà che vi circola, oltreché sull'autenticità degli ideali proclamati.
È urgente che siano sempre più numerosi coloro che per fedeltà alla vita sappiano piegare il loro egoismo, vincere i loro istinti di possesso esclusivo, creare nuovi modelli di condivisione e di solidarietà.
Se vogliamo che la vita si sviluppi proviamoci tutti, amici, a essere oggi fedeli agli ideali in cuí crediamo: nelle piccole cose, nelle scelte di ogni momento.
La fedeltà non si misura dalla eccezionalità degli atti che compiamo, ma dalla adesione totale alle ragioni che li ispirano. Essa può essere incondizionata anche in un minimo gesto di amore.
Una giornata degna dell'uomo è sempre scandita da gesti di fedeltà.
Speranza
Carlo Molari
Una fede vissuta intensamente, in molte occasioni si esprime come speranza.
La speranza è la fede declinata al futuro.
il complesso delle attese attraverso le quali ci è dato di crescere come persone.
Nessuno però nasce capace di sperare. Nelle prime fasi dell'esistenza siamo portati a identificare gli oggetti della nostra immediata esperienza come risposte adeguate alle nostre attese. E spesso questo atteggiamento ci accompagna anche nella vita successiva.
Se non impariamo a sperare, perciò, saremo portati a moltiplicare le nostre illusioni: a pensare che un oggetto, una situazione nuova, una persona siano sufficienti a riempire la nostra vita, a rendere sensate le nostre attese.
Ogni stagione della vita, allora, è caratterizzata da illusioni diverse. Gli adolescenti si infatuano di amici o di amiche, i bambini si identificano con i loro giocattoli, gli adulti si inebriano di successi, di piaceri, di potere, di ricchezze rincorsi affannosamente come soluzione dei propri problemi vitali. Ma tutto poi delude o richiede di essere ripreso in forme nuove. Ciò che di fatto si attende non giunge mai. L'uomo risulta sempre più grande di tutte le risposte che la storia gli offre.
Educarsi alla speranza, allora, non implica modificare o ampliare ogni giorno i suoi oggetti, ma essere capaci di attendere il compimento personale e gli sviluppi dell'umanità senza cedere alla stanchezza.
Educarsi alla speranza significa mirare al termine senza fermarsi alle tappe intermedie, maneggiare le cose e incontrare le persone con la coscienza della loro relatività e della loro insufficienza; fare progetti certi di doverli continuamente superare; affrontare gli eventi con l'atteggiamento di chi attende un dono per andare oltre.
Sperare non significa però scavalcare gli eventi della storia, ma attraversarli crescendone come persone e come comunità. Coscienti che essi sono il riflesso di una risposta senza rimandi, di una soluzione senza residui, che però solo attraverso di essi si offre ad ogni uomo.
Imparare a sperare è la condizione per vivere tutte le situazioni senza rimpianti e crescere attraverso di esse.
Anche oggi, certamente ci sarà chiesto di esercitare la speranza e di indurre in altri attese sensate.
Non tradiamo la vita con la pigrizia o con l'infatuazione. Le cose e le persone sono simboli pieni di risonanze. Cogliamole con fedeltà e conosceremo le gioie profonde della speranza.
Quella luce che ci aspetta tutti
Riccardo Maccioni
Al di là delle inquietudini e dei problemi più o meno grandi che possiamo incontrare, chi ha fede crede che ad attenderlo ci sia un futuro di luce. Questo non significa prendere sottogamba le difficoltà ma viverle senza farsene schiacciare, con la leggerezza e la sapienza di chi è "nel" mondo senza essere "del" mondo. Belle parole si dirà, che però non tengono conto delle urgenze quotidiane, che sembrano dimenticare quanto dolore possa serbare in sé la nostra esistenza, specie quand’è appesantita dal dolore di un tradimento, dalla sofferenza di una malattia, dall’angoscia per la scomparsa di una persona cara. Non si tratta naturalmente di un invito all’indifferenza, il Signore ci insegna anzi ad affrontare i problemi senza trascurarne nessuno, facendolo però nel modo giusto, cominciando dal confidare nella forza della preghiera. Come testimonia Joseph Folliet (1903-1972) sacerdote, giornalista ed educatore francese che ci aiuta a riflettere su cosa troveremo al termine del nostro cammino.
«Io credo, Signore,
che al termine del cammino
non c'è ancora da camminare
ma la fine del pellegrinaggio.
Credo, Signore,
che alla fine della notte
non c'è più notte
ma l'aurora.
Credo, Signore,
che alla fine dell'inverno
non c'è più inverno
ma la primavera.
Credo, Signore,
che dopo la disperazione
non c'è ancora disperazione
ma la speranza.
Credo, Signore,
che al termine dell'attesa
non c'è ancora attesa
ma l'incontro.
Credo, Signore,
che dopo la morte
non c'è ancora morte
ma la vita».
Il senso del limite. Inabissarsi nella propria piccolezza.
Per far fiorire il «vero sé»
Paolo Squizzato
Il termine “limite” deriva da due differenti sostantivi latini, limes (limitis) e limen (liminis). Il primo indicava la linea, il sentiero sul terreno che segnava la divisione, il confine di due campi, due territori, due domini. In termini militari era la strada presidiata dai soldati, la strada fortificata; pertanto un’accezione negativa di confine, di barriera invalicabile. D’altro canto, la parola limen significa “soglia”, nella duplice accezione di “varco”, “apertura” oppure qualcosa che impedisce di proseguire oltre, qualcosa di costrittivo, angusto, soffocante, castrante.
Erano detti limites anche i grossi massi che gli antichi romani posavano a margine del loro territorio, pietre che non potevano essere rimosse perché ritenute sotto protezione di divinità, chiamate Limite o Termine. Il limite è dunque qualcosa di sacro, luogo dove abita una presenza divina, perciò qualcosa di fecondo, di vivo.
Quindi il concetto di limite si espande fino a comprendere anche quello di possibilità. C’è una possibilità: non oltre il limite, ma nel limite stesso.
La questione non è dover sempre superare il limite per fare esperienza del nuovo, ma sapere che in quel preciso limite si possono esperire nuove possibilità. Abitando il limite, e non necessariamente scavalcandolo, si sperimentano forze, energie nuove. Accogliendo – ma assolutamente non accettando – il proprio limite, si fa esperienza di qualcosa di nuovo in noi.
Il domenicano brasiliano, scrittore e teologo Carlo Alberto Libânio Christo (1944), più noto come Frei Betto, nel suo saggio Dai sotterranei della storia ha scritto: «L’uomo scopre sé stesso solo quando è collocato di fronte ai propri limiti».
Etty Hillesum (1914-1943) scrive nel suo diario: «L’attività passiva del soffrire rettamente implica sopportazione ed accettazione di ciò che non può mutare e grazie a questo si liberano nuove forze» (Diario 17.3.1941). Nel vivere in maniera consapevole e attiva la situazione di limite, senza poter fuggire o rifugiarsi in luoghi consolatori, si sperimenteranno nuove forze, energie magari ritenute prima del tutto sconosciute.
Riportiamo un’esperienza. Siamo nel 1975. Il grande pianista statunitense Keith Jarrett (1945) deve tenere un concerto all’Opera di Colonia. C’è sold out: i 1400 posti del teatro sono stati tutti venduti. Il concerto fa parte di un tour cominciato due anni prima. Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito. Jarrett suona solo su un Bösendorfer 290 Imperial da 97 tasti; i comuni pianoforti ne hanno 88. Jarrett ha bisogno di spaziare sia verso i bassi che verso gli alti con tutta libertà. Il pianoforte è sì un Bösendor fer ma non con quella estensione e soprattutto è incredibilmente scordato e ha un pedale rotto. Jarrett ha 29 anni ed è già molto famoso in tutto il mondo; non può permettersi di sbagliare un concerto nel suo primo grande tour europeo. Lascia il teatro indispettito. Ha deciso di non esibirsi. Va a cena. L’organizzatrice del concerto è una giovanissima donna di 19 anni. Quel concerto era l’occasione della sua vita. Supplica Jarrett di tenere il concerto, promettendo di farlo accordare; recuperare il pianoforte pattuito è impossibile.
Ma il musicista è convinto. Non suonerà. La ragazza in pianto e disperata gli dice: fallo per me. Alla fine, Jarrett accetta. Lo strumento è accordato, ma molto al di sotto delle esigenze del pianista. Le ottave più basse e quelle più alte – oltre a non avere le ottave estese come desiderava – non erano accordate perfettamente.
Alle 23.30 Keith Jarrett sale sul palco e succede l’incredibile. Per un’ora il pianista americano improvvisa musica. Usa esclusivamente la parte centrale e limitata della tastiera. Proprio perché sa che il pianoforte non è adatto, ci mette un’energia e un’intensità che i suoi fan non hanno mai visto e che non vedranno mai più.
Jarrett ha accettato di muoversi nel limite impostogli dalle circostanze ed è nato un capolavoro. The Köln concert è considerato oggi il più famoso album jazz mai pubblicato, con 3 milioni e mezzo di copie vendute.
Altre storie possono esprimere bene il significato dell’esperienza del limite. Per esempio, quella dell’attore Nicholas James Vujicic. Primogenito di una famiglia serba cristiana, Nick Vujicic è nato a Melbourne in Australia nel 1982 con una rara malattia genetica: la tetramelia. Ciò significa che è privo di arti, braccia e gambe, eccetto i suoi piccoli piedi, uno dei quali ha tre dita. Inizialmente, i suoi genitori rimasero sconvolti per le sue condizioni. Nick ha imparato a scrivere usando le due dita del suo “piede” sinistro, e un dispositivo speciale che si aggancia al suo grande alluce. Ha anche imparato a usare un computer e a scrivere usando il metodo “punta tacco” (come fa vedere durante i suoi discorsi), a lanciare palle da tennis, rispondere al telefono, radersi e versarsi un bicchiere d’acqua (mostra anche questo nei suoi discorsi). Ha cominciato a viaggiare come uno speaker motivazionale, concentrandosi sull’argomento dei giovani di oggi. Ha tenuto discorsi anche in molte aziende, in quanto il suo scopo era quello di diventare uno speaker ispiratore internazionale. Viaggia regolarmente per parlare a congregazioni cristiane, scuole, imprese. Fino a oggi ha parlato a più di due milioni di persone, in dodici Paesi di cinque continenti.
Straordinario poi il cortometraggio Il circo della farfalla del 2009 per la regia di Joshua Weigel: si racconta la storia di un circo particolare, dove chi vi lavora vive una vera e propria metamorfosi. È un mondo nel quale ognuno, nella sua diversità, ha un posto. Dove tutti vengono incoraggiati a scoprire le proprie potenzialità e si aiuta chi ancora non ha avuto il coraggio o la capacità di trovarle. Dove non ci sono primi posti e ultimi. Dove non esistono raccomandazioni. Dove le persone non si sentono sminuite perché viene detto loro che non ce la faranno mai. Un mondo dove le persone non devono vergognarsi di mostrare le proprie fragilità. Dove i propri sogni non devono essere nascosti. I lavoratori rimangono sempre loro, ma il direttore li trasforma aiutandoli a scoprire tutte le loro potenzialità. Li fa sbocciare. Non li cambia ma li aiuta a trasformarsi. Ciascuno con i suoi limiti, ma proprio grazie a queste persone straordinarie, bellissime.
«Se solo tu potessi vedere la bellezza che può nascere dalle ceneri, se tu potessi vedere ciò che di meraviglioso c’è in te. Più grande è la lotta e più glorioso sarà il trionfo! Non è importante dove sei ora, è importante dove stai guardando».
La Chiesa dovrebbe essere proprio un “Circo della farfalla”. Una comunità educante, che aiuta le persone a trasformarsi in donne e uomini capaci di volare, in virtù della bellezza, delle potenzialità che portano dentro di sé.
La Chiesa è la realtà, madre, che deve fornire ali di farfalla a chi si è sempre ritenuto un verme. La storia ci dice che spesso è stata l’istituzione matrigna a tarpare le ali.
Ciò che per troppo tempo è stato insegnato e trasmesso è il dovere di angelicarsi. Diventare angeli. No. Viviamo nel limite, ma possiamo trasformarci attraverso quello che siamo e non malgrado ciò che siamo. Abitiamo il limite.
Il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz (1947) nel suo libro Il filo infinito scrive: «La felicità sta nel perimetro». A ciascuno di noi il compito di abitare il limite, stare dentro il nostro perimetro, ma non come tomba mortifera, ma come luogo di possibilità per poter spiccare il volo.
Vuoto
Siamo stati abituati a riempire la vita, l’agenda, le giornate di tante cose per non venire a contatto col vuoto che ci abita. E quando il tempo e le circostanze ci inducono finalmente ad abitarlo, ne proviamo orrore. È tipico dell’Occidente infatti l’horror vacui.
Il primo a usare questa espressione è stato Aristotele per dire che «la natura rifugge il vuoto».
L’angoscia per i luoghi molto ampi dove c’è senso di vuoto in psicologia è considerata una vera e propria patologia cui si è dato il nome di agorafobia o cenofobia.
Del resto, tuttavia, anche se non si arriva a tanto, tutti abbiamo sperimentato talora come la sensazione di vuoto prenda alla gola e allo stomaco. Ci si ritrova disarcionati da ciò che si reputava incrollabile, sicuro e per sempre.
Il sentimento che prevale è quello dell’angoscia e della disperazione. Ma è tutto così solamente drammatico? O nelle situazioni di indubbia difficoltà, il vuoto può costituire qual cosa di positivo?
Come spiega molto bene nel libro Vivere le parole, dove ha raccolto i suoi interventi pubblicati nel corso degli anni nella rubrica “Abitare le parole” de Il Sole 24 ore, monsignor Nunzio Galantino (1948), che cita in proposito una considerazione di quel prete straordinario che è don Angelo Casati, scrive:
«Il vuoto cercato, accolto e custodito non è mancanza. È spazio denso, carico di dolore e di aspettative, di prospettive e di risorse. È spazio di libertà e di creatività. Può essere inizio di vita autentica e grembo di vita piena. A patto che siamo disposti a non privarci della “forza del vuoto, del privilegio della solitudine, della ricchezza della contemplazione e del lusso impagabile della distrazione” (A. Casati), diradando la fitta foresta di impegni e tornando a vivere nel regno dell’autentico».
Quindi c’è una positività del vuoto, come grembo fecondo, come possibilità, come forza a patto che se ne sappia diventare consapevoli. Fin da piccoli siamo stati educati a non lasciare spazi vuoti, a non essere inattivi.
La filosofa Simone Weil (1909-1943) afferma: «La grazia è senza sforzo». Semplicemente accade e non perché si sia posto previamente un atto – «non si può fare un solo passo verso il cielo» – ma perché, continua la filosofa – «se si contempla il cielo alla fine il cielo arriverà».
Viene alla mente, subito, un libro cult della cultura zen contemporanea, Lo zen e il tiro con l’arco del filosofo tedesco Eugen Herrigel (1884-1955). In questo breve prezioso romanzo si afferma che esiste una modalità di essere, precisamente uno stato «in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossibile – questo stato interamente libero da intenzioni, dall’Io, il Maestro lo chiama propriamente “spirituale”».
La trovo una definizione splendida di ciò che possiamo intendere per spiritualità, o meglio per vita spirituale. Se si vive a questo livello, si sperimenterà prima o poi l’accadimento della grazia, per dirla con la Weil.
La vera arte, esclamò allora il Maestro, è senza scopo, senza intenzione! Quanto più lei si ostinerà a voler imparare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio, tanto meno le riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà l’altra. Le è d’ostacolo una volontà troppo volitiva. Lei pensa che ciò che non fa non avvenga (da Lo zen e il tiro con l’arco).
Bellissimo: «Lei pensa che ciò che non fa non avvenga». Ma in fondo lo pensiamo tutti. Se non facciamo come può avvenire qualcosa?
La grazia è senza sforzo, appunto. È ciò che dice Lao Tse, il filosofo cinese vissuto nel VI secolo a.C. e fondatore del taoismo: «Il saggio, senza agire, opera».
E che ha detto anche Leonardo da Vinci: «L’artista, quanto meno opera, tanto più crea».
Il vuoto è aver eliminato l’ostacolo di una volontà troppo volitiva. Essersi sbarazzati del voler conseguire lo scopo a tutti i costi, del voler vedere realizzati i propri desideri. In fondo Gesù ci ha sempre messo in guardia da tutto ciò: «Chi perderà la propria vita la salverà» (Mc 8,35).
Il vuoto non è “niente”, è grembo della possibilità. Fare tana nel vuoto significa “mollare la presa”, stupendosi – come detto sopra – che esiste una creatività indipendentemente dall’opera compiuta.
Mollare la presa significa vivere il distacco. Se ci distacchiamo da tutto – ci ricorda la tradizione mistica – emergerà ciò che è l’essenza vera dell’uomo, che non è né il corpo, né la psiche, ma il fondamento che non conosce mutamento, «la sostanza dell’anima» come direbbe il grande mistico spagnolo del XVI secolo Giovanni della Croce, Dio stesso. In questo modo si è giunti alla beatitudine, che non è semplice pia cere o felicità. È qualcosa che non dipende da fattori esterni, che rimane comunque, anche se tutto il resto crolla, e per questo non si ha più paura di nulla. La vita può conoscere eventi tragici, ma noi sappiamo che nel profondo dell’essere umano riposa un centro, il Logos, il divino stesso, un inalienabile fondo dell’anima che è ancoraggio, stabilità, grande beatitudine che non viene toccata neanche dall’esperienza più negativa che si possa verificare.
Se è vero che la divinità giace nel fondo dell’anima come ci ricorda la mistica, e se il nostro piccolo io, il nostro ego non sarà più ancorato, attaccato a qualcosa di esterno – aspettative, desideri, posizioni sociali, titoli – allora l’uomo cadrà inevitabilmente come la mela di Newton. Dove? Nella divinità. La divinità per natura, come la sabbia, l’acqua, riempirà tutto ciò che è vuoto. Possiamo dire che Dio rifugge il vuoto perché lo riempie. Meister Eckhart ha scritto: «Dove e quando egli ti trova pronto, cioè vuoto, deve operare ed effondersi in te, proprio come il sole non può fare a meno di effondersi, e nulla può trattenerlo, quando l’aria è limpida e pura».
Con la religione abbiamo tentato di creare, edificare, costruire per poter in qualche modo legarci alla divinità. Ma abbiamo sortito l’effetto contrario. Abbiamo offuscato la divinità, perché per farne esperienza è chiesto piuttosto un atto di decostruzione, fare spazio, sottrarre, e soprattutto sprofondare nel non-sapere di Dio.
Il primo libro della Bibbia ci ricorda che Dio ha “creato” il sabato, ovvero il giorno vuoto di attività umana; ogni lavoro è vietato. La sapienza ebraica si rese conto che è necessario per l’uomo vivere almeno un giorno alla settimana una dimensione di vuoto, astenendosi dall’opera, dai traffici, dall’edificazione per lasciarsi finalmente raggiungere. La vita è data da ciò che riceviamo e non tanto da ciò che produciamo. Si provi a pensare l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, l’amore che ci salva: non produciamo nulla: accogliamo tutto e ci compiamo.
Sempre la sapienza ebraica ci parla dell’obbligo della circoncisione per ogni figlio maschio. A otto giorni, il bambino ebreo viene circonciso, e attraverso questo taglio della pelle, l’asportazione del prepuzio egli entra nell’Alleanza, nell’abbraccio della divinità. A dire che l’esistenza proviene dal vuoto. Questa mancanza di pelle, ormai indelebile, questo vuoto, ricorderà per tutta la vita all’uomo, da una parte la sua incompiutezza, dall’altra il bisogno di lasciarsi raggiungere da ciò che è essenziale. La circoncisione è memoria costante che il vuoto, la mancanza è possibilità di unirsi in una relazione e lì compiersi.
Simone Weil insiste sulla necessità di rimanere nella situazione di non-ricompensa, che sia naturale o sovrannaturale. Attendersi qualcosa, dopo aver posto l’azione, in realtà non appartiene alla spiritualità, inficia la possibilità che possa raggiungerci ciò di cui abbisogniamo.
Questa rinuncia a una ricompensa – fosse anche Dio – è la conditio sine qua non perché qualcosa in realtà possa accadere. Questo non significa uccidere il desiderio, ma piuttosto desiderare senza aspirazione, senza aspettativa. Attesa vuota di oggetto. Desiderio senza desiderare qualcosa, nella consapevolezza che nel momento in cui vivremo questo vuoto di aspettativa, potrà finalmente raggiungerci qualcosa che avrà il sapore anche dell’impossibile. La Weil nel suo saggio L’ombra e la grazia scrive:
«La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo. Necessità di una ricompensa, di ricevere l’equivalente di quel che si dà. Ma se, facendo violenza a questa necessità, si lascia un vuoto, si produce come una corrente d’aria; e sopravviene una ricompensa sovrannaturale. Non verrebbe se si avesse un diverso salario: è quel vuoto a farla venire. Accade lo stesso con la remissione dei debiti (cosa che concerne non solo il male che gli altri ci hanno fatto, ma anche il bene che abbiamo fatto loro). Anche in questo caso si accetta un vuoto in se stessi. Accettare un vuoto in se stessi è cosa sovrannaturale. Dove trovar l’energia per un atto che non ha contropartita? L’energia deve venire da un altro luogo. E, tuttavia, ci vuole dapprima come uno strappo, qualcosa di disperato; bisogna, anzitutto, che quel vuoto si produca. Vuoto: notte oscura. L’ammirazione, la pietà (l’unione di questi due elementi, soprattutto) conferiscono una energia reale. Ma bisogna farne a meno. Bisogna rimanere qualche tempo senza ricompensa, naturale o sovrannaturale. È necessario farsi una rappresentazione del mondo in cui ci sia del vuoto, perché il mondo abbia bisogno di Dio. Ciò suppone il male. Amare la verità significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte. L’uomo sfugge alle leggi di questo mondo solo per la durata di un attimo. Istanti di sosta, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Sono questi istanti a renderci capaci di sovrannaturale. Chi sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane sovrannaturale, o cade. Terribile rischio, ma è necessario correrlo; e persino, per un momento, senza speranza. Ma non bisogna precipitarvisi. […] Nel mio diventare nulla, Dio ama se stesso, in questo nulla. Ama il vuoto. L’attaccamento alle cose mi fa vedere le cose, me stesso, in un certo modo. Un modo distorto. Illusione».
Giovanni della Croce, in tutte le sue opere e in particolare nella Salita del Monte Carmelo, dice che per giungere al vuoto – e quindi per lasciarsi abitare dalla divinità – bisogna attraversare la notte e le notti. Per compiere la salita al Monte di Dio, occorre fare il vuoto, passando attraverso numerose notti. Ecco uno dei passi più noti di questo suo trattato, che si gioca tutto sul paradosso:
«Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente. Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente. Per giungere a essere tutto, non voler essere niente. Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente. Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi. Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai. Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai. Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei. Quando ti fermi su qualche cosa, tralasci di slanciarti verso il tutto. E quando tu giunga ad avere il tutto, devi possederlo senza voler niente, poiché se tu vuoi possedere qualche cosa del tutto, non hai il tuo solo tesoro in Dio.
In questa nudità lo spirito trova il suo riposo poiché non desiderando niente, niente lo appesantisce nella sua ascesa verso l’alto e niente lo spinge verso il basso, perché si trova nel centro della sua umiltà. Quando invece desidera qualche cosa, proprio in essa si affatica» (Da Salita del Monte Carmelo, libro I, cap. 13, 11-13).
Giovanni dice: la fede non è una credenza. Può cominciare come credenza, un atteggiamento tipico del bambino, ma poi matura sino al non-credere-nulla. La fede è semplicemente conoscenza dello Spirito nello Spirito. Non si tratta di credere a questo e a quello, sarebbe dogmatismo, immagini, fantasie. Il santo carmelitano invita a togliere via tutto questo, perché questo è ancora finito, quindi non infinito e quindi non Dio. Un Dio costretto nel finito è idolo. Sì – ecco l’estrema conseguenza – occorre toglier via anche le immagini del divino, quindi la religione, il religioso. La rappresentazione.
«L’immaginazione, la raffigurazione chiude le fessure dalle quali potrebbe giungerci la grazia», dice la Weil. La grazia, si è detto, è dono impossibile che si rivela nell’impossibile.
Taulero (1300-1361), un altro grande mistico tedesco contemporaneo di Meister Eckhart, in uno dei suoi sermoni par la della pesca notturna e miracolosa di Gesù coi discepoli (Lc 5,3-8). Tutta la notte i discepoli lavorano, s’affaticano ma non prendono nulla. Ma proprio perché hanno sperimentato questo nulla hanno potuto trovare il Nulla, ossia Dio, che è il puro nulla. È l’esperienza del servo inutile del vangelo: «Un servo inutile compie opere inutili. No, veramente, nessuno vuol essere un servo inutile. Ognuno vuol sempre sapere di aver fatto qualcosa e là sopra egli costruisce segretamente e vuol esserne consapevole. No, cara figlia, non costruire che sul tuo puro nulla e gettati con ciò nell’abisso della divina volontà, qualsiasi cosa Dio voglia fare di te. […] Inabissati nella tua piccolezza, nella tua impotenza e ignoranza, e con ciò abbandonati all’alta nobiltà della volontà divina, e non lasciarti mescolare nell’altro, ma mantieniti misera e povera nella sua volontà» (Taulero, Sermone 63).
Fragilità, una risorsa
per restare umani
Bruno Meucci
Riconoscere le proprie fragilità è sempre stato un problema e lo diventa ancora di più in una società che ci vuole tutti perfetti. Esplorando le dinamiche che portano a negare le proprie debolezze e inadeguatezze, si comprende invece come la fragilità possa rivelarsi una risorsa necessaria per rendere migliore la vita di ognuno di noi e della società.
La fragilità come problema
«Sento forte il desiderio di svelare la mia fragilità, di mostrarla a tutti coloro che mi incontrano, che mi vedono, come fosse la mia principale identificazione di uomo in questo mondo. Un tempo mi insegnavano a nascondere le debolezze, a non far emergere i difetti, che avrebbero impedito di far risaltare i miei pregi e di farmi stimare. Adesso voglio parlare della mia fragilità, non mascherarla, convinto che sia una forza che aiuta a vivere». Così scriveva diversi anni fa Vittorino Andreoli, il celebre psichiatra, in un bel libro dal titolo L'uomo di vetro. La forza della fragilità (Rizzoli, Milano 2008). Viene un tempo, nella vita di ogni uomo, in cui bisogna imparare a convivere con le proprie fragilità, accettandole. E magari, come scrive Andreoli, scoprire come esse non siano qualcosa di cui vergognarsi, bensì una risorsa per vivere meglio con sé stessi e con gli altri. Da giovani combattiamo contro le nostre debolezze, nascondiamo i nostri difetti. Ci comportiamo come i nostri lontani cugini, gli oranghi, che si battono il petto per mostrare ai nemici quanto siano forti. Per mascherare difetti e paure, facciamo nostro il modello dell'uomo (e della donna) sicuro e compiaciuto di sé, di un uomo invincibile che, come recitava una nota pubblicità televisiva, non deve chiedere mai. Impariamo presto che la nostra timidezza è un handicap, la sensibilità rende vulnerabili, e che farsi rispettare significa imporre la propria volontà con determinazione e prepotenza. Fin da ragazzi ci insegnano che la vita è una competizione e che gli altri sono avversari da battere. La vita è una giungla, ci ripetono, mostra più grinta, colpisci prima di essere colpito, non aver paura di farti avanti, sgomita più che puoi, senza farti troppi scrupoli. Perché c'è anche la giustificazione morale: stai sicuro che gli altri farebbero lo stesso con te. E così impariamo a nascondere i nostri difetti, le nostre inadeguatezze, cercando ogni giorno di corrispondere all'immagine della persona forte, sicura, soddisfatta, a proprio agio nella vita. La nostra società ci vuole belli e fisicamente perfetti, bravi nello studio, abili nello sport, efficienti sul lavoro, a proprio agio nelle relazioni sociali, soddisfatti nella vita amorosa, in una parola sempre e comunque vincenti, quando sappiamo benissimo che non è così.
Andando avanti con gli anni, poi, il nostro corpo diventa più fragile, la mente più lenta, e per quanto cerchiamo di nascondere il più possibile gli effetti dell'invecchiamento, non li possiamo nascondere a noi stessi. A volte una grave malattia ci costringe all'inattività e ci toglie la possibilità di fare tutte quelle cose che facevamo prima. La morte di un conoscente o di una persona cara ci portano il triste annuncio che niente è per sempre in questa vita. Allora siamo posti di fronte ai nostri limiti, alla nostra fragilità di esseri umani. Siamo costretti a prendere atto che la fragilità non è un incidente di percorso, un pericolo che si può cercare di evitare, ma è parte costitutiva della condizione umana, caratterizzata dal limite, dalla finitezza e dalla morte. «L'uomo – scriveva Pascal nel suo frammento forse più conosciuto – non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa. Non serve che l'universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d'acqua è sufficiente per ucciderlo» (Pensieri, 186). Pascal insisteva su un genere speciale di grandezza (il pensiero) che consiste – ed è questo il paradosso della condizione umana –nella consapevolezza della propria fragilità o, per usare il termine pascaliano, della propria miseria. Il virus contro cui stiamo combattendo sta ricordando al mondo intero che, nonostante i progressi nei campi della scienza e della medicina, l'uomo è un essere fragile in balia delle forze della natura. E che sono sempre i soggetti più deboli a subire le conseguenze peggiori delle calamità naturali o delle crisi economiche e sociali: gli anziani, le donne, i giovani, i malati. La pandemia, inoltre, ha tolto il velo che teneva nascosta la debolezza del nostro sistema sociale, sanitario, economico, amministrativo. All'improvviso ci siamo resi conto che siamo soggetti fragili che vivono in sistemi sociali estremamente fragili. E che non possiamo farcela da soli, ma dobbiamo prenderci cura della nostra fragilità e di quella degli altri, perché tutti abbiamo bisogno di aiuto. E così, sembrerebbe evidente che al posto dell'individualismo e della competizione sociale – esaltati dal modello neoliberista e ora rilanciati dai sovranismi e dai nazionalismi solleciti verso i propri concittadini, ma indifferenti alla sorte degli altri – dovrebbero subentrare atteggiamenti e politiche ispirati alla compassione e alla solidarietà verso tutti, specialmente i più deboli. Ricordiamo l'ultimo messaggio della poesia di Leopardi che ci insegnavano a scuola? Nella Ginestra il poeta di Recanati affermava che di fronte al dolore e all'incertezza della condizione umana, esposta ai colpi di una natura indifferente, ci può essere una sola risposta: formare una «social catena» tra gli uomini riconoscendo di essere tutti accomunati dal medesimo destino. Insieme uniti possiamo fronteggiare meglio le sventure, aiutandoci gli uni gli altri, prendendoci cura a vicenda delle nostre fragilità. Da sempre, infatti, l'umanità ha combattuto la dura lotta contro i limiti dell'esistenza facendo ricorso alla collaborazione, al gioco di squadra, perché nessuno, veramente, può salvarsi da solo. È quello che ha voluto ricordare anche papa Francesco nella sua ultima enciclica Fratelli tutti dove cogliamo innanzitutto la sua forte preoccupazione per l'arresto di quel cammino di integrazione e di cooperazione internazionale che aveva caratterizzato la politica del secondo dopoguerra. «Un progetto con grandi obiettivi per lo sviluppo di tutta l'umanità oggi suona come un delirio. Aumentano le distanze tra noi, e il cammino duro e lento verso un mondo unito e più giusto subisce un nuovo e drastico arretramento» (Fratelli tutti, n. 16). La società sempre più globalizzata – scrive ancora il papa, citando Benedetto XVI – ci rende vicini, ma non ci rende affatto fratelli: «Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell'esistenza» (n. 12). Al contrario, Francesco ci ricorda che siamo tutti fratelli e che possiamo sperare di uscire indenni, e forse migliori, dalle crisi che l'umanità deve affrontare, nel presente e nel prossimo futuro, solo con politiche concrete di solidarietà e di cooperazione tra i popoli della terra.
Il mito della forza
Eppure, accettare la fragilità costitutiva della condizione umana e aprirsi alla dimensione dell'aiuto e della solidarietà non è per niente facile. Proprio in questi giorni di sofferenza e di disagio a causa della pandemia assistiamo a moti ripetuti di protesta contro i limiti imposti dalla situazione (ad esempio la battaglia contro l'uso della mascherina), tentativi di minimizzare il pericolo o addirittura di negarlo (facendo finta che non esista o inventando teorie complottiste), polemiche contro i governi che limitano quella possibilità quasi illimitata di movimento e di caccia al godimento di cui abbiamo usufruito fino a oggi. Accade perfino di sentir tornare fuori, con la rabbia e la stanchezza dei mesi in cui tutte le attività si sono fermate, la teoria della selezione naturale, di darwiniana memoria, secondo cui sarebbe un errore ostacolare il compito della natura, portando tutta la società sull'orlo del collasso, per salvare la vita di anziani e di malati. Non sarebbe meglio lasciar fare alla natura il suo lavoro, permettendo ai più forti di sopravvivere, come è sempre successo da che mondo è mondo? Pur di non ammettere che la fragilità dell'altro – dell'anziano – riguarda anche noi che un giorno saremo deboli e anziani, siamo disposti a riesumare non soltanto la legge della selezione naturale, ma anche il mito della giovinezza, della salute e dell'energia fisica, che credevamo scomparso con la caduta dei fascismi. Cosicché la pandemia, invece di aprire gli occhi sulla fragilità della condizione umana e sulla necessità di sentirsi solidali con la sorte degli altri, potrebbe stimolare la rinascita di egoismi e di chiusure ancora più nette e radicali.
Sul mito della forza ci sembra illuminante il giudizio di Virginia Woolf riportato in un piccolo libro di Alberto Meschiari dal titolo Lezioni di disumanità, dove in realtà è riprodotto il testo di una conferenza tenuta dall'autore al Cinema Teatro Astra di Parma il 18 marzo 2019. Meschiari spiega che, dopo l'aggressione alla Spagna repubblicana da parte dei regimi fascisti, nel 1936, la scrittrice venne interpellata da un'associazione antifascista inglese per rispondere alla domanda-come fare a scongiurare la guerra? Provocata dalla domanda, Virginia Woolf scrisse un saggio straordinario, Le tre ghinee, dove sviluppa una lucida argomentazione basata sul collegamento tra il fascismo e il maschilismo che dominava da secoli nei paesi occidentali, compresa l'Inghilterra. È in quella cultura patriarcale, in cui le donne sono tenute soggiogate, che la mentalità fascista affonda le sue radici, esaltando da un lato la forza fisica, la giovinezza e la violenza, e disprezzando dall'altro la sensibilità e la debolezza. «Quando mai un uomo ha interpellato una donna per sapere come, secondo lei, si possa prevenire la guerra? – si chiede Virginia [...]. Come possiamo comprendere un problema che è solo vostro? La nostra psicologia ci farebbe dire: "che bisogno c'è di combattere? È chiaro che dal combattimento voi traete un'esaltazione, la soddisfazione di un bisogno" che a noi donne è estraneo. Combattere "è sempre stata un'abitudine dell'uomo, non della donna". Uccelli e animali "li avete sempre uccisi voi, non noi" (A. Meschiari, Lezioni di disumanità, Edizioni Tassinari, Firenze 2019, p. 6). Così per secoli la cultura patriarcale ha suddiviso la società in soggetti deboli (le donne, i bambini) e forti (gli uomini) destinando questi ultimi a prendere il comando e a sottomettere i più deboli. Allo stesso modo, caratteristiche che appartengono a ogni essere umano a prescindere dall'età e dal genere, come la sensibilità e la consapevolezza della propria fragilità, sono state attribuite soltanto ai deboli, alle donne e ai bambini, come loro difetti naturali, mentre agli uomini, ai maschi adulti, è stato insegnato a respingerle come qualcosa di innaturale, degradante e vergognoso.
Il conflitto con la propria vulnerabilità
Quello che secondo la Woolf è un bisogno tipicamente maschile (il bisogno di combattere, di vincere, di affermare il proprio ego con la forza), nasce in realtà da un conflitto ancora più profondo che si manifesta precocemente in tutti i bambini. Ogni bambino, infatti, come spiega Martha C. Nussbaum, oscilla tra desideri narcisistici di onnipotenza e disperata consapevolezza dei propri limiti e della propria impotenza. Riportando numerosi studi di psicologi dell'età infantile, la Nussbaum scrive: «Appena nati, i bambini indifesi si trovano in un mondo che non hanno scelto e che non controllano. Le primissime esperienze del neonato oscillano in un'impressionante altalena fra beata sazietà, in cui tutto sembra ruotare attorno a lui per la soddisfazione dei suoi bisogni – proprio come nel ventre materno –, e una disperata consapevolezza di impotenza, quando le cose buone non arrivano al momento desiderato, e il bambino non può farci proprio nulla. I cuccioli dell'uomo hanno un livello di impotenza sconosciuto nel resto del regno animale – impotenza però combinata con un altissimo livello di capacità cognitiva. [...] Man mano che si sviluppano, i bambini diventano sempre più consapevoli di ciò che accade loro, ma non possono farci nulla. L'aspettativa di essere costantemente accuditi – l'"onnipotenza infantile" catturata così bene nella frase di Freud "Sua maestà il Bambino" – è unita all'ansia, e alla vergogna, di sapere di non essere affatto onnipotente, bensì del tutto alla mercé degli altri. Da quest'ansia e da questa vergogna emerge un desiderio impellente di compiutezza e pienezza che non scomparirà mai del tutto, anche quando i bambini impareranno di essere solo una piccola parte di un mondo di esseri limitati e bisognosi. Ed è questo desiderio di trascendere la vergogna dell'incompiutezza che genera tanta instabilità e precarietà morale» (Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino , Bologna 2011, pp. 47-48). Il desiderio narcisistico di essere onnipotente e padrone del mondo induce l'uomo non solo a rifiutare quegli aspetti che gli ricordano la sua condizione fragile e mortale, ma anche a proiettarli fuori di sé, in soggetti che egli comincerà a considerare come deboli, inferiori e degni di disprezzo: le donne, i bambini, i malati, gli anziani, i poveri, i migranti, tutti coloro che portano impressa e non possono nascondere l'impronta dell'impotenza e del bisogno di aiuto. Ed è così che si creano le gerarchie sociali, i forti al comando e i deboli al servizio, come pure le discriminazioni dei gruppi umani considerati inferiori perché socialmente deboli e indifesi. Non diversamente, anche Vittorino Andreoli sottolinea che la volontà di potenza nasce «come difesa dalla fragilità, dal non volerla accettare, incapaci di sopportare il limite e la condizione umana, immaginandosi parte di una élite divina scesa sulla terra per dominare e per dimostrare la propria immortalità, dimenticando che anche il Dio che si è fatto uomo è morto, morto sulla Croce» (op. cit., p. 26). Al contrario, una buona educazione dovrebbe aiutare il bambino, maschio o femmina che sia, ad accettare la propria fragilità, i propri limiti, e ad affrontare positivamente la sofferenza indotta dalla percezione della propria vulnerabilità. A questo proposito la Nussbaum ricorda che nell'Emilio «Rousseau fece della coscienza dello stato di debolezza dell'uomo il fulcro di tutto il suo programma educativo, affermando che solo la consapevolezza di tale stato ci rende socievoli e inclini all'umanità, per cui proprio la nostra inadeguatezza diventa la base della speranza in una comunità degna di questo nome» (p. 51).
Senza dubbio il conflitto con la propria vulnerabilità interessa maggiormente il maschio, a cui per secoli la società ha chiesto quasi unicamente prestazioni fisiche e intellettuali. È il maschio che si vergogna di manifestare le proprie emozioni, i propri sentimenti, la propria sensibilità. È il maschio che pretende sempre di farcela da solo, senza l'aiuto di nessuno. Ed è il maschio che ancora oggi considera la donna un oggetto di possesso da cui non sopporta di essere rifiutato. Dal momento, però, che i ruoli tra uomini e donne si stanno scambiando e che la società di massa si avvia verso una sempre maggiore omologazione, anche le donne devono fare i conti con le richieste pressanti di prestazioni e di risultati da parte di un mondo sempre più dominato dalle logiche della crescita e dell'efficienza tecnologica. Richieste alle quali si può rispondere solo mettendo da parte la consapevolezza della fragilità propria e degli altri, di tutto ciò che in altre parole non permette di essere all'altezza delle aspettative di un sistema che ricompensa solo il successo. Esiste, d'altra parte, un modello positivo di virilità che Francesco Piccolo nel suo libro, bello e coraggioso, L'animale che mi porto dentro (Einaudi, Torino 2018) chiama «virtuosa» e che contempla eroismo, moralità, altruismo, coraggio, lealtà, onestà, generosità, ma che purtroppo la nostra società propone di rado ai ragazzi che devono diventare uomini. Un modello che richiama alla mente le figure dei cavalieri della Tavola rotonda o quella di Parsifal, l'eroe giovane e generoso, che parte alla ricerca del santo Graal e che nel corso della sua ricerca dovrà fare i conti con le proprie paure, tentazioni e fragilità. Un esempio che forse, proprio per questo, è considerato obsoleto ai nostri giorni dove invece molto più facilmente prevale un modello di maschio compiaciuto della propria forza, arrogante e competitivo, nonché perennemente intento a mascherare la propria insicurezza in una società che peraltro pone profondamente in crisi i ruoli tradizionali.
La fragilità come risorsa
Se avessimo il coraggio di guardare in faccia i nostri difetti, le nostre debolezze, le nostre paure, se tutti imparassimo, fin da bambini, da adolescenti e da adulti, a considerare la fragilità una caratteristica costitutiva della condizione umana, probabilmente la nostra vita e quella della società sarebbero migliori. In primo luogo, diventeremmo più socievoli e andremmo a cercare nell'altro non un essere da dominare e da sfruttare per i nostri bisogni, ma un essere umano simile a noi, fragile come noi, con cui condividere i nostri desideri e le nostre paure, un altro a cui appoggiarsi per sostenerci a vicenda nel cammino doloroso della vita. La persona che sa di essere fragile è capace di comprendere la fragilità degli altri e di trovare i mezzi per alleviare il loro dolore. «Il dolore – scrive Andreoli – è la sostanza, l'ubi consistam della fragilità, e la fragilità genera una visione del mondo che tiene conto del bisogno dell'altro. Per la fragilità l'uomo cerca aiuto, cerca dei legami per scambiare fragilità, e appoggiando una fragilità a un'altra si sostiene il mondo» (cit., pp. 27-28). La fragilità permette oltretutto di affidarsi all'altro in una relazione d'amore che può nascere soltanto, come insegnava Platone nel Simposio, dal senso del limite che uno avverte dentro di sé: «Io sono tanto fragile da pensare sempre all'amore – scrive ancora Andreoli – nelle sue varie specificazioni, e sento la voglia di essere amato per poter amare: un circolo virtuoso per cui la voglia di amare coincide soltanto con l'essere amato: due fragilità si uniscono si fanno forza dentro il segreto, nel mistero dell'amore. Assieme all'amore esistono l'amicizia, la simpatia, la solidarietà: volti certo minori che però ne contengono l'essenza, il bisogno dell'altro» (cit., p. 14). Viceversa, l'uomo potente non sa e non può amare. Chi sceglie di negare la parte vulnerabile di sé si chiude nell'illusione della propria autosufficienza ed è l'uomo più miserevole che esista: rimarrà solo e odiato, senza aver mai potuto sperimentare neppure lontanamente la forza di un legame capace di dare coraggio anche nel dolore e nella morte. La fragilità non è un difetto, ma l'espressione della condizione umana. Nasciamo con la consapevolezza di dover morire. Proprio per questo la fragilità può diventare una risorsa insostituibile per creare amicizia tra gli esseri umani, per cercare insieme le soluzioni ai problemi che ci troviamo ad affrontare. Lo vogliamo riconoscere o no, tutti siamo fragili. Ammetterlo però è la cosa più importante perché è la condizione necessaria per costruire una visione della società che metta al centro la collaborazione e la cura, lo sviluppo e la protezione dei deboli, il progresso tecnologico e la salvaguardia della natura. Per dirla ancora con Andreoli: «Una società fragile non è una società debole, semmai è una società saggia» (cit., p. 30).
Il riconoscimento della propria fragilità è fondamentale anche nella vita spirituale, a tal punto che non esiste un vero e proprio cammino spirituale senza che esso sia accompagnato dalla consapevolezza dei propri limiti, della propria debolezza e del bisogno di essere aiutati. Non c'è niente nella vita cristiana che attiri maggiormente la misericordia di Dio che il pentimento sincero per i propri errori, per i propri peccati. Riconoscere che si è sbagliato, pur con le migliori intenzioni, anche se si voleva fare diversamente da come si è fatto, è la condizione preliminare per mettersi nella giusta posizione di fronte a Dio e per aprirsi ai doni della sua misericordia. Santa Teresa di Gesù scriveva che il riconoscimento della propria condizione di miseria non deve mai abbandonare neppure coloro che giungono alle vette più alte dell'orazione. La persona che si ritiene perfetta, infatti, non ha bisogno di ricevere niente da nessuno, neppure da Dio. E come potrà allora Dio continuare a ricolmarla delle sue grazie? Nella vita spirituale è una tentazione molto frequente quella di ritenersi perfetti o comunque impeccabili di fronte a Dio per il fatto di aver compiuto le giuste azioni o aver detto tutte le preghiere o aver celebrato molte messe (se si è un sacerdote) o aver manifestato a sé stessi le intenzioni più sante (se si è un religioso). A volte anche aver fatto la carità, aver aiutato i poveri, i malati, i morenti invece di far nascere un sempre più profondo sentimento di pietà per il dolore umano e di disperazione per la propria impotenza, può rafforzare un sentimento di orgoglio e di soddisfazione per essersi comportati da ottimi cristiani. Del resto, il peccato più grande nella vita spirituale è la superbia che si sviluppa soprattutto in quei cristiani che si dimenticano di avere dei difetti e non si riconoscono più di fronte a sé stessi, agli altri e a Dio come bisognosi di perdono. Famoso a questo proposito è il giudizio che un visitatore apostolico inviato presso il monastero femminile di Port Royal, alle porte di Parigi, sul finire del XVII secolo ebbe a scrivere nel suo rapporto: «Queste donne sono pure come angeli, ma orgogliose come demoni» (in G. Cucci, La forza della debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, AdP 2007, p. 88). Ogni relazione umana è un dare e un ricevere e lo stesso vale per la relazione con Dio: l'orgoglio si sviluppa quando facciamo pendere dalla nostra parte la bilancia del dare, pensando che abbiamo dato di più rispetto a quello che abbiamo ricevuto. Non si possono alimentare sentimenti di gratitudine e di amore per l'altro se sí pensa che tutto ciò che siamo lo dobbiamo unicamente a noi stessi. Per questo motivo, santa Teresa di Gesù sosteneva che il primo passo nel cammino spirituale consiste nel mettersi di fronte alla propria miseria, ma aggiungeva che il passo successivo è riconoscere la grandezza di Dio: perché non è possibile fare il primo passo (riconoscere la propria miseria) senza il secondo (riconoscere la grandezza di Dio). Solo di fronte all'infinita bontà di Dio, ad esempio, è possibile misurare quanto sia manchevole la nostra volontà di essere buoni. D'altra parte, Dio non sarebbe venuto a salvarci se non avessimo bisogno di essere salvati e non sarebbe venuto a guarirci se non avessimo bisogno di essere guariti. Tutti i racconti contenuti nei vangeli insistono sulla manifestazione della misericordia di Dio nei confronti della fragilità degli uomini e delle donne che Gesù incontra sulla sua strada. Povertà, malattia, morte, peccato, esclusione sociale, solitudine, disprezzo ed emarginazione: chi vive queste condizioni si apre più facilmente all'incontro con Gesù, riconoscendo in lui la manifestazione di un Dio diverso da quello della religione ufficiale. Viceversa, per coloro che si ritengono autosufficienti l'incontro con Gesù si trasforma in uno scontro, uno scontro di potere. E così anche dopo, nel corso dei secoli, coloro che lo accolgono veramente e lo seguono non appartengono a quelle categorie sociali orgogliose e fiere di sé, anche sotto il profilo religioso, ma a quelle che hanno realmente bisogno di essere riscattate da una condizione di miseria e di umiliazione.
(FONTE: Feeria, 2020/2 - n. 58 - pp. 9-14)
Una Quaresima di sconfitta e fragilità
Sergio Di Benedetto
Nel rimbombare continuo di voci e discorsi, di esortazioni e minacce, non si sente più la Parola; è il tempo di oggi, di queste settimane che viviamo, in un caos crescente, in posture sempre più retoriche e sempre più pericolose. Risuonano tante parole nel dire pubblico e mediatico, e queste parole non sono la Parola.
C’è un silenzio della Parola e di quelle parole che essa ispira; misericordia, perdono, amore, fraternità, accoglienza, bontà, servizio sono ormai parole tramontate.
Se guardiamo con coraggio al panorama che abbiamo di fronte, dobbiamo ammettere che siamo di fronte a una sconfitta: la Parola più non dice, la Parola più non parla. Il discorso è continuamente alimentato da violenza e sopraffazione. E alle parole seguono, tragicamente, i fatti.
È una sconfitta del Vangelo. Anche chi, con autorevolezza e convinzione, rappresentava pubblicamente l’unica voce credibile di umanità, radicandosi nella Parola, attraversa ora la fragilità estrema, la debolezza profonda, nel perimetro di una camera d’ospedale.
È una Quaresima vera, questa del 2025; dovrebbe essere quaresima giubilare, ma quanta distanza dal Giubileo del 2000, che aveva altre risonanze, altri orizzonti!
Eppure, oggi, questa sconfitta pubblica della Parola, questa debolezza del Vangelo, è Vangelo vero, è Vangelo autentico: cosa è la Quaresima se non il periodo in cui il cristiano si avvicina alla testimonianza radicale di Cristo in croce? Certo, abbiamo fede in una resurrezione, e sappiamo che i segni di vita ci sono, nonostante tutto l’apparato di azione e discorsi sembri affermare altro. Il bene c’è, e sopravvive. Ma oggi si fatica a scorgerlo.
Eppure questa è Quaresima: sconfitta, fragilità, silenzio.
Il cristiano vive lo smarrimento, in una preoccupazione per le sorti del mondo che lo rende compagno con gli uomini di buona volontà. Non è certamente la prima stagione buia della storia, non sarà l’ultima. Ma ogni stagione buia ha il suo peso, e noi, oggi, abbiamo questo da portare.
Quaresima vera, tuttavia, questa del 2025: perché ci fa accostare a Gesù che rimane fedele al Dio che rivela, fino alla fine, fino alla consegna della sua vita, di fronte alla menzogna e alla violenza.
Continueremo a sforzarci di vedere il bene, continueremo a cercare la verità della parola, continueremo a tentare prospettive di umanità. Ma non sarà da nascondere il silenzio della Parola: essa, in questi giorni, sembra ammutolita, sembra non risuonare più. Soffocata, ignorata o, peggio ancora, usata e strumentalizzata per affermare ciò che essa non è, ciò che essa respinge: il male, l’egoismo, la prepotenza, l’inganno.
Sono giorni in cui si può avvertire la tentazione dell’indifferenza, sopraffatti da troppo caos, da troppe ingiustizie. Sono giorni in cui la misura dell’impotenza del bene può spingere alla chiusura egoistica.
Invece, guardiamola negli occhi questa sconfitta, attraversiamo questa fragilità. Torniamo alla Parola, sostiamo sul Discorso della Montagna; ricordiamoci che legge della storia non è sola quella della forza, ma anche quella del Magnificat: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili».
Conversione
Carlo Molari
La vita sollecita ogni uomo a rinnovarsi costantemente. Ma ci sono fasi della vita personale e ci sono svolte nella storia umana nelle quali il rinnovamento è più urgente ed esige una maggiore radicalità: sono i momenti della necessaria riparazione del male passato e della accoglienza del nuovo che urge, l'occasione di un salto qualitativo nel livello di esistenza. In queste situazioni è necessario che persone singole e gruppi sociali sappiano rispondere fedelmente alle sollecitazioni della vita, perché essa possa continuare e le forme nuove di umanità sappiano aprirsi varchi sufficienti e possano diffondersi senza trovare resistenze. Questo periodo storico è riconosciuto da tutti come tempo di crisi o di passaggio di civiltà. Costituisce perciò un momento decisivo, una opportunità salvifica, una occasione per fare un passo avanti in umanità.
Chi vive la fede in Dio è certo che la conversione è possibile, perché si sa che la Parola creatrice, che alimenta lo sviluppo della Vita, quando trova persone accoglienti e ambienti fedeli è in grado di indurre o di comunicare ciò che ancora non ha mai potuto esprimere nella storia umana. Una comunità ecclesiale che vive teologalmente e mette Dio al centro non ha difficoltà a compiere una lettura dei segni dei tempi e quindi un discernimento attento per una conversione. Le carenze derivano abitualmente dagli ideali che ispirano la trama dei rapporti e le tensioni dei desideri. Fa difetto, cioè, la vita teologale. Di qui dovrebbe cominciare ogni autentica conversione.
Oscurità
Chandra Candiani
Quando chiudiamo gli occhi vediamo l'oscurità. Spesso non ci facciamo caso, perché popoliamo subito lo schermo vuoto di immagini, pensieri rapinosi, sogni, paesaggi. Ma si può anche contemplare l'oscurità. Gli occhi fermi del cuore guardano morbidi l'oscurità senza forma e si lasciano disfare lo sguardo. Liquefare opinioni, sicurezze, memorie, racconti abitua a contemplare l'oscurità di quando non capiamo, non afferriamo. Un incantato momento per non solidificare l'esperienza, per attraversarla come un pesce attraversa la massa d'acqua in cui vive senza domande.
Mentre lasciamo che il sottile movimento dell'oscurità ci smonti, possono arrivare le rivelazioni. Di colpo, sappiamo perché abbiamo abbandonato qualcuno, perché siamo stati abbandonati, perché ci disperiamo, perché stiamo scoppiando di vita: piccoli frammenti ci raggiungono e sappiamo. Il sapere oscuro salta nessi e passaggi e ci rivela verità nascoste da sedimenti di buon senso, di tempo, di facce da salvare, di dolori da cui difendersi.
Nei Fratelli Karamazov, lo starec Zosima dice: «Colui che mente a se stesso è certo il piú suscettibile d'offendersi». Se a poco a poco lasciamo che le nostre storture si staglino attraverso il buio e ci raggiungano navigando placide, cosa ci potrà piú offendere? Solo quello che non ci appartiene, e allora non c'è bisogno di offendersi: basta restituirlo al mittente perché l'indirizzo è sbagliato.
(Questo immenso non sapere, Einaudi 2021 - pp. 73-74)
Amore e bellezza
Bruna Capparelli
Ci innamoriamo e amiamo solo per la bellezza. Nessuno di noi ha desiderato avvicinarsi e conoscere qualcosa o qualcuno senza esserne prima sedotto. Questo principio di attrazione ha il suo fondamento ultimo qui: «Nessuno viene a me se non lo attrae il Padre». Tutte le volte che nell’ambito naturale (la grazia delle cose) o soprannaturale (la Grazia, dono di Dio a partecipare alla sua vita) la bellezza ci mette in movimento, sperimentiamo l’attrazione dell’Amore che ci trasforma, cioè vuole darci la sua forma, la sua essenza, per farsi tutto in tutti, pur mantenendo ciascuno la sua irripetibile identità.
Che ne sarebbe dell’abbraccio del padre che si china sul figlio sporco, ordinando anello, vestiti e banchetto di festa, se il figlio non fosse andato via e tornato, dopo aver sperperato tutto? La misericordia è una forma unica e ulteriore di bellezza, perché è la bellezza resa compatibile con il male, con la ferita, con la resistenza (forse solo Michelangelo è riuscito a scolpirla, quasi per errore, nella Pietà Rondanini). Si tratta di una bellezza che mostra le ferite (come accade con l’incredulo Tommaso) come credenziali di un’estetica nuova, in cui la vita ha attraversato e trasformato la morte, ma non per via immaginaria, perché ne porta i segni, producendo una meraviglia inedita rispetto a secoli di storia in cui il bello era soltanto armonia delle parti e il sangue doveva rimanere fuori dalla scena («osceno» appunto). Per ricordarselo, basterebbe fissare per qualche minuto la Pietà di Avignone che Enguerrand Quarton dipinse a metà del 1400: «Quando sarò elevato da terra attirerò tutti (o tutto) a me», la massima attrazione, fascinazione, bellezza, si dispiega proprio al massimo della sconfitta, la massima seduzione provocata dalla nostra più pervicace resistenza.
Tutte le volte che l’uomo si lancia a capofitto nella bellezza, in fondo a essa cerca Dio, anche le volte in cui quella bellezza anelata è frutto del cuore curvato su se stesso che, investendo di assoluto quel poco che gli resta da amare, lo fa diventare un’illusione di Dio: proprio allora, quel cuore deluso e spaccato, può aprirsi al Dio misericordioso. L’ubriaco ama la sua bottiglia perché in essa cerca Dio, il sensuale ama il suo piacere perché in esso cerca Dio, l’avaro ama il suo denaro perché in esso cerca Dio. Dio però non è «in» ma «oltre» la bottiglia, il piacere, il denaro. Che Dio? Il Dio misericordioso che lo seduce proprio lì, nell’ultimo tentativo auto-inventato dall’uomo per essere tutt’uno con ciò che ama, salvo poi esserne fatalmente e dolorosamente respinto per insufficienza di eternità di quella briciola di bellezza.
Forse proprio a quel capolinea abita Dio, per questo «pubblicani e prostitute» precedono chi si crede giusto, perché hanno toccato il fondo e oltre il fondo c’è il profondo, il sottosuolo teologico di Dostoevskij, cioè o la salvezza o la distruzione. C’è Dio, la cui regola è: «a chi molto viene perdonato, molto ama». In un attimo, con un paradossale «colpo di grazia» che dà vita e non morte, la nostra disperazione può trasformarsi in salvezza, fosse anche per il solo desiderio di avere una «vita nuova», come accadde a Dante, proprio mentre (in)seguiva Beatrice.
Non c’è bellezza piena senza ferita, come non c’è misericordia senza giustizia: non è venuto per i sani ma per i malati, che si riconoscono tali. Se il malato riconosce la ferita e la mostra a Dio, perché sa che altrimenti non potrebbe guarirne, la misericordia immediatamente lo raggiunge, anche di soppiatto, come quella donna che sapeva che le sarebbe bastato toccare la veste di Cristo per esser sanata, tanto da costringerlo al miracolo senza neanche chiederlo a voce, in mezzo alla folla che lo pressa. Egli, quasi che la guarigione gli sia scappata, chiede: «Chi mi ha toccato?». Toccare Dio con la propria ferita aperta è il segreto per sperimentarne la misericordia e vederne finalmente, senza più difese, la bellezza che tutto vince e avvince, bellezza antica e sempre nuova, che non è mai tardi per esserne sedotti, come accadde a un ladro e assassino, che ammise la sua colpa e si rivolse all’unico innocente della storia, e fu accolto in quel giorno stesso in Paradiso.
Non è il miracolo che fa la fiducia ma la fiducia che fa il miracolo. Infatti solo chi ha fiducia nella vita ne è curioso, aggettivo derivante da «cura»: chi ha cura del mondo non solo vede i miracoli, ma li fa. La fiducia non è un trucco, doping psicologico come il pensiero positivo, ma è una postura originaria di apertura alla realtà che dipende da quanto siamo amati: la fiducia deriva dalla forza dell’amore che ci genera in ogni istante, e consiste nel sapere, in ogni cellula, che questo amore c’è e mi vuole esistente.
L’uomo non è prodotto, come ci fa credere la tecnocrazia odierna, ma generato, e ri-generato quando fa esperienza di appartenere (essere amato), e può quindi sporgersi sulla vita senza essere paralizzato dalle vertigini che comporta. Questa appartenenza (legami liberanti, perché «assicurano» come quando si scala in montagna), effetto di ogni buona relazione, crea energia in questa sequenza: fiducia, coraggio, curiosità, scoperta, vocazione, creatività, gioia. Se l’appartenere a un amore che ci vuole esistenti non c’è o viene meno, si esaurisce l’energia vitale e la si deve elemosinare. Le dipendenze (legami bloccanti) sono contraffazioni dell’appartenere: poiché non si può non appartenere (essere in relazione) si accetta di dipendere, la schiavitù. Inoltre la fiducia è scalzata dal sospetto: distanza e paura di tutto. Il bambino non amato teme tutto, non è curioso ma insicuro, nessuno fa sicurezza alla sua esplorazione.
Meravigliarsi «stando fermi nelle nostre scarpe» (verso di una filastrocca di John Keats, 1818) è ciò di cui tutti abbiamo bisogno quotidianamente, perché se non troviamo bellezza almeno una volta al giorno perdiamo la capacità di abitare il mondo e amare la vita. La vera bellezza fa sentire a casa, anche quando ci mostra stanze oscure o chiuse. Come fa? Da un lato con la gratuità: ci regala la chiave della stanza senza che l’abbiamo cercata o meritata; dall’altro con l’armonia e la luce: ci assicura che ogni stanza è casa nostra, anche la più buia.
Il brutto ci priva della speranza che può salvarci: di contro chi è toccato dal bello, torna a sperare, perché riscopre che la sua vita ha ancora uno scopo. La bellezza non spiega quale sia lo scopo, ma assicura che ne esista uno. Lo sa bene il Matto del film La Strada di Fellini: «Tutto ha senso, anche questo sassetto. E se sapessi quale sarei il Padre Eterno. Ma se questo sassetto è inutile, allora tutto è inutile. Anche le stelle». Lo dice a Gelsomina in una scena indimenticabile in cui la donna è disperata perché la sua vita le sembra del tutto inutile. Il Matto è un artista ambulante, un acrobata-clown capace di trovare il sublime nel quotidiano, il bello stando nelle sue povere scarpe, e per questo non perde mai il buon umore e ridona la speranza a chi lo guarda. Consola il dolore di Gelsomina con la bellezza del creato, perché la bellezza, grazie alla gioia che provoca, fa sperimentare e sperare in una certa «salvezza».
Anche Modigliani cercava queste aperture sacre nei volti dei suoi ritratti e nei loro occhi, che spesso rappresentava vuoti, a volte uno vuoto e uno pieno, ma raramente li dipingeva entrambi. Che si trattasse della moglie Jeanne, di una poetessa come Anna Achmatova, di un mercante d’arte o di una bambina, Modigliani rendeva trasparenti il corpo o il volto dei suoi soggetti, perché manifestassero l’anima: per questo allungava i colli e deformava le fattezze, perché il corpo non fosse apparenza, ma evidenza della verità che spesso cerchiamo di nascondere, ma che è invece la nostra unicità. Se dipingeva un occhio solo era perché – diceva – era quello rivolto al mondo, mentre l’altro era impegnato con il proprio mistero. Aveva imparato dagli antichi, i quali credevano che l’anima risiedesse nell’occhio e per questo la chiamavano «pupilla», diminutivo di pupa (bambola, bambina): per loro l’anima era la piccola immagine riflessa al centro dell’occhio. I ritratti di Modigliani, mostrando un esterno che è in realtà un interno, ci ricordano che l’irripetibile bellezza di una persona risiede in ciò che la «anima» (dal greco anemos: soffio), il soffio della vita o di Dio che dà la vita, ragione ultima per cui bellezza e sacro spesso si identificano.
Senza bellezza, almeno una volta al giorno, smettiamo di abitare la vita, divenendo stranieri proprio a casa nostra, proprio nelle nostre scarpe.
Compassione
Chandra Candiani
La pratica della compassione inizia portando al cuore, evocando, un essere (non necessariamente un essere umano) che sappiamo che sta soffrendo. Richiamiamo la sua immagine, non lo pensiamo, lo chiamiamo e lo vediamo, lo sentiamo vicino. Quando c'è, quando è vicino, iniziamo a sentire la bellezza del legame, del filo invisibile, anche quando fa male. E da quel mal di cuore partiamo per inviargli frasi di auguri: «Che tu sia libero dalla sofferenza, che tu possa aver cura di te, che tu possa trovare le giuste cure». Sentire il legame non significa precipitare nell'altro e restarne sommersi, non sarebbe piú un legame, ma un'identificazione, una fusione che non fa bene a nessuno dei due. Sentiamo il leggero filo forte che ci lega, lo onoriamo e poi mandiamo le ampie frasi di auguri che non significano che pretendiamo di salvare, di fare magie, ma solo che trasaliamo e vibriamo per la sofferenza dell'altro. Il Buddha non era un salvatore, ma un uomo che al suo Risveglio si è trasformato in una strada e l'ha lasciata aperta a tutti, ha insegnato a percorrerla. Era una Via antica, piú antica di lui, che conduce fuori dalla sofferenza. La sofferenza di soffrire, di ignorare il dolore e le sue cause, la sofferenza di non smettere di aggrapparci e di respingere quel che ci capita. Uscire dalla sofferenza significa riscrivere la relazione con la gioia e con il dolore, con noi stessi e con gli altri, attraversare, traghettare. Significa piena accoglienza di qualsiasi cosa ci capiti. Questa accoglienza prepara all'azione, è non agire in attesa dell'azione intonata.
Proseguendo nella pratica della compassione, passiamo quindi a sentire la nostra sofferenza e ad augurarci di esserne liberi. Sentire la propria sofferenza significa non essere piú identificati, sentirla come un tuono, come un gelo, come un fuoco. Dove? In quali punti del corpo? Senza narrazione, ci inoltriamo sulle sue tracce, nelle sue zone e ascoltiamo, assaporiamo, raccogliamo. Geografi della sofferenza, impariamo l'arte della conoscenza, la sua gioia. Non è piú cosí importante quale sia l'oggetto del conoscere, piacevole, indifferente o spiacevole: conta di piú il movimento della conoscenza del flusso di sapori, fino a quello della vastità in cui tutto si svolge, il cuore smisurato della compassione.
Ovviamente per arrivare a sentire la sofferenza come un oggetto di conoscenza ci vogliono tempo e addestramento, può emergere rabbia, desiderio di vendetta, senso di colpa, disperazione. Vanno sentiti uno a uno, nel loro tessuto, consistenza, tono, non credendo a quello che dicono ma anche non giudicandoli come malvagi e respingendoli negli angoli bui. E c'è il contenitore, c'è lo spazio in cui tutto questo affiora e si muove e prima o poi si dissolve. Lo spazio resta, e assaporare lo spazio sgombro del cuore fa respirare l'illimitato, apre a un'assenza di categorie che è vitalità del silenzio.
Inviare a se stessi le frasi di augurio, «che io possa essere libero dalla sofferenza, che io possa averne cura», e soffermarsi a riceverle, ci porta in dono quello che abbiamo sempre cercato altrove.
(Questo immenso non sapere, Einaudi 2011, pp. 50-53)
Accogliere Dio nella nostra vita nella preghiera
Carlo Molari
La preghiera richiede almeno due condizioni da parte della persona per essere significativa ed evitare i rischi della presunzione: la fede in Dio, la consapevolezza di essere creatura e la disponibilità a interiorizzare l'azione divina in modo da rivelarla nella propria vita.
La fede in Dio creatore significa ritenere che il Bene urge per diventare in noi amore umano, che la Verità cerca di esprimersi in idee, che la Giustizia sollecita progetti di condivisione, che la Bellezza vuole assumere inedite forme create, e aprire il cuore con fiducia per accogliere la vita. Pregare è appunto registrare le proprie capacità percettive perché la forza creatrice giunta a livello umano possa dispiegarsi in tutta la sua portata. La vita non diventa mai possesso definitivo della creatura, ma viene sempre offerta e richiede per questo accoglienza continua. Tutto è dono e resta sempre tale. L’uomo non diventa mai il Vivente. La condizione per realizzare una interiorizzazione piena è la consapevolezza che la creatura è un nulla attraversato continuamente da una forza creatrice, un vuoto che risuona sempre di una Parola originaria. Quando la persona opera con tale convinzione, si lascia investire dalla forza creatrice e consente alla Parola di attraversarla, rendendola viva
La preghiera può essere una lotta con Dio, nella notte oscura
Bruno Forte
Credere implica il continuo combattimento con una Alterità che non può essere “risolta” né “fermata”. Spesso le ore del buio sono il tempio privilegiato delle rivelazioni divine
È stato da poco pubblicato per le Edizioni Shalom il libro di Bruno Forte La preghiera cristiana. Un’introduzione. Ne presentiamo alcuni stralci, tratti dal capitolo terzo, intitolato “La notte oscura”.
La fede non è possesso scontato né facile certezza: piuttosto, è lotta, agonia e, a questo prezzo, pace e gioia del cuore. Lotta fu l’esperienza di Giacobbe al guado (Genesi 32, 23-33): come per lui, così per chi crede il Dio vivente è l’assalitore notturno, tutt’altro che il “Deus mortuus”, proclamato dalla ragione ideologica, o il “Deus otiosus”, esiliato dalla ragione strumentale. Credere implica la continua lotta con una Alterità, che non può essere “risolta” né “fermata”. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede ed essa sarà combattimento, resistenza e resa, come testimonia il profeta Geremia: «Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Mi dicevo: Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Geremia 20,7. ).
Veramente il Dio della fede è “fuoco divorante” (Deuteronomio 4,24; Isaia 33,14; Ebrei 12,29). In questo senso per credere si ha sommamente bisogno della preghiera, esperienza per eccellenza della lotta con Dio. La “noche oscura”, di cui parla San Giovanni della Croce, è in realtà il luogo delle nozze mistiche: Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella povertà della Croce, nella morte a sé stessi, nella notte dei sensi e dello spirito. Solo dopo aver portato il credente nel fuoco della desolazione, il Dio rivelato e nascosto si offre come il Dio delle consolazioni e della pace: «Dio, se ci vuol rendere viventi, ci uccide» (Lutero). Dio non è risposta, è promessa e custodia: in Lui stanno l’ultima Parola e l’ultimo Silenzio, anche se qui ed ora ci è dato di accoglierli soltanto nella speranza.
Diversamente da ogni ideologia, che lascia l’uomo prigioniero di sé, la fede è un continuo convertirsi all’Altro, un continuo consegnare il cuore a Dio, cominciando ogni giorno in modo nuovo a vivere la fatica di sperare e di amare in compagnia del Figlio abbandonato alla morte per noi, per risorgere alla vita con Lui. Questa notturna esperienza di Dio, che la fede fa nella sequela di Cristo, questa conoscenza vespertina, che anela alla domenica senza tramonto, intravista nella speranza, ma non ancora posseduta, è appunto la preghiera. Perciò nessuna negligenza della preghiera è ammissibile per la fede, nessuna preghiera indolente, statica e abitudinaria. La fede orante dovrà essere sempre interrogante e viva, anche dubbiosa, capace ogni giorno di cominciare di nuovo a consegnarsi all’Altro, a vivere – pregando – l’esodo senza ritorno verso il Silenzio di Dio, dischiuso e celato nella Sua Parola.
Quest’anima pellegrina della preghiera è resa stupendamente dal grido del salmo: «Svégliati, mio cuore, svégliati arpa, cetra, voglio svegliare l’aurora» (Salmi 57,9). Sveglia l’aurora chi aspetta con impazienza nella notte l’avvento del giorno, chi conosce il desiderio del cuore assetato di luce, proteso verso il momento in cui passi l’oscurità e spunti la stella del mattino. In questa condizione di lotta nella veglia, ritorna la domanda: «Sentinella, quanto resta della notte?» (Isaia 21,11). Come il “servus lampadarius”, che portava la fiaccola per illuminare la via nella notte, così la Parola ci aiuta ad accettare i volti della notte per discernere quanto manca all’aurora e quale sia la via da percorrere per andare incontro alla luce del mattino: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Salmi 119,105). Pregare è stare in ascolto della Parola, ruminandola fino ad aprirsi agli abissi del Silenzio che in essa risuona e cui essa schiude, perché si apra la strada nella notte.
È per questo che occorre vegliare nella notte, come servi del Signore, discepoli dell’Amato, in preghiera: «Ecco, benedite il Signore, voi tutti, servi del Signore; voi che state nella casa del Signore durante le notti» (Salmi 134,1). Nella notte Gesù ama vivere l’esperienza del Padre: «Gesù se ne andò sulla montagna e passò la notte in orazione» (Luca 6,12). La Sua preghiera è attesa, amando nella notte il Volto nascosto. La notte, peraltro, è anche il tempo privilegiato delle rivelazioni divine: gli oranti sono spesso i notturni cercatori di Dio. Così è per Abramo (Genesi 15,17); così per Giacobbe a Betel quando fa il sogno della scala che unisce il cielo e la terra (Gen 28,11); così per Elia all’Oreb (1 Re 19,9); così per Daniele e le sue visioni notturne (Daniele 7,2). Chi crede avanza nella notte verso la luce del mattino. Perciò il canto mistico può dire: «O notte più amabile che l’aurora, o notte che hai congiunto l’amata con l’Amato, l’amata nell’Amato trasformata!» (San Giovanni della Croce, En una noche oscura, Strofa V). È di questa preghiera notturna, assetata di luce, che sono testimonianza le parole che Teresa di Lisieux consegna a uno dei suoi testi autobiografici più impressionanti, che dicono della preghiera come lotta e come resa più di ogni astratta riflessione: «Gesù mi ha fatto sentire che esistono davvero anime senza fede. Ha permesso che l’anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte, e che il pensiero del Cielo, dolcissimo per me, non fosse più se non lotta e tormento. Bisogna aver viaggiato sotto quel tunnel cupo per capirne l’oscurità. Signore, la vostra figlia ha capito la luce divina, vi chiede perdono per i suoi fratelli, accetta di nutrirsi per quanto tempo voi vorrete del pane di dolore e non vuole alzarsi da questa tavola piena di amarezza alla quale mangiano i poveri peccatori prima del giorno che Voi avete segnato. Ma osa anche dire a nome proprio e dei suoi fratelli: Abbiate pietà di noi Signore, perché siamo poveri peccatori! O Signore, che tutti coloro che non sono illuminati dalla fiaccola limpida della fede vedano finalmente...» (Scritto autobiografico C, 1897, numero 276).
Respirare meglio
Alessandro D'Avenia
«La sua inconfondibile voce poetica che con l’austera bellezza rende universale l’esistenza individuale». Questa la motivazione con la quale gli accademici svedesi hanno assegnato il Nobel per la letteratura alla settantasettenne poetessa americana Louise Glück.
Che cosa significa che una vita è universale? Universo, come dice la parola, è ciò le cui parti sono legate in unità: tutte le cose co-spirano, cioè respirano insieme, in armonia. La poesia intercetta questo respiro che unifica la vita dispersa in migliaia di frammenti. Infatti nel suo Cantico, poesia con la quale si inaugura la letteratura nella nostra lingua, Francesco d’Assisi chiama fratello e sorella ogni cosa, persino la morte, perché ogni cosa è figlia della Vita.
I poeti, credenti o meno, hanno fede in questa Vita con la maiuscola, tanto che lo stesso Leopardi scriveva nel suo diario: «della lettura di un pezzo di vera poesia, in versi o in prosa, si può dir quello che di un sorriso diceva Sterne: aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita» (Zibaldone).
Per i poeti la vita si fonda sulla Vita, la prima è un soffio breve, la seconda un respiro inesauribile, al quale attingere quando ci manca l’ossigeno. Dei poeti diciamo infatti che sono ispirati, perché ci donano quel respiro. E noi possiamo essere ispirati?
Affido la risposta a Wisława Szymborska, Nobel nel 1996. Nel ricevere il premio la poetessa polacca disse: «L’ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di persone visitate dall’ispirazione. Sono tutte quelle che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici, maestri, giardinieri così, per non parlare di tante altre professioni. Malgrado difficoltà e sconfitte, la loro curiosità non viene meno. L’ispirazione nasce da un incessante “non so”. Di persone così non ce ne sono molte. La maggioranza lavora per procurarsi da vivere, perché deve. Non sceglie il lavoro per passione, sono le circostanze a farlo per loro. Un lavoro non amato, che annoia, è una delle più grandi sventure umane».
Tutti noi quando arriviamo in riva al mare o in cima a una montagna inspiriamo forte, vogliamo trasformare in respiro, nostro, la bellezza là fuori. Il nostro corpo vuole essere «in-spirato», ricevere lo «spirito» che dà Vita. Per questo, durante l’estate, chiedo ai miei studenti di tenere un taccuino, in cui fermare i momenti di ispirazione. Quando uno di loro appunta un pensiero, una citazione, un fatto, un dolore, una gioia… apre un varco nella vita che si ripete, noiosa ed effimera, per far entrare una Vita più grande, che ci guarisce dal non senso e dalla dispersione, e trasforma il caos in universo, come quando Dante in Paradiso dice di aver visto: «legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna».
E così a partire da quegli appunti frammentari, da quei momenti di essere ancora grezzi, chiedo ai miei ragazzi di costruire una poesia, non, come dice Leopardi, necessariamente in versi, perché l’importante è che le parole rendano trasparente l’ispirazione, l’eternità dell’istante, il momento di essere, per poi, in qualsiasi altra ora, ri-viverlo e farlo ri-vivere, motivo per cui è bene imparare a memoria le poesie: un pozzo di essere a cui attingere sempre. Così il singolo respiro diventa universale, non più effimero, individuale, solitario…
Non è un trucco didattico che li illude di essere poeti, ma un formidabile esercizio di realtà come diceva un altro Nobel: «Curiosando tra gli appunti di un poeta troviamo crocette e segni, molti ripensamenti: che cosa è successo? Il poeta ha corretto i propri impulsi iniziali. Nel processo compositivo egli fonde il razionale con l’intuitivo. Il poeta è l’animale più sano: combina analisi e intuizione — analisi e sintesi — per giungere alla rivelazione. Per questo la poesia è il più efficace acceleratore mentale. Leggerla e scriverla offrono lo strumento di conoscenza più rapido ed economico che io conosca» (Iosif Brodskij, Conversazioni).
Eppure i libri di poesia occupano spazi irrisori sugli scaffali. Molti si lamentano di non comprenderla, e hanno ragione perché è lei a dover comprendere (cum-prendere: abbracciare) noi, che spesso però non siamo disponibili al silenzio, alla pazienza e a credere ancora nella Vita.
Ne ho avuto conferma leggendo, a caso, qualche poesia della neo-Nobel, autrice a me prima ignota. Mi ha attirato la prima di una raccolta intitolata, in omaggio a Dante, Vita Nova, che traduco per voi:
«Mi hai salvato, dovresti ricordarmi.
La primavera, giovani compravano i biglietti del battello.
Ridevano, perché l’aria era piena di fiori di melo…
Ho ricordato suoni come quello, dalla mia infanzia,
risate senza motivo, solo perché il mondo è bello…
e così mi sono svegliata ebbra, alla mia età
affamata di vita e ricca di fiducia».
Se la rileggete dieci volte, respirerete meglio.
Poesia: un toccasana per mente e cuore
Cristina Moretti
La poesia, in alcuni casi considerata la Cenerentola della letteratura e in altri un’arte elitaria e lontana dalla vita quotidiana, nasconde un potere straordinario e può rivelarsi un toccasana per la salute mentale e fisica di chi la scrive e di chi la legge.
La poesia è un veicolo incantevole che può trasportare l’anima attraverso emozioni, riflessioni e immagini. Non è solo una forma d’arte, ma anche un mezzo di espressione personale e di connessione umana. Tuttavia, oltre al suo fascino estetico, la poesia ha dimostrato di avere profondi effetti benefici sia per coloro che la scrivono che per coloro che la leggono. Esploriamo insieme questo straordinario potere trasformativo.
Per chi le scrive o vuole provarci
Scrivere poesie è un atto di intima riflessione e creatività. Qui, nella quiete delle parole e delle metafore, gli autori trovano uno spazio sicuro per esplorare i recessi della propria anima. Tra i benefici che gli scrittori possono trarre dalla poesia c’è sicuramente la possibilità di trovare un canale attraverso cui esprimere la propria emotività. La poesia, infatti, offre uno sfogo emotivo senza restrizioni. Gli scrittori possono riversare le proprie emozioni sulla pagina, liberandosi del peso che potrebbero portare dentro di sé.
Può stimolare la creatività: la ricerca di parole, immagini e metafore per esprimere le proprie emozioni e idee richiede un esercizio creativo che può portare a nuove intuizioni e soluzioni in altri ambiti della vita. La poesia sfida i confini della grammatica e della struttura. Gli scrittori sono liberi di giocare con le parole, creare nuove forme e sperimentare con linguaggio e ritmo.
Favorisce, inoltre, l’introspezione e riflessione: immergersi nei propri pensieri e sentimenti attraverso la scrittura aiuta a conoscersi meglio e a dare un senso alle proprie esperienze. Scrivere poesie richiede un’attenta riflessione. Gli autori si immergono in questioni esistenziali, esplorando la bellezza e il dolore della vita, portando alla luce nuove prospettive e significati. Attraverso la scrittura poetica, gli autori possono scoprire nuovi aspetti di sé stessi. Esplorando le proprie esperienze, speranze e paure, possono acquisire una maggiore comprensione del proprio essere interiore.
Tra i vantaggi del cimentarsi nella scrittura ci sono anche la riduzione dello stress e il miglioramento dell’autostima: scrivere poesie può essere un modo per sfogare le emozioni negative e trovare sollievo dalle preoccupazioni quotidiane. Dare forma alle proprie idee e vederle tradotte in versi può aumentare la fiducia in se stessi e nelle proprie capacità.
Per chi le legge
La poesia non è solo per coloro che la scrivono; è anche per coloro che la leggono. Attraverso le sue sfumature linguistiche e le sue immagini evocative, la poesia offre una gamma di benefici a cui spesso non si pensa.
La poesia risveglia l’immaginazione e arricchisce il vocabolario: le immagini evocative e il linguaggio poetico trasportano il lettore in mondi nuovi e stimolano la fantasia. Essa espone a un linguaggio più ricercato e complesso, che può ampliare il bagaglio linguistico del lettore. Ne deriva un’importante stimolazione mentale: l’arte della poesia richiede una partecipazione attiva da parte del lettore. Interpretare le metafore, analizzare le strutture e immergersi nel linguaggio poetico stimola la mente e incoraggia la creatività.
La poesia è un vero e proprio esercizio per il cervello; attiva aree diverse del cervello rispetto alla prosa. Stimola il lato destro, coinvolto nella memoria autobiografica, mescolando esperienza sensoriale ed emotiva.
La poesia sa toccare le corde più profonde dell’animo umano, provocando commozione, gioia, riflessione. Immergendosi nelle parole del poeta, il lettore impara a calarsi nei panni degli altri e a comprendere le loro emozioni. Leggere poesie può aiutare i lettori a sviluppare una maggiore empatia e comprensione per gli altri. Attraverso le esperienze condivise nelle poesie, si crea una connessione emotiva che supera le differenze individuali.
Ispirazione idee per la propria crescita personale possono arrivare dalla lettura. Le poesie possono ispirare nuove idee, rivelare nuove prospettive e offrire conforto o speranza nei momenti bui. A volte fungono da specchio per l’anima. Leggendo le esperienze e le riflessioni degli altri, i lettori possono imparare più su se stessi e sulle proprie reazioni al mondo. Con le giuste parole e immagini, una poesia può trasformare la nostra visione del mondo. La sua capacità di trasmettere immagini e sentimenti supera altre forme letterarie.
Da non sottovalutare la sua capacità di creare comunità: leggere testi poetici ad alta voce dei testi poetici, spesso in occasione di slam, unisce competizione e arte. I concorsi di letture poetiche in diverse città coinvolgono molte persone, sia come lettori che semplici ascoltatori.
Per i più piccoli
Leggere poesie con i bambini e leggerle loro fin dalla più tenera età fornisce maggiori stimoli per le loro capacità di linguaggio. Giocando con le parole, i bambini migliorano le connessioni cerebrali e arricchiscono il proprio vocabolario.
La poesia è un’arte dalle mille sfaccettature che può donare benessere a chi la pratica. Che si scriva o si legga, la poesia può arricchire la nostra vita in modi inaspettati, come questi bellissimi versi di Alda Merini, una delle mie poetesse preferite.
Desiderio d’amore
Lei desiderava un sorriso
una musica muta
una riva di mare
per bagnarsi
il suo amore impossibile.
I suoi piedi nudi e piagati,
i suoi meschini capelli.
Lei ignorava che il ricordo
è un ferro piantato alla porta,
non sapeva nulla
della perfezione del passato,
del massacro delle notti solitarie
non sapeva che il più grande
desiderio
è un niente
che s’inventa stranissime cose,
e vola come un’idea
verso l’enciclopedia
del Paradiso.
Sogna
su un altare di piombo
e frusta strampalati pupazzi
che non portano mai allegria.
(da “Io dormo sola”, Acquaviva, 2005)
Agli smarriti di cuore
Il senso di non vivere invano
Piero Stefani
«Dite agli smarriti di cuore: coraggio non temete» (Is 35,4).1 Le parole di Isaia sembrano scritte per il nostro tempo; ma forse sono state e saranno consone per ogni epoca. Per comprenderle occorre riservare qualche attenzione al termine «cuore». È una parola, a tutt’oggi, di uso metaforico molto diffuso; di solito, però, in accezioni distanti da quelle bibliche.
La cultura moderna ha reso comune la convinzione che il cuore sia il luogo dei sentimenti, dell’amore prima di tutto ma anche dell’odio, della gratitudine ma anche del suo opposto. La precomprensione rende non agevole cogliere il senso biblico della parola. Nel mondo greco «cuore» è, di norma, inteso come semplice organo corporeo; di contro, nella Bibbia gli usi traslati sono frequenti e molteplici.
I significati principali coprono l’area circoscrivibile con i termini di volontà-coscienza-intelletto (se così si potesse dire, la Bibbia è infatti «senza cervello», parola in essa del tutto assente). Nell’essere umano il cuore indica il sé profondo proprio di una coscienza sostenuta dall’intelligenza e dalla volontà.
Il 35o capitolo di Isaia costituisce una specie d’anticipazione di quanto sarà sviluppato in seguito (vale a dire nella parte del libro attribuito al cosiddetto «secondo Isaia»): la gioia per la rifioritura del deserto (vv. 1-2), la venuta di Dio e la sua ricompensa che scaccia ogni timore (vv. 3-4), l’acqua che sgorga dal deserto che guarisce ciechi, sordi, zoppi e muti (vv. 5-7), l’appianamento della strada chiamata via santa (vv. 8-9), infine il ritorno dei riscattati contraddistinto da gioia e felicità perché fuggiranno tristezza e pianto (v. 10; ritornello conclusivo ripreso in modo identico in Is 51,1).
Nel messaggio complessivo lo smarrimento viene sopraffatto dalla speranza.
Il termine ebraico per «smarriti» deriva da un verbo (mahar) che, oltre all’accezione legata a essere codardi, spauriti e timorosi, ha il significato d’essere veloci e precipitosi. La traduzione «smarriti di cuore» è sicuramente corretta, tuttavia in un certo senso l’espressione si potrebbe rendere anche con «precipitosi di mente». In determinante circostanze, lo smarrimento e lo scoraggiamento derivano da una mente-coscienza troppo propensa a giungere subito alle conclusioni, senza aver fatto prima la fatica di cercare, di sforzarsi di capire e di cogliere le possibilità nascoste.
Si afferma «tutto va male, tutto va a rotoli, non c’è più niente da fare», senza avere il coraggio del pensiero. Cercare di capire è un tormento condito dalla strana consolazione nata dalla consapevolezza d’aver compiuto quanto ci è chiesto dalla dignità umana.
A suo modo lo affermava già Qohelet: «Rivolsi il mio cuore a esplorare con saggezza su tutto quanto si compie sotto il sole. Si tratta di un brutto affare rifilato da Dio agli uomini perché vi si esauriscano» (Qo 1,13). Per gli esseri umani l’indagare è fatica inevitabile. Alla fine, però, anche la nobile via della ricerca si trasforma in vicolo cieco.
Nel versetto di Isaia il peso decisivo poggia su quel «dite» imperativo che, peraltro, non si sa bene a chi sia rivolto. Il comando viene da Dio, ma chi sono coloro a cui è affidato il compito di dire? L’indeterminatezza racchiude la difficoltà dell’atto di farci giungere «buone notizie».
Una voce che viene da fuori costituisce, comunque, sempre un annuncio. È una forma di «evangelo» che rompe il cerchio chiuso dei propri tentativi di comprendere la realtà. Non sempre è così. Nel loro affastellarsi, le notizie che giungono a noi da ogni dove rappresentano una specie di «antivangelo». Suscitano smarrimento. In questo contesto, quel «dite agli smarriti di cuore: non temete» risuona come il buon annuncio di una realtà futura diversa da quella presente. Per crederlo occorre una fede sostenuta dalla speranza e una speranza alimentata dalla fede.
Cuori spezzati
Non ci sono solo i cuori smarriti, ci sono anche quelli spezzati: «Vicino è il Signore agli spezzati di cuore / i frantumati di spirito salva» (Sal 34,19; cf. Sal 51,19; 147,3; Is 61,1). Che differenza c’è tra coloro che hanno il cuore smarrito e chi lo ha spezzato? Lasciando da parte riferimenti, peraltro pertinenti, legati al pentimento personale, si potrebbe liberamente affermare che si tratta di coloro che soffrono non per lo scacco derivato dall’incapacità di capire, ma per la volontà di fare in qualche modo proprio il dolore del mondo.
Il Signore è a loro vicino perché si serve di loro. Un parere rabbinico è, al riguardo, illuminante e consolante: «Rabbi Alexander disse: se un uomo mortale rompe del vasellame è una disgrazia, ma per Dio le cose stanno altrimenti. Infatti tutto il suo servizio è costituito da vasi rotti come è detto: “il Signore è vicino agli spezzati di cuore”» (Pesiqta de Rav Kahana, 158b).
Il cuore spezzato è antidoto allo smarrimento, ma lo è ancor di più seguire il cuore umile di Gesù: «imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete riposo per la vostra vita» (Mt 11,29). È un «riposo» (non «ristoro», il riferimento è al sabato – cf. Es 20,11) conseguito proprio perché si è preso su di sé il giogo dolce e leggero di Gesù, vale a dire il giogo da lui portato e che, per questo motivo, chiede anche ai suoi discepoli di portare (cf. per contro Mt 23,4).
Si è «stanchi e oppressi» (Mt 11,28) ma non se ne esce rinunciando al giogo; al contrario, bisogna prenderlo su di sé. Non è il riposo dopo la fatica, ma (come è detto in relazione allo Spirito Santo nella sequenza di Pentecoste) è il riposo nella fatica. È una condizione legata al convincimento profondo di aver compiuto una scelta dotata di senso.
Oggi, come conseguire questo riposo mentre sembra che si stia compiendo un lavoro di cui non si vedono i frutti? Davanti a noi si distendono coltri di nebbia; avvertiamo il timore che esse, in luogo di deserti prossimi a fiorire, nascondano baratri. Non ci sono scorciatoie. Il giogo leggero ma esigente è il riposo del cuore spezzato. È il contrario del cuore smarrito e distratto che, secondo la massima pascaliana, cerca un’illusoria via di uscita nel non pensare.2
È inevitabile che non si riesca a reggere sempre il peso del pensiero. Nella vita di ciascuno la distrazione chiede la sua parte; è decisivo che si tratti di una parte e non già del tutto. Il cuore spezzato e non smarrito è quello che, almeno ogni tanto, si pone in ascolto del dolore del mondo. Anche quando se ne ode soltanto una qualche eco, il suo suono è tale da trasformarsi in invito a evitare, oltre la distrazione, anche la violenza: «imparate da me che sono mite».
Uccidere è sempre un male, anche quando vi si è costretti
Chi ode il dolore del mondo sa che la mitezza e la nonviolenza non sono sempre nelle condizioni di prevalere sulla violenza. Ci sono circostanze, e quest’ultimo anno ne è ulteriore conferma, in cui si è costretti a essere ingiusti, vale a dire in cui si è obbligati a rispondere alla violenza con la violenza. Il cuore allora è chiamato a mantenersi spezzato e, in questo caso, anche penitente. Uccidere è sempre un male anche quando si è obbligati a farlo. L’accento, allora, non va posto sulla giustizia perché essa non c’è. Quanto il cuore, vale a dire la coscienza-intelletto-volontà, è chiamato a fare è il discernimento della costrizione: la violenza è davvero inevitabile?
Un problema tra i più gravi, come lo è la risposta. E quando la conclusione è «sì», il cuore è chiamato a spezzarsi: «Un cuore spezzato e affranto tu Dio non disprezzi» (Sal 51.19).
La mitezza non è la nonviolenza integrale, è l’antieroismo integrale. Rimane, però, da porsi la difficile domanda se una certa dose di eroismo, ossia di esaltazione per una vittoria raggiunta o almeno possibile, sia una componente inevitabile sul piano dell’efficienza pratica.
«Felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35,10). I verbi al futuro ci attestano, da un lato, quanto ci manca e dall’altro la non rassegnazione alla situazione presente.
Ha scritto Jürgen Moltmann: «Chi spera in Cristo non può più sopportare la situazione così com’è, ma comincia a soffrire sotto di essa, a contraddirla. Pace con Dio significa conflitto con il mondo, perché il pungolo del futuro promesso trafigge inesorabilmente la carne di ogni presente incompiuto».3
È il cuore spezzato, ma è anche il giogo leggero che da una parte ci convince di non aver vissuto e di non vivere invano, e dall’altra non ci ripara dal dolore, anzi lo suscita.
Nessun accadimento in quanto tale ci insegna qualcosa. Le prove di questa massima sono innumerevoli, pandemia compresa. Perché ci ha insegnato così poco? Perché vi è una spinta irrefrenabile a vivere come prima?
Perché a mutare il cuore non sono i fatti, ma i modi d’interpretarli. È la fatica del cuore spezzato, ma anche è il giogo posto sulle nostre spalle che diviene leggero perché ci dona quello che nessun altro ci può dare: il senso di non vivere invano.
Per sperare, però, occorre avere orecchi capaci di udire una voce che viene da fuori di noi: «Dite agli smarriti di cuore».
1 Riprendo parte della conversazione tenuta alla parrocchia di San Camillo de Lellis di Chieti il 23 novembre 2022.
2 «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici»: B. Pascal, Pensieri, n. 168.
3 Cit. in Un giorno una parola. Letture bibliche quotidiane per il 2022, Claudiana, Torino 2021, 275.
Mauro Giuseppe Lepori: Fede è lasciare che Dio si prenda cura di noi
Rosanna Campisi
C’è che adesso sarebbe bello immaginare il deserto. Che è un luogo – ovvero una distesa di sabbia, senza gente e senza acqua – ma anche una metafora luminosa.
Sarebbe bello ricordarsi che qui, nel deserto, padre Mauro Giuseppe Lepori ha piantato le sue radici personali ma anche quelle che hanno dato il titolo a un bellissimo dialogo con la giornalista Monica Mondo (Tea edizioni) su fede, Chiesa e monachesimo.
Radici nel deserto è solo l’ultimo libro di Lepori, che nasce a Lugano nel 1959 e studia all’università di Friburgo e che, prima di diventare (tredici anni orsono) l’abate generale dei Cistercensi, è stato un giovane animato da uno «struggente desiderio di pienezza» che trovava pace camminando e meditando tra boschi e campagne.
Sentirsi chiamati
«La mia vocazione risale a due incontri», racconta. «Ho percepito che questa pienezza di vita era nella Chiesa ed era Cristo. A diciassette anni ho conosciuto il movimento di Comunione e liberazione in una famiglia di operai friulani residenti nel mio paese in Svizzera. Quanto a Cristo, mi si è rivelato come un lampo di luce e di gioia ad Assisi, alla Porziuncola, nel giorno della festa del Perdono del 1977. Tutta la mia vita la vedo sgorgare da queste due sorgenti che in realtà sono una sola: Gesù presente e vivo nel suo corpo ecclesiale», aggiunge Lepori che nel 1989 ha emesso i voti solenni presso l’abbazia cistercense di Hauterive, poco lontano da Friburgo.
La sorgente torna spesso nelle sue parole ed è quella che «al di là di tutte le apparenze può dissetare l’umanità e i nostri cuori: è Gesù che, incontrando la Samaritana, questa donna così rappresentativa dell’umanità confusa e incapace di vivere l’amore per cui è creato il cuore, la porta a desiderare l’acqua viva che Lui le offre, il dono dello Spirito.
Quella donna ha scoperto che nel deserto della sua umanità umiliata e disprezzata c’erano radici ancora capaci di desiderare e assorbire l’acqua viva dell’amore di Cristo», precisa l’abate.
Missione itinerante
Da più di dodici anni, padre Lepori sembra più un missionario che un monaco. È sempre in viaggio per visitare le comunità dei Cistercensi sparse nel mondo.
«È Gesù che mi chiama a questa vita e per questo non mi ha mai privato della sua amicizia. Forse ora sono più cosciente di ciò che il monastero ha forgiato in me: quel dimorare in Cristo che accoglie la vita, le circostanze, gli incontri, le fatiche nel rapporto costante con Lui. Continuo a pregare l’Ufficio monastico, a praticare la meditazione della Parola e la preghiera del cuore che ho imparato vivendo in monastero, ma forse oggi con un sentimento più acuto», aggiunge lui, che non ha scelto i Cistercensi in modo “ragionato”.
«Quando ho incontrato quella realtà ho percepito con chiarezza che era lì che il Signore mi chiamava a stare unito a Lui. Ho capito, meditando il capitolo 15 del Vangelo secondo Giovanni, che questo è l’unico segreto della fecondità della vita: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto”».
Essere monaci oggi
Ascoltando le sue parole, e cercando le radici in questo spazio che è il deserto, viene da chiedersi cosa significhi essere monaci oggi, al di là della paura che ogni scelta comporta. «La paura in me ha spesso il volto dell’ansia, della preoccupazione di non corrispondere alle attese. Così guardo Gesù negli occhi e Lui ogni volta mi dice: “Uomo di poca fede, perché hai ancora dubitato? Perché non ti sei fidato fin dall’inizio? Perché non hai iniziato mendicando il mio aiuto?”. Ecco, essere monaci oggi vuol dire vivere unificati dal rapporto con il Signore. Anche nei monaci c’è tanto “mondo” da recuperare alla verità originale. Per questo in monastero è cresciuta in me una profonda compassione per il mondo – perché siamo tutti peccatori – ma anche la coscienza del fatto che Cristo ci chiama a sé per consolarci e far nuove tutte le cose. La vita monastica scava in noi un ardente desiderio di comunicare Gesù al mondo, che poi è lo stesso del cuore di Cristo».
Un tempo di fragilità
L’abate è consapevole del fatto che oggi, almeno in Occidente, predominano comunità monastiche fragili, di numero e di forze, che sembrano sempre in lotta per sopravvivere. «Il monachesimo in fondo è sempre stato il segno di un’umanità che trae tutta la sua forza dalla salvezza pasquale di Cristo.
Per questo, il diventare fragili, piccoli, e magari il morire, non è di per sé un venir meno del senso del monachesimo: ne accentua la verità e l’invisibile fecondità. Se il monachesimo oggi aiutasse il popolo di Dio a credere alla parabola del chicco di grano che morendo dà molto frutto, raggiungerebbe la pienezza del suo significato», confessa Lepori, che tra le sue preghiere elenca i Salmi, le letture bibliche e patristiche.
«Da quando ero novizio, un monaco mi ha insegnato a pregare col cuore l’invocazione del nome di Gesù, di Maria, domandando lo Spirito Santo e misericordia per me e il mondo intero. Questa preghiera – che potremmo definire giaculatoria, come la preghiera di Gesù della tradizione orientale, quella del pellegrino russo – mi ha sempre aiutato a pregare ovunque, anche ora che sono sempre in viaggio, e mi piace abbinarla coi misteri del Rosario».
Ai giovani, padre Lepori consiglia «di ispirarsi a Gesù stesso, visto che è così accessibile e così affascinante. Consiglierei di conoscerlo nel libro del Vangelo, ma anche nel Vangelo vivo che sono i santi, tutti, e tra loro includo i testimoni viventi che la Chiesa sempre manda, magari fra i propri compagni di studio, di lavoro, di sport, come lo fu il beato Carlo Acutis. Gli suggerirei infine di coltivare un aspetto della vita monastica, ovvero quello di fermarsi, ognuno come può e meglio sente, ad ascoltare in silenzio la presenza e la parola di Dio».
Non vivere distrattamente
«Sa cosa?», mi dice alla fine Lepori.
«La fede perde di consistenza quando pensiamo di poter vivere senza. Ovvero quando viviamo distratti, non tanto da Dio, ma da noi stessi, dal vero dramma della vita, dalle profonde esigenze del nostro cuore. Quando siamo superficiali con i rapporti, gli affetti, il lavoro, la festa, il corpo, la malattia, la morte. Chi è serio con la vita diventa sensibile alla fede, che altro non è che essere presi dall’amore di Cristo per la nostra umanità. La fede è permettere al Risorto di prendersi cura di noi come il samaritano dell’uomo ferito dai briganti. Per questo, per coltivarla direi che bisognerebbe cominciare a voler bene alla propria umanità, a guardarla con tenerezza, stupore, in noi e negli altri. Allora, appena ci sorprende lo sguardo del Signore, non possiamo non essere conquistati dall’offerta di vivere con Lui un’amicizia senza fine».
Sperare, come?
Anche se c’è delusione, c’è salvezza
Piero Stefani
È una lunga storia che comincia da un versetto del profeta Isaia. Nell’attuale traduzione ufficiale cattolica suona così: «Ecco, io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata: chi crede non si turberà» (Is 28,16). Nel testo ebraico vi è il verbo hus che, in questo caso, potrebbe essere reso con «non sarà travolto». Dato che è salda, non c’è pericolo che la pietra vacilli e precipiti rovinosamente su qualcuno.
Il passo profetico fu caro a Paolo, che lo cita due volte nella Lettera ai Romani (9,33; 10,11; cf. 1Pt 2,6-8): la prima in senso negativo, riferita a coloro che hanno urtato contro la pietra di inciampo, la seconda in senso affermativo, per indicare la salvezza di chi crede. Paolo s’attiene alla traduzione giudeo-ellenistica dei Settanta; lo fa tanto in relazione al verbo impiegato (kataschyno), quanto per l’inserimento, tutt’altro che marginale, di un complemento oggetto: «Chi crede in lui» non sarà deluso. Ora quel «lui» è inteso in senso apertamente cristologico. Non è inutile precisare che il verbo greco ha, però, il senso più di venir svergognato, confutato, che quello di essere deluso; non a caso la Vulgata ricorre, opportunamente, al passivo di confundo («non confundetur», Rm 10,11).
Nella Lettera ai Romani il verbo kataschyno torna solo in un’altra occasione. Questa volta non si tratta di una citazione, tuttavia è ben possibile ipotizzare che Paolo avesse già in mente quel versetto. Si tratta di un passo destinato a rimanere all’ordine del giorno per tutto il resto dell’attuale anno giubilare: «La speranza non delude» (Rm 5,5). Delude o qualcosa di più e in parte diverso? «Spes autem non confundit», dice il latino. Qualunque sia la traduzione, rimane vero che, per affermare qualcosa di positivo, si fa ricorso a una negazione.
Per analogia, viene in mente la parola «nonviolenza»; la scelta di scriverla attaccata non esorcizza il fatto che il termine conglobi un «non». «Non delude» implica che la speranza sia esposta al concreto rischio di essere confutata. In realtà, a ben pensarci, è la delusione a nascere dalla speranza e non viceversa. Si rimane delusi o addirittura svergognati se si è posta la propria fiducia in una possibilità futura che non è mai divenuta realtà.
Chi nulla attende, nulla patisce; o meglio è soggetto unicamente alla tiepida ignavia di un’indifferenza da lui, per lo più, neppure avvertita. La delusione implica la memoria di una speranza frustrata; è uno stato d’animo alimentato dal ricordo. La speranza, per sua natura, anche quando ha radici, guarda in avanti. Solca il mare del possibile, ed è per questo che non le sono ignoti i naufragi. Il verbo «sperare» coniugato al passato è sigillo della delusione. Nel loro scoramento i discepoli di Emmaus esclamarono: «Noi speravamo» (Lc 24,21).
Giorno dopo giorno, davanti a noi si estende il gran mare del possibile. È parola antica (la si trova nell’Edipo re) quella secondo cui nessuno va dichiarato felice prima del giorno della sua morte. Che cosa ci riserverà il futuro? Nell’orizzonte esistenziale non si è in grado di rispondere a questa domanda. Siamo in balìa delle onde dell’avvenire.
L’atto di sperare non garantisce di per sé che il futuro sia conforme ai nostri desideri. L’esito atteso non è né una semplice produzione della nostra volontà, né puro frutto del nostro agire. L’illusione e il restar delusi formano il dritto e il rovescio del medesimo tappeto. Quando si pone speranza in ciò che non ha fondamento (illusione) si spalancano, senza saperlo, le porte alla delusione. Nella sua fragilità, la speranza è un bene che può assumere gli oscuri panni del male.
Educati a sperare
L’ambivalenza è iscritta anche nel mito di Pandora. Zeus riempie il vaso di tutti i mali e comanda di non aprirlo. La curiosità induce a disobbedire all’ordine. L’esito dell’atto è nefasto, tutti i mali cominciano a dilagare per il mondo. Si cerca d’attuare contromisure e il vaso viene precipitosamente chiuso quando ormai è quasi completamente vuoto, salvo il fatto che nel suo fondo resta la speranza.
Da qui sorge un interrogativo (avanzato anche da Jürgen Moltmann): la speranza è un modo per sopportare i mali (malattia, vecchiaia, sventure ecc.) o è anch’essa un male mascherato da bene? Il vaso, in partenza, non conteneva forse solo mali?
Kierkegaard ha definito la speranza «la passione del possibile». Nel possibile tutto è possibile, il sì come il no. La passione è una specie di corpo a corpo nei confronti di quel che può accadere. Ciò vale, sub contraria specie, anche per la paura, stato d’animo alimentato dal timore che forse, al nostro riguardo, avranno luogo eventi dannosi.
Per quanto possa essere anche solo questione di istanti, è inoppugnabile che la paura si dia unicamente rispetto al futuro. Dal canto suo, la disperazione consiste nella profonda e devastante convinzione soggettiva che, inevitabilmente, il negativo si realizzerà. La passione per il possibile sta nel credere che ci sia una via d’uscita anche quando la situazione sembra ad altri (e forse persino alla parte più fragile di noi stessi) senza speranza. L’oggetto dello sperare riguarda l’avvenire, mentre l’atto di sperare (o disperare) attiene al presente.
Se l’espressione «speravo che…» è sigla della delusione, la frase «spererò che…» è quasi inimmaginabile. Tuttavia, lo sperare coniugato al presente è messo al riparo dall’illusione solo se si basa su una pietra angolare saldamente fondata. Per dare sostanza allo sperare, occorre appoggiarsi su qualcosa o qualcuno che ci precede.
In der Hoffnung sein («essere in speranza») è la toccante espressione tedesca per affermare d’essere incinta. Qualcosa, anzi qualcuno c’è già, ma egli deve completarsi, crescere, venire alla luce. Si tratta di un processo che dipende solo in parte dalla volontà della madre. La situazione è paragonabile a quella del seme che, per diventare pianta, attende di spuntare. Il coltivatore se ne prende cura, ma non basta quest’ultima operazione a farlo crescere. Il suo sviluppo è in mano a quel che, per mancanza di termini migliori, chiamiamo natura.
L’«essere in speranza» ha però anche un risvolto oscuro, il processo può abortire, nel senso letterale o metaforico del termine: «Giù non basta buon cominciamento / dal nascer de la quercia al far la ghianda» (Divina commedia, Paradiso, XXII, 86s). Nel possibile tutto è possibile. Con tutto ciò non è fuorviante sostenere che, rispetto al nostro essere, la speranza ci precede. Noi tutti, infatti, siamo stati ospitati nell’utero di nostra madre restata in speranza per nove mesi.
Ciò avviene perché siamo costituiti da relazioni che ci legano con chi è altro da noi. Un profondo, enigmatico detto di Walter Benjamin afferma: «Coloro per i quali ci è data speranza, sono quelli senza speranza (Nur um der Hoffnungslosen willen ist uns die Hoffnung gegeben). La frase è estrema, ma è anche certo che tutti noi speriamo perché altri hanno già sperato. L’affermazione, particolarmente vera per le tradizioni religiose, vale anche per altri contesti, a iniziare da quelli culturali e politici. Si spera perché si è stati educati a sperare.
La speranza implica i legami
L’atto di sperare trova un suo fondamento quando, attraverso il ponte dell’impegno presente, congiunge la memoria all’attesa. All’inizio della Haggadah di Pesah (il testo recitato nel corso della cena pasquale ebraica) si alza il vassoio delle azzime e si pronuncia questa formula: «“Questo è il pane dell’afflizione che i nostri padri mangiarono in terra d’Israele” (Dt 16,3), chi ha fame venga e mangi, chi ha bisogno venga e faccia pasqua. Quest’anno qui, l’anno venturo in terra d’Israele; quest’anno qui schiavi, l’anno venturo in terra d’Israele liberi».
S’inizia con la memoria della passata schiavitù, si conclude con l’apertura rivolta al prossimo irrompere della libertà; l’una e l’altra dimensione, però, trovano senso e consistenza soltanto se c’è un presente ospitale e soccorrevole. Tiqwah, speranza in ebraico, è un termine dotato di una parentela semantica con qaw, «corda». Lo sperare implica l’esistenza di legami. Noi speriamo perché altri hanno sperato. Tuttavia è vero anche il contrario, siamo delusi, affranti o addirittura disperati se conserviamo memoria di speranze sempre riproposte e mai realizzate.
Sia pur messa in bocca ai falsi maestri, il Nuovo Testamento conosce la provocazione connessa alla promessa disattesa: «Dov’è la sua venuta, che egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione» (2Pt 3,4). Se non si avesse memoria di quanto promesso, ci sarebbe solo l’indifferenza del presente.
La speranza non si sottrare all’ambivalenza. Da un lato, essa si fonda su quello che c’è; il presente (secondo il detto di Leibniz) è gravido dell’avvenire, mentre, dall’altro, coglie la miseria dell’esistente. Occorre far tesoro delle potenzialità attuali, eppure lo sperare comporta sempre anche un giudizio critico sulle realtà presenti, ne rivela le crepe, ne smaschera le fragilità, ne denuncia le insufficienze.
La situazione odierna, sia essa individuale o collettiva, non è mai esente da opacità. Se la realtà fosse bloccata allo stato attuale, l’ombra della mancata realizzazione prevarrebbe sulla luce delle virtualità iscritte nel reale. La speranza che non delude si fonda, oltre che sull’esistente, anche e soprattutto su quanto ancora non c’è.
Si tratta di una realtà che viene a noi, molto più di quanto noi andiamo a lei. Siamo stati salvati nella speranza (cf. Rm 8,24).
Attraversare il buio della vita con la preghiera.
La preghiera può essere una lotta con Dio, nella notte oscura
Bruno Forte
Credere implica il continuo combattimento con una Alterità che non può essere “risolta” né “fermata”. Spesso le ore del buio sono il tempio privilegiato delle rivelazioni divine
È stato appena pubblicato per le Edizioni Shalom il libro di Bruno Forte La preghiera cristiana. Un’introduzione. Ne presentiamo alcuni stralci, tratti dal capitolo terzo, intitolato “La notte oscura”.
La fede non è possesso scontato né facile certezza: piuttosto, è lotta, agonia e, a questo prezzo, pace e gioia del cuore. Lotta fu l’esperienza di Giacobbe al guado (Genesi 32, 23-33): come per lui, così per chi crede il Dio vivente è l’assalitore notturno, tutt’altro che il “Deus mortuus”, proclamato dalla ragione ideologica, o il “Deus otiosus”, esiliato dalla ragione strumentale. Credere implica la continua lotta con una Alterità, che non può essere “risolta” né “fermata”. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede ed essa sarà combattimento, resistenza e resa, come testimonia il profeta Geremia: «Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Mi dicevo: Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Geremia 20,7. ).
Veramente il Dio della fede è “fuoco divorante” (Deuteronomio 4,24; Isaia 33,14; Ebrei 12,29). In questo senso per credere si ha sommamente bisogno della preghiera, esperienza per eccellenza della lotta con Dio. La “noche oscura”, di cui parla San Giovanni della Croce, è in realtà il luogo delle nozze mistiche: Dio non si trova nella facilità del possesso di questo mondo, ma nella povertà della Croce, nella morte a sé stessi, nella notte dei sensi e dello spirito. Solo dopo aver portato il credente nel fuoco della desolazione, il Dio rivelato e nascosto si offre come il Dio delle consolazioni e della pace: «Dio, se ci vuol rendere viventi, ci uccide» (Lutero). Dio non è risposta, è promessa e custodia: in Lui stanno l’ultima Parola e l’ultimo Silenzio, anche se qui ed ora ci è dato di accoglierli soltanto nella speranza.
Diversamente da ogni ideologia, che lascia l’uomo prigioniero di sé, la fede è un continuo convertirsi all’Altro, un continuo consegnare il cuore a Dio, cominciando ogni giorno in modo nuovo a vivere la fatica di sperare e di amare in compagnia del Figlio abbandonato alla morte per noi, per risorgere alla vita con Lui. Questa notturna esperienza di Dio, che la fede fa nella sequela di Cristo, questa conoscenza vespertina, che anela alla domenica senza tramonto, intravista nella speranza, ma non ancora posseduta, è appunto la preghiera. Perciò nessuna negligenza della preghiera è ammissibile per la fede, nessuna preghiera indolente, statica e abitudinaria. La fede orante dovrà essere sempre interrogante e viva, anche dubbiosa, capace ogni giorno di cominciare di nuovo a consegnarsi all’Altro, a vivere – pregando – l’esodo senza ritorno verso il Silenzio di Dio, dischiuso e celato nella Sua Parola.
Quest’anima pellegrina della preghiera è resa stupendamente dal grido del salmo: «Svégliati, mio cuore, svégliati arpa, cetra, voglio svegliare l’aurora» (Salmi 57,9). Sveglia l’aurora chi aspetta con impazienza nella notte l’avvento del giorno, chi conosce il desiderio del cuore assetato di luce, proteso verso il momento in cui passi l’oscurità e spunti la stella del mattino. In questa condizione di lotta nella veglia, ritorna la domanda: «Sentinella, quanto resta della notte?» (Isaia 21,11). Come il “servus lampadarius”, che portava la fiaccola per illuminare la via nella notte, così la Parola ci aiuta ad accettare i volti della notte per discernere quanto manca all’aurora e quale sia la via da percorrere per andare incontro alla luce del mattino: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Salmi 119,105). Pregare è stare in ascolto della Parola, ruminandola fino ad aprirsi agli abissi del Silenzio che in essa risuona e cui essa schiude, perché si apra la strada nella notte.
È per questo che occorre vegliare nella notte, come servi del Signore, discepoli dell’Amato, in preghiera: «Ecco, benedite il Signore, voi tutti, servi del Signore; voi che state nella casa del Signore durante le notti» (Salmi 134,1). Nella notte Gesù ama vivere l’esperienza del Padre: «Gesù se ne andò sulla montagna e passò la notte in orazione» (Luca 6,12). La Sua preghiera è attesa, amando nella notte il Volto nascosto. La notte, peraltro, è anche il tempo privilegiato delle rivelazioni divine: gli oranti sono spesso i notturni cercatori di Dio. Così è per Abramo (Genesi 15,17); così per Giacobbe a Betel quando fa il sogno della scala che unisce il cielo e la terra (Gen 28,11); così per Elia all’Oreb (1 Re 19,9); così per Daniele e le sue visioni notturne (Daniele 7,2). Chi crede avanza nella notte verso la luce del mattino. Perciò il canto mistico può dire: «O notte più amabile che l’aurora, o notte che hai congiunto l’amata con l’Amato, l’amata nell’Amato trasformata!» (San Giovanni della Croce, En una noche oscura, Strofa V). È di questa preghiera notturna, assetata di luce, che sono testimonianza le parole che Teresa di Lisieux consegna a uno dei suoi testi autobiografici più impressionanti, che dicono della preghiera come lotta e come resa più di ogni astratta riflessione: «Gesù mi ha fatto sentire che esistono davvero anime senza fede. Ha permesso che l’anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte, e che il pensiero del Cielo, dolcissimo per me, non fosse più se non lotta e tormento. Bisogna aver viaggiato sotto quel tunnel cupo per capirne l’oscurità. Signore, la vostra figlia ha capito la luce divina, vi chiede perdono per i suoi fratelli, accetta di nutrirsi per quanto tempo voi vorrete del pane di dolore e non vuole alzarsi da questa tavola piena di amarezza alla quale mangiano i poveri peccatori prima del giorno che Voi avete segnato. Ma osa anche dire a nome proprio e dei suoi fratelli: Abbiate pietà di noi Signore, perché siamo poveri peccatori! O Signore, che tutti coloro che non sono illuminati dalla fiaccola limpida della fede vedano finalmente...» (Scritto autobiografico C, 1897, numero 276).
Nel tempo della prova
Adrien Candiard
Un periodo di persecuzione non è certo un tempo propizio alla felicità, lo sappiamo bene. Sarà questa la ragione per cui san Pietro, scrivendo a cristiani sottoposti ad attacchi ingiusti, si astiene dall’affrontare la questione della felicità? Al contrario: Pietro li incoraggia a non lasciare che i loro persecutori abbiano la meglio su tutta la linea e li privino anche della felicità, e a reagire raddoppiando i loro sforzi nel bene. Perché, spiega, «chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi!» (1Pt 3,14). Paradossale beatitudine, dato che nessuno prova piacere a soffrire, nemmeno per la giustizia! Ma Pietro non intende affatto negare o minimizzare il male causato dai persecutori: la felicità del cristiano non consiste nel guardare altrove, nel far finta di niente quando gli fracassano le ossa. Essa consiste piuttosto nel saper resistere all’effetto moltiplicatore del male: il mio persecutore mi avrà fatto un danno infinito se sarà riuscito ad accendere in me l’odio e l’ira, se mi avrà distolto dal mio desiderio di fare il bene. I tempi di prova sono senza dubbio quelli in cui più bisogna fare attenzione a sé stessi. Davanti alla caduta dell’Impero romano, sant’Agostino dirà a sua volta: «Smettete di dire che i tempi sono cattivi, perché i tempi siamo noi: siate buoni e i tempi saranno buoni».
Tutti siamo un po' disperati ma la speranza è un'avventura
di Enzo Bianchi
Questa è un’epoca caratterizzata da un forte senso della precarietà del presente e dell’incertezza del futuro, un tempo in cui l’incognito che ci sta davanti spaventa per la sua imprevedibilità e, insieme, per gli orizzonti asfittici che lo caratterizzano: il nostro è un “mondo in fuga”, come lo ha definito Anthony Giddens, un mondo che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di capire dove stiamo andando. Questa situazione provoca un’angoscia profonda, che pare confermata anche da un rapido sguardo alle situazioni di guerra, miseria e oppressione in atto in varie parti del mondo.
Quanto all’occidente in cui siamo collocati, si assiste in esso al trionfo di una cultura che privilegia l’effimero istante, mentre dimentica il passato e attribuisce un peso irrilevante al futuro: con amaro realismo occorre ammettere che lo slogan No future coniato dal movimento punk sembra oggi una triste profezia! L’imperativo dominante è quello di “fare esperienza” della propria vita, senza uno scopo, senza alcuna ricerca di senso, da intendersi sia come significato profondo sia come direzione, possibilità di conoscenza e apertura di orizzonti. In tale situazione, la maggior parte delle persone vive senza speranze né prospettive e si limita a nutrire progetti a brevissimo termine, circoscritti per lo più a scopi meramente materiali.
Non va d’altra parte dimenticato che questo è anche il tempo abitato da chi, come tanti uomini e donne della mia generazione, ha vissuto una grande stagione di speranza umana e cristiana; oggi, però, le ideologie politiche per alcuni e le utopie sociali per altri sono venute meno, mentre le attese destate nei cristiani dal Concilio Vaticano II appaiono in massima parte frustrate. Le speranze in un mondo più segnato da pace e giustizia, in una chiesa più evangelica, sembrano smentite; al contrario, nel nostro vissuto quotidiano siamo costretti a subire, con una certa impotenza, il dilagare della barbarie, che invade anche la sfera privata: la banalizzazione dei temi della giustizia e della legalità, la giustificazione dell’ineguaglianza, la glorificazione del più forte, il rifiuto di ogni orizzonte comunitario, l’esaltazione della competizione selvaggia, la legge della forza che si sostituisce alla forza della legge, e si potrebbe continuare a lungo. Questa è un’ora di grande depressione e nel mondo, come osservano gran parte dei sociologi, manca la speranza, è debolissimo lo slancio verso il futuro. Dobbiamo confessarlo: è venuta meno non solo la fede in Dio, ma anche la fiducia tra noi umani, e quando viene meno la fiducia degli uni negli altri viene a mancare la speranza nel futuro, nella società, e poco per volta vediamo scomparire anche l’amore.
L’essere umano, a differenza di tutti gli animali, sa sperare. Homo vita spe erectus. Mi piace pensare a questa sentenza latina che secondo me sottolinea anche che l’umano ha peso e statura erette sopra alla speranza: in piedi, ha guardato in avanti e in alto! La specie umana si diffonde e si perpetua nella storia non solo grazie all’istinto della nutrizione e della procreazione ma anche grazie all’attesa, dunque a una speranza che non viene meno e abita interiormente l’umano come un mistero. Anche il seppellimento dei morti, a differenza degli animali, è segno di un’attesa, una speranza testimoniata fin dal periodo neolitico.
Lo dobbiamo confessare: tutti gli umani per vivere hanno bisogno di sperare, attendere, fin dal grembo della madre hanno bisogno di mettere la fiducia in qualcuno e poi sentono di dover rischiare una storia, una vicenda, una relazione d’amore in cui c’è attesa, speranza, fiducia e ci sono contraddizioni a questa ricerca.
La speranza appartiene a ogni persona, nessuna esclusa. Chi potrebbe illudersi di vivere senza speranza? E sono molte le speranze in questa vita e in questo mondo! Sì, la speranza deve essere vissuta in solidarietà con gli uomini, senza evasioni dall’impegno e dalla responsabilità. Infatti, la speranza è esercizio di responsabilità, è passione per ciò che è possibile, non è un’utopia, un non-luogo, un’impossibilità, ma proprio perché è anche azione degli esseri umano essa impegna, è fattiva ricerca nell’oggi di ciò che domani può essere realtà.
Tutti ogni giorno inseguono la speranza, e proprio perché la speranza è un’esperienza universale è necessario cercare e verificare come essa si esprime e con quali contenuti può essere realizzata. A questa ricerca si dedica Rino Fisichella, teologo e Pro-Prefetto del dicastero per l’Evangelizzazione, nel saggio La speranza trasforma la vita. La riflessione dell’autore parte dal presupposto che è esperienza comune dell’uomo sperare indipendentemente che sia credente o ateo: “L’uomo spera perché la speranza è anzitutto un sentimento che si vive e percepisce come fenomeno umano; è frutto dell’esperienza e come tale si impone da sé altre gli schemi prefissati”. La speranza è colta come un’attesa e un desiderio di bene, smuove sentimenti di fiducia e gioia e porta in sé i connotati di una qual certezza di attuazione. Quando si spera il desidero è elevato ad un altro piano, fino al punto di perdere alcun potere sull’oggetto sperato. Il compimento della speranza non ci appartiene, non dipende da noi, l’atto di sperare ci spossessa di quanto sperato. Del resto, già Gabriel Marcel scriveva che “l’unica speranza genuina è quella che si rivolge a qualche cosa che non dipende da noi”.
Ed ecco che il tema della speranza è intrinsecabilmente legato a quello dell’illusione e della delusione: “la delusione che segue ogni irrealizzata illusione – scrive Fisichella – diventa lo strumento utile e necessario per orientare lo sguardo verso ciò che realmente offre la speranza”. Da qui la necessità di mettere al centro la speranza oltre le speranze. Ed è questo il tema del giubileo in corso quest’anno: Papa Francesco, attento a percepire i cambiamenti dei tempi, invita innanzitutto i cristiani, ma poi tutti gli esseri umani, a rinnovare la speranza. Fisichella ripercorre il messaggio dell’apostolo Paolo per il quale la vera speranza non delude, messaggio che il Papa fa suo ricordando nella Bolla di indizione del Giubileo che “la speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino… La speranza infatti nasce dall’amore e si fonda sull’amore”. Sì, solo la speranza dà all’amore il tempo di fiorire.
La speranza trasforma la vita non è un trattato teologico ma ha salde fondamenta teologiche, non è un semplice pamphlet scritto perché la speranza è il tema del momento ma è una preziosa guida per quanti non vogliono ridurre il giubileo a mero turismo religioso. Il saggio di Fisichella ci aiuta ad aprire gli occhi: viviamo di piccole speranze perché non osiamo sperare l’insperabile. Eraclito ha sentenziato: “Chi non spera l’insperabile, non lo troverà” (Frammenti 18).
Non ci chiediamo più che cosa possiamo sperare, ma se sperare ancora qualcosa, dal momento che i nostri desideri non sono più nostri, i nostri corpi non sono più nostri, le nostre vite non sono più nostre: altri ci suggeriscono che cosa desiderare, che fare del nostro corpo, che vita vivere. Vediamo solo ciò che ci viene mostrato. I nostri occhi diventano ciechi, le nostre orecchie si chiudono, le nostre bocche non parlano più liberamente. Pensiamo di essere liberi e siamo prigionieri. Presi dalla paura di perdere ciò che crediamo di possedere. Le mode della politica, i multiformi conformismi sociali, le facili ideologie che promettono tutto e non mantengono nulla, ritagliano per noi un’esistenza cui ci sottomettiamo volentieri.
Dall’oblio del secolo dei totalitarismi, dalla dimenticanza del Gulag, di Auschwitz, di Hiroshima, siamo insensibilmente scivolati nella quieta abitudine che accetta i conflitti più cruenti, il genocidio, la menzogna di stato, si ripara dalla catastrofe climatica dietro le previsioni del tempo. La guerra è entrata nella vita quotidiana di milioni di persone, è ritornata a essere un ospite fisso dei telegiornali, dei canali social, delle conversazioni tra amici. Il suo rombo risuona nel sottofondo dei nostri pensieri. La speranza ha preso la via dell’esilio. Al suo posto, la paura occupa la nostra casa comune.
Il saggio di Rino Fisichella mostra come i cristiani sono coloro che sanno rendere conto della speranza che è in loro. Non hanno l’esclusiva dello sperare, ma condividono la lotta per la speranza che sta al fondo di ogni avventura umana. “Come il medico può certamente dire che forse non esiste un solo uomo che sia completamente sano”, osservava Kierkegaard, “così, se si conoscesse bene l’uomo, si dovrebbe dire che non vive un solo uomo, il quale non sia un po’ disperato”.
La speranza, dice Charles Péguy nella celebre immagine, prende per mano le sorelle maggiori, la fede e l’amore, e danza davanti a loro: è l’infanzia che sempre si rinnova, che sempre caparbiamente ricomincia con l’inaudita audacia dei piccoli, perpetua rinascita, continuo stupore. Senza speranza la fede diventa ideologia, l’amore possesso e dominio. Senza speranza, anche la fede più incrollabile rischia di aggrapparsi all’intolleranza, la carità più ardente di indebolirsi.
“La fede dalla quale non nasca speranza – scrive la poetessa russa Ol’ga A. Sedakova – l’amore che rimanga estraneo alla speranza, sono già altri, non si tratta ormai più di immagini o significati cristiani”.
La festa della vita è il dono
Adrien Candiard
La Bibbia è piena di pasti, a volte persino festini: bisogna dunque mangiare bene per essere felici? Non a qualsiasi condizione, dice Gesù, che raccomanda a chi dà un banchetto di non invitare i familiari né i vicini ricchi: potrebbero restituirgli la cortesia. «Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» (Lc 14,13-14). La felicità non sta quindi nella refezione, ma nel distacco da ogni interesse personale, nel dono che non si aspetta niente in cambio. Proprio niente? Se ci aspettiamo di essere ricompensati, anche se in cielo, il nostro è ancora disinteresse? Dobbiamo capire bene questa beatitudine: Gesù non ci dice che in paradiso ci attendono tutti i pasti che abbiamo offerto e per i quali non abbiamo ricevuto inviti in contraccambio. Sarebbe un paradiso contabile e pure indigesto. La felicità di cui Gesù parla è tutt’altro: è la convinzione che nel frequentare i poveri, gli storpi e i ciechi è Dio stesso che noi riceviamo, invitiamo, frequentiamo. È lui che impariamo a conoscere e ad amare. Ed è l’intimità con lui, fonte infinita di gioia, che cresce in noi, fin dentro la vita eterna
Chi ha amore e musica ha tutto
Alessandro D'Avenia
Per i Greci la bellezza è capace di rendere presente, nella quotidiana lotta per non morire, ciò che invece è «immortale». In qualche modo tutte le volte che cantiamo o ascoltiamo altri farlo attingiamo a uno strato di vita che dà senso alle incombenze dettate dall’utile e dalla necessità: a quel livello la vita è gratuita, libera, giocosa. E così ci aggrappiamo a Sanremo perché è quel che ci resta della gioia del villaggio riunito a festeggiare. Una cura dalle facce serie e tese della politica e da quelle disperate della cronaca, perché solo le persone felici cantano (e quelle brave a farlo incantano). Chi è dis-incantato, lo dice la parola, ha perso il canto della vita, invece, come scriveva Ungaretti: «Chi è nato per cantare/ anche morendo canta» (Proverbi).
La musica, insieme al rito e al gioco, manifesta, nelle culture di tutti i luoghi e tempi, la vocazione umana: celebrare il dono della vita e condividerlo. Da 75 anni Sanremo, nato dalle macerie della guerra, volenti o nolenti, ci ricorda che senza festa sopravviviamo, perché è la festa che dà senso al nostro essere vivi e insieme. Si canta, con più o meno autenticità e arte, ogni cosa della vita: la morte e la nascita, l’amore e il disamore, il dolore e i sogni, per sapere che tutto questo è «musica per le nostre orecchie», proprio tutto. La Musa ci ispira: «Ricordati di vivere», facendoci attingere al pozzo dove la nostra energia, esaurita dal quotidiano insensato da fare, ritrova respiro e desiderio. Ci vuole la cicala tanta quanto la formica. Infatti in questo tempo di vite angosciate e isolate, la musica è dappertutto, con perenni sottofondi più o meno gradevoli, come pro-memoria che c’è altro.
Ma chi ascolta oggi la musica senza fare altro? E perché è così raro? Perché, come per il vino, c’è chi ascolta per dimenticare, si ubriaca e crolla, e c’è chi lo fa per ricordare, gusta, condivide e lotta. Quando siamo de-motivati chiediamo sempre «motivi»: alla Moda o alla Musa? Possiamo accontentarci di tormentoni costruiti su ciò che la psicologia chiama «earworms», tarli da orecchio, motivetti che rodono il cervello perché basati sul meccanismo della ricompensa immediata e ripetuta tanto da farci dimenticare la realtà attorno a noi: «Canta che ti passa». Se invece vogliamo ricordare quanto la vita sia grande nei suoi due linguaggi, bellezza e dolore, dobbiamo rivolgerci alla Musa, che ci offre «motivi» veri per vivere e non «motivetti»: «Canta che ti appassioni». Canzoni per dimenticare o per ricordare? Luigi Tenco si tolse la vita (c’è chi dice che fu ammazzato perché voleva rivelare il giro di scommesse che pilotava le canzoni...) proprio durante un Festival, nel 1967. Prima di salire sul palco disse a Mike Buongiorno: «Vado fuori, canto e poi ho chiuso con la musica leggera».
La Moda è leggera, non nutre, la Musa sfama e dà energia, e così anche nel teatrino del successo di massa guidato da case discografiche e algoritmi, a Sanremo c’è chi sparisce presto con la sua leggerezza, perché è figlio della Moda, e chi resta, perché lo è della Musa. I nomi dei primi evaporano rapidamente, quelli dei secondi no, perché la loro musica de-canta nel cuore, e lì rimane. Quante canzoni non pervenute o sconfitte al Festival se ne infischiano delle cervellotiche regole del voto sanremese...
Come in tutte le cose sta a noi riconoscere e scegliere chi ce la canta e ce la suona, perché la posta in gioco è alta. Qual è? Provate qualche volta, alla sera, a trovare un’ora, magari in famiglia o con amici, per ascoltare insieme «l’arte delle Musa», ognuno propone una pezzo e spiega il perché, e poi solo ascolto: quanti ricordi, sogni, paure ascolteremo, quanta vita libereremo dalla solitudine e dal silenzio. Magari c’è ancora qualcuno che suona uno strumento e intona un pezzo che ha superato la prova del tempo, o addirittura si improvvisa un nostalgico karaoke. Ci scopriremo più uniti e felici, perché per vivere bisogna far festa, e per far festa ci vuole un «motivo» vero, non basta il «sottofondo» presto dimenticato, ci vuole il «profondo» che tutti ricordano.
Sappiamo quali sono i nostri dieci motivi di fondo? E quali quelli delle persone vicino a voi? Saperlo significa molto più di quanto crediamo, come racconta lo psichiatra e scrittore Oliver Sacks in Musicofilia, in cui indaga il mistero della musica attraverso alcune patologie. Un suo paziente, Clive Wearing, noto musicista e musicologo inglese, era stato colpito da totale amnesia per una encefalite. Non ricordava nulla se non i pezzi che eseguiva ancora con sicurezza e trasporto. Come era possibile? La risposta è affascinante e illumina il mistero su cui si interrogava Darwin: «Clive, incapace di ricordare o anticipare gli eventi a causa dell’amnesia, è tuttavia in grado di cantare e suonare e dirigere la musica perché ricordare la musica non è affatto un ricordare nella comune accezione del termine. Ricordare la musica, ascoltarla o suonarla ha luogo interamente nel presente... Ogni melodia ci mostra che il passato può esistere senza essere ricordato e il futuro senza essere previsto».
La musica ci regala il qui e ora, ci impedisce di fuggire nel passato o nel futuro ma, in quanto arte di curare il tempo, fa accadere la vita, immergendoci nel presente che oggi facciamo così fatica a vivere, sempre altrove, sempre insoddisfatti. Solo un’altra cosa oltre alla Musica ci riesce, e la rivela al dottor Sacks, Deborah, la moglie del suo paziente smemorato: «È in quel suo sentirsi a proprio agio nella musica e nell’amore per me, che Clive trascende l’amnesia e trova un continuum: non è la fusione lineare di un momento dopo l’altro, né si basa su un qualsiasi contesto autobiografico; invece, è il luogo in cui Clive, e tutti noi, siamo alla fine: il luogo dove tutti noi siamo quelli che siamo». Amore e Musica ci regalano il «presente eterno», il luogo in cui siamo sempre «alla fine», cioè talmente veri e vivi da sconfiggere il passare del tempo. Chi ha Amore e Musica ha già tutto.
L'amore che non va via
Danilo Di Matteo
Salvatore Veca, in un bellissimo libretto pubblicato postumo, notava come l’amore umano sia caratterizzato dalla provvisorietà e dall’incertezza. E il brano musicale di Elodie proposto a Sanremo rende mirabilmente tale aspetto, esasperandolo: Dimenticarsi alle 7, quando un nuovo giorno inizia e si torna alla propria solitudine, dopo aver accarezzato per qualche ora la seduzione e il mistero dell’amore.
Come sottolineava Veca, infatti, l’amore si situa sì nella contingenza, in ciò che è e potrebbe non essere, nella caducità, più in generale, propria degli umani, lontano più che mai dall’Idea platonica, per definizione eterna, ma, nello stesso tempo, su di esso aleggia proprio quell’Idea di eternità, in forma di desiderio, o di anelito. Non a caso, gli innamorati tendono a dirsi: “tuo/a per sempre”. Come dire: l’ombra dell’infinito e dell’eterno avvolge le relazioni sentimentali, continuamente esposte al rischio concreto della perdita e della dissipazione.
Da qui il ritornello del brano dell’artista, che somiglia a una preghiera, a un’invocazione: “Dove vai amore / Ora che ho bisogno di te”. Provvisorietà dei legami umani, dunque, e, insieme, desiderio, addirittura bisogno di stabilità.
Ovviamente, nella canzone tutto risulta amplificato: tante relazioni non svaniscono affatto alle 7 del mattino e, anzi, nutrono le nostre vite per mesi, anni, decenni. Proprio estremizzando, tuttavia, essa coglie l’essenziale: la caducità (un po’ come le foglie d’autunno richiamate da Giuseppe Ungaretti a proposito della guerra), a fronte di un sogno d’eternità. Vi è nell’amore, quindi, un’intima tensione tra la labilità dei sentimenti e la precarietà delle situazioni da un lato e l’aspirazione all’infinito e al definitivo dall’altro. Come dire: l’amore umano è limitato ma tende a un appagamento senza limiti.
In mezzo vi è la preghiera di Elodie: “Dove vai amore / Ora che ho bisogno di te”. Preghiera tenera, quasi struggente, che esprime sia la nostra fragilità, la fragilità dei nostri legami, sia il bisogno e il desiderio di trascenderla.
Ragion per cui avrei aggiunto al titolo del brano un punto interrogativo: Dimenticarsi alle 7?
Marmellata
Adrien Candiard
Ci sono discorsi sulla felicità che fanno paura, come la parabola di Gesù sul ricco e il povero Lazzaro (Lc 16,19-31): la felicità di uno che è ricco in questo mondo lo conduce all’infelicità eterna. Non abbiamo quindi il diritto di essere felici fin da adesso? Ma certo che sì! La felicità del ricco, però, non è felicità: è un semplice comfort, la più ingannevole illusione di felicità. Ci sono comfort piacevoli come ci sono anche comfort inquietanti, comfort in cui si è infelici, comfort dove si muore di solitudine, ma che restano comunque dei comfort. Non è bene per l’uomo restare sempre invischiato nella stessa marmellata. La via del Vangelo che mi strappa dai comfort che mi isolano è il mio fratello. La sua sofferenza, le sue idee differenti, i suoi modi sconcertanti mi impediscono di diventare uno scapolone spirituale, intrappolato in abitudini che diventeranno ben presto manie. Il mio riflesso è di proteggermi da questi altri che gettano scompiglio nella mia vita ben ordinata. Ma Gesù avverte: il tuo prossimo non è una minaccia, è la tua salvezza. Se lo rifuggi, finirai per essere solo come il ricco che non vedeva più Lazzaro e la sua miseria. Nella maggior parte dei monasteri, i fratelli pregano stando gli uni di fronte agli altri. Io prego Dio, ma quello che ho davanti agli occhi è quel fratello che mi infastidisce, quel fratello la cui sofferenza mi preoccupa. Quel fratello fatto a immagine di Dio che è la sua icona più somigliante
Scegliere la vita
Adrien Candiard
La felicità è una scelta: così ci insegnano tanti coach di sviluppo personale. È un’idea al tempo stesso rassicurante, perché suggerisce che la felicità sia a portata di mano, e colpevolizzante. Se non siamo felici, sembrano dirci, è un po’ colpa nostra, perché basta decidere di esserlo… Nel libro del Deuteronomio, dopo aver trasmesso al popolo d’Israele appena uscito d’Egitto i comandamenti di Dio, Mosè conclude la sua presentazione della Legge con una frase semplicissima, che sembra voler dire qualcosa di molto simile: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e la felicità, la morte e l’infelicità. […] Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore, tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui» (Dt 30,15-20). E tuttavia Mosè qui non afferma che è sufficiente scegliere, che la felicità e la vita sono solo una questione di scelta: egli ricorda che una scelta è, comunque, necessaria. Il cammino della felicità che traccia è quello di un amore esigente, paziente, concreto, per Dio e per il prossimo, un amore che s’incarna nella realtà quotidiana e di cui la Legge è l’espressione. Per amare non basta volerlo, ma senza una scelta, senza l’impegno, senza il “sì” del nostro battesimo, sapremo noi metterci in cammino verso la gioia?
Il segreto della sapienza
Adrien Candiard
“I soldi non fanno la felicità” è una sentenza arcinota. Ma allora, che cos’è che fa la felicità? A questa domanda, antica e continuamente dibattuta, dà una risposta chiara e netta il libro della Sapienza, uno dei più tardivi dell’Antico Testamento, tanto che a essa deve il suo titolo: la felicità viene dalla sapienza. O, più precisamente, l’infelicità viene dall’ignorarla, come il libro spiega con quella che suona come una beatitudine all’incontrario: «È infelice chi disprezza la sapienza e l’educazione. Vana è la loro speranza e le loro fatiche inutili, le loro opere sono senza frutto. Le loro mogli sono insensate, cattivi i loro figli, maledetta la loro progenie» (Sap 3,11-12). La sapienza non è solo un concetto teorico e un tantino aereo: nella Bibbia, questa è innanzitutto una qualità pratica, la capacità di trovare i mezzi adeguati per i propri obiettivi, un’abilità nel portare a termine un’impresa. Mancare di tale competenza significa rischiare il fallimento su ogni piano, professionale come relazionale. Ma la vera sapienza non è solo una questione di agilità o di sapersela cavare: la si acquisisce conoscendo il mondo in profondità, in ciò che gli dà il suo senso e la ragion d’essere, quell’amore di Dio che è, al tempo stesso, la sua causa e il suo segreto. Non saperlo non significa solamente correre il rischio di capire male il mondo, ma soprattutto correre il rischio di lavorare per tutta la vita invano.
Alberto Maggi “Nominare la morte non dev’essere un tabù”
“I modi per annunciare il lutto sono molteplici e variano tra credenti e non credenti, ma tutti, invariabilmente, evitano in ogni modo di parlare di ‘morte’, così si fanno vere e proprie acrobazie letterarie pur di non pronunciare quel termine che ormai è un tabù…”. Su il Libraio la riflessione del biblista Alberto Maggi.
OVUNQUE TU SIA
È sempre doloroso e difficile annunciare la morte di una persona cara. Storditi dall’evento, tanto più se improvviso, i pensieri e i sentimenti vengono come inghiottiti in un vortice di dolore e di pianto, si appanna non solo la vista ma anche l’intelletto. C’è però nel contempo l’impellente necessità di informare del decesso e trovare le parole adatte con cui si possa esprimere il lutto. Allora ci si affida a quanto già sperimentato, collaudato, a frasi stereotipate, perlopiù banali, che però non riescono a esprimere il sentimento e non sono adatte per manifestare il dolore.
I modi per annunciare il lutto sono molteplici e variano tra credenti e non credenti, ma tutti, invariabilmente, evitano in ogni modo di parlare di “morte”, così si fanno vere e proprie acrobazie letterarie pur di non pronunciare quel termine che ormai è un tabù. Ciò può essere verificato usando uno dei tanti motori di ricerca che si trovano su Internet e digitare “Annunci funebri”. Sono decine, ma in nessuno di essi si dice chiaramente che la persona è morta. Non si muore più, ma si avvisa che il tale “ci ha lasciato”, o “si annuncia la scomparsa…”, o “la dipartita”, o che “è venuto a mancare…”, oppure, in modo alquanto originale, che “è partito per il suo ultimo viaggio…”, o che “è passato a miglior vita…”. Per molti viene anche indicata la modalità della loro uscita dalla scena terrena, avvenuta senza creare troppo scompiglio: “andato via in silenzio, in punta di piedi…”.
Per i credenti, poi, c’è una vasta gamma di scelta, tra chi annuncia che il loro caro “è stato trasferito in un luogo di pace…” e che, finalmente, “riposa in pace eterna”. Poi ci sono quelli che, sicuri interpreti della volontà divina, sono certissimi che “Il Signore l’ha chiamato…”, o che “l’ha preso…”, o “tolto”, e, dando per scontato che “i più buoni il Signore li vuole con sé”, non esitano ad annunciare che il defunto era “già maturo per l’aldilà…”, o, in caso di persone in giovane età, che “I fiori più belli li vuole il Signore…” o anche “c’è ora un angelo in più in paradiso” (come se al Padreterno non bastassero quelli che già ci sono…). Ciò che accomuna gli annunci funebri, sia laici che religiosi, è il concetto di separazione e distacco: i morti se ne sono andati, scomparsi, o si trovano in un’altra dimensione, sia essa il cielo o altro, che in ogni caso li rende lontani e distanti.
Attualmente al primo posto tra le persone religiose l’annuncio più amato e gettonato è indiscutibilmente: “è tornato alla casa del Padre…”. Questa pia formula pretende di essere cristiana, ma in realtà non lo è, in quanto ha le sue radici nella filosofia greca secondo la quale le anime, che vivevano beate in cielo, venivano obbligate a scendere sulla terra, in una condizione, quella umana, che vivevano come una prigionia dalla quale desideravano al più presto liberarsi per poter, con la morte, tornare finalmente beate alla loro casa, il cielo appunto. Ma questo non è un messaggio cristiano. Gesù lo ha espresso chiaramente: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Con la morte non si torna alla casa del Padre, perché il credente è la casa di Dio, o in altre parole, con la morte non si va in cielo, perché il cielo è già nella persona che ha accolto Gesù.
Negli ultimi anni è tornata di moda, anche tra i cristiani, come omaggio al defunto, usare l’espressione di origine pagana “che la terra ti sia lieve”. Questa formula poetica, in auge soprattutto nel mondo protestante anglosassone, dove i presenti al rito funebre usano gettare una zolla di terra sulla bara calata nella fossa, in realtà per un credente è una contraddizione. Tale espressione, tratta dal latino “sit tibi terra levis”, si trova infatti nei monumenti funebri pagani come affettuoso ossequio verso il morto, ma non ha nulla a che vedere con la certezza cristiana di una vita eterna, cioè di una qualità che la rende indistruttibile e che la morte non interrompe. Per questo i credenti chiamavano il giorno della morte il “giorno della nascita” (“dies natalis”), perché erano certi che non si moriva mai ma si nasceva due volte, e la seconda per sempre.
Inoltre, grazie alla diffusione dei social, ormai abbastanza facili da usare per persone di ogni età, oltre all’annuncio funebre vengono ricordati i defunti nei loro anniversari di morte, che non si limitano soltanto al primo, ma che sono anche per quelli che sono morti da trenta, quarant’anni e più.
Tutti, immancabilmente, anche nonni e bisnonni, se ne “sono andati troppo presto” e hanno “lasciato un vuoto incolmabile”, il che, se fosse vero, sarebbe alquanto preoccupante. E il ricordo o il saluto, che in questi casi viene rivolto direttamente al defunto, è angosciante: “Ovunque tu sia…”, espressione che dà l’idea di uno smarrimento, come se l’anima fosse spersa e vagasse disorientata nell’immensità dell’universo e chissà dove è andata a finire… Anche questa espressione non può essere considerata appartenente alla spiritualità cristiana. Il credente, quando ricorda o prega la persona cara, non la pensa “ovunque sia”, ma, al contrario, afferma: “tu che sei ovunque!”. Questa è la fede del credente.
Con la morte, non più condizionati dalla fisicità, dalla carne, si creano nell’individuo nuove possibilità di relazione che consentono, questo sì, al defunto di essere sempre presente con un amore che non è venuto meno con la morte (“è mancato all’affetto dei suoi cari!”), ma che si è potenziato, perché ora viene trasmesso con la stessa forza dell’amore divino, come il Cristo risorto, che i discepoli non pensavano lontano nei cieli, ma che sperimentavano presente, perché “operava insieme con loro” (Mc 16,20). Per un’autentica spiritualità evangelica occorre riscoprire il valore della morte, che una teologia nefasta presentava in passato come castigo divino per il peccato della prima coppia. Bisogna, come Francesco d’Assisi, collocare invece la morte nella sua giusta dimensione, tra i doni del Signore che, come l’acqua, il sole e la terra, consentono la vita delle persone, per cui anche la morte diventa una sorella. La morte, infatti, non è una privazione, ma al contrario una beatitudine, come scrive l’autore dell’Apocalisse, che proclama addirittura “Beati” i morti (Ap 14,13). La visione evangelica della morte va pertanto sintonizzata con l’insegnamento del Cristo, che annunciando la sua fine arriva ad affermare “È bene per voi che io me ne vada…” (Gv 16,6). La morte di Gesù non significa la sua assenza, ma una presenza ancora più intensa, resa possibile dallo Spirito che dona la capacità d’amare come lui ha amato, permettendo di sperimentare così la sua vivificante vicinanza in modo ancora più potente di quello si è potuto conoscere quando Gesù era in vita.
Con la morte la persona non si allontana, ma si rende ancora più vicina, per questo è inesatto dire che “non è più!”, ma, al contrario, che “è di più”, perché, come il chicco di grano che cadendo in terra morendo libera tutte le sue energie e si trasforma in una spiga dorata (Gv 12,24), nel momento del trapasso la persona si è incontrata con il Dio-Luce che non l’ha assorbita in sé, ma si è fuso con essa dilatandone l’esistenza in un crescendo senza fine. E potrà così sperimentare “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, che Dio ha preparate per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9) e che ora sono la linfa divina che alimenta la persona che è passata attraverso la morte. Per questo con la morte si continua a crescere e ad amare, e, com’è scritto in un apocrifo del primo secolo cristiano, l’Apocalisse di Baruc: “con la morte si dimorerà nelle altezze di quel mondo là; si sarà simile agli angeli e somiglianti alle stelle, si verrà trasformati in qualsiasi forma si vorrà, di bellezza in grazia, di luce in splendore di gloria” (Ap. Bar. LI,10).
Con la morte non si interrompe la relazione col defunto, ma cambiano le modalità di comunicazione, che diventano via via sempre più intense e rendono consapevoli della presenza della persona amata nella propria vita, come esprime l’antica spiritualità cristiana con una frase, tradizionalmente attribuita a sant’Agostino, secondo il quale “i morti sono esseri invisibili ma non assenti. Noi non li vediamo perché siamo avvolti in una nube oscura, mentre loro sono nella Luce e ci vedono. I loro occhi, pieni di gioia, sono fissi sui nostri, pieni di lacrime. Ci sono vicini, felici, trasfigurati”.
Inverno
Erri De Luca
Si usa dire: ”Ho preso freddo”. Pure se il verbo è all’attivo, l’effetto è passivo, fa sentire freddo.
Dico per me: ”Ho preso il freddo”, nel senso di averlo preso volontariamente, perché è inverno e il corpo reagisce coprendosi, non aumentando i gradi di riscaldamento della casa.
Mi sono abituato, scaldo un solo ambiente, la cucina, dove passo il giorno.
Niente zanzare, mosche, visite di formiche, il freddo è pausa, riposo e custodia della terra.
Si usa d’inverno rientrando in casa togliersi il soprabito, il cappotto, il berretto di lana. L’appartamento è tiepido. Il mio no, perciò resto vestito come per l’esterno.
Intanto il giorno prolunga la parabola del sole, tramonta un po’ più in là e già questo pensiero mi scalda un sorriso.
Nella casa lontana nel tempo di Montedidio a Napoli non c’era riscaldamento, come in quasi tutti gli alloggi di allora. Un paio di stufette elettriche addomesticavano la temperatura. Non si dovevano accostare le mani intirizzite altrimenti venivano i geloni.
Nelle case più povere un braciere a carbonella mandava più fumo che tepore, oltre al micidiale monossido, che uccideva nel sonno.
L’inverno non era una stagione, ma un attraversamento. I vecchi che doppiavano il Capo Horn di febbraio si erano guadagnati un altro anno.
Sono rimasto in buoni rapporti con il freddo, non lo butto fuori di casa. Coperto a dovere, lo prendo, lo respiro. Quello che non prendo è il raffreddore.
Il dono della vita ogni giorno
Don Divo, Dal libro “La via del ritorno” (capitolo “la Parola di Dio)
“Nulla è più indifferente all'uomo: la pioggia che cade è il dono che il Signore ti fa, il sole sorge oggi per te, per te fino dall' eternità Egli ha preparato la fragile bellezza del fiore che cogli. Oh! era giusto quello che faceva andare in estasi S. Maria Maddalena de' Pazzi quando aspirando il profumo di un fiore esclamava: «Fino dall' eternità il Signore ha pensato a quest'ora, quando io avrei ricevuto questo fiore dalle sue mani per aspirarne il profumo».
Sì, l'uomo, qualunque cosa faccia, dovunque egli viva, si trova davanti al volto di Dio. Sta a lui scoprirlo e ascoltare attraverso ogni cosa la parola di Dio. Egli è qui, Egli si rivolge a me, mi dice il suo amore, mi manifesta la sua volontà, mi annuncia le sue promesse, si rivolge a me per donarmi il suo amore.
Non soltanto ogni cosa ci parla di Dio, dice Dio, ma attraverso ogni cosa è Lui stesso che parla. Non soltanto la creazione ha come un riflesso della bellezza divina. Ogni cosa è veramente lo strumento di un'azione personale di Dio verso di te, il mezzo onde Egli si comunica personalmente.
Dio ha un volto ed è Padre. Si rivolge a te per comandarti, ti invita a sé, ti guida, ti minaccia, ti dice il suo amore. Tu sei davanti a Dio, come nel cielo. Ora tu lo vedi attraverso dei segni, domani faccia a faccia, ma Lui solo in definitiva è davanti a te, non le cose, non gli uomini. Gli uomini, le cose, tutto è occasione onde l'anima viva questo rapporto, e la vita di fatto tutta si raccoglie e si riassume e tutto termina in questa comunione dell'anima con Lui. Non un Dio che è l'immenso, l'infinito, di cui poteva parlare Leopardi, ma un Dio che è Padre, un Dio che ha un nome e un volto; che è una persona, e si rivela al tuo cuore e vuole stringere un patto con te: si chiama Gesù. Non una pura rivelazione di bellezza. Sì, la creazione rivela anche la bellezza di Dio. Più ancora Egli ti parla attraverso la creazione medesima e stringe con te un'alleanza, sicché, anche attraverso la visione dell' alba, il rompere del vento e l'odore della terra è veramente una comunione personale con Dio quella cui il Signore ti chiama.
Quando si dispiega davanti a te la meraviglia delle cose, quando ascolti il passare del vento, odi il rotolare del tuono, vedi il balenare dei fulmini, ne intravedi la veste.
E Dio stringe con te un' alleanza, vive questa sua alleanza con te; un' alleanza che si esprime precisamente ora in una minaccia, ora in un invito carezzevole, ora in un dono di tenerezza, ora in un castigo; ma è Dio, sempre Dio, Dio solo che vive con l'uomo. In ogni istante Dio esce dalla sua solitudine per venire incontro a te e in ogni istante lo incontri; tutta la vita non è che questo rinnovarsi di un incontro con Lui.
Tu sei chiamato a un appuntamento sempre nuovo: te lo dona in chiesa, al mercato, su in cima ai monti e sulla spiaggia del mare; te lo dona in mezzo agli uomini, nella tua solitudine: in ogni luogo è sempre Lui che ti chiama ed è Lui ugualmente che attende.
O il sacramento del momento presente! Che ogni momento sia per te il momento di un incontro divino, sia per te il momento che realizza una tua comunione con Dio.
Dio ti parla. È certo che questa parola non è ancora il silenzio di una vita mistica pura, di una vita cristiana perfetta. Allora la parola di Dio è il silenzio. Tu avrai oltrepassato le cose e il tempo e te medesimo e in Lui sempre sarai come sommerso. Tu non vivrai più allora nell'economia del segno, ma nella verità oltre ogni segno. Dio ti parlerà «05 ad 05» (lI ep.) 12) come dice S. Giovanni, e tu vivrai nel silenzio. Segno è la parola dell'uomo e segno è il profumo del fiore e la bellezza del cielo, ma allora Dio non ti parlerà attraverso dei segni e tu affonderai nella tenebra, affonderai in un silenzio puro, incontaminato, Immenso.
Allora sarà così: ma oggi l'anima deve imparare ad ascoltare Dio attraverso le cose, a vedere Dio attraverso ogni segno! Ogni cosa lo nasconde ma anche lo rivela. Devi ascoltarlo attraverso gli avvenimenti della vita, attraverso ogni creatura dell'universo. La creazione e la storia sono il mezzo più ordinario di una comunione con Dio, perché più universale. È vero che la comunione con Dio si realizza nel modo più intimo e perfetto nel sacramento eucaristico, ma più universale è questa comunione che l'uomo può vivere con Dio attraverso tutte le cose, attraverso gli avvenimenti tutti della giornata! È una comunione continua, ininterrotta, quella che vivi, una comunione universale ed è propria di ogni uomo, dovunque egli viva.”
Fianco a fianco
Adrien Candiard
La felicità risiederebbe forse nell’indipendenza, come promettono le canzoni di musica leggera? Per Adamo, no: secondo la Bibbia, egli è incompleto fino quando rimane completo. Inizialmente è solo e intero, ma Dio si accorge che questo non va bene. Occorre che nel suo sonno vada a levargli un pezzo (quel misterioso “fianco”, più che semplice costola). Alla fine, Adamo non è più solo: ha Eva con sé. Ma non è nemmeno più completo: gli manca un pezzo. Per essere intero, ha bisogno dell’altro. Da allora, l’umanità sa di essere incompleta. Chiunque sente che non può darsi la felicità da solo: la si riceve sempre da un altro. La felicità è nella relazione, non nell’indipendenza. Ecco perché, nonostante i patimenti dell’amore, uomini e donne si rifiutano di rinunciarvi. Perché i single cercano l’amicizia. Perché i religiosi vivono in comunità: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Eppure, né l’amicizia né la vita di coppia arrivano a colmare questa piaga nel fianco, questa sensazione di mancanza, questa ferita che ci rende aperti all’infinito. Perché questa è la breccia attraverso cui Dio viene a toccarci, così come servono dei buchi per afferrare una palla da bowling. Perché è da lui, dal suo fianco aperto sulla croce, che possiamo aspettare quel fiume inesauribile che, solo, saprà placare la nostra sete insaziabile
Giornata per la Vita, dov’è la festa? Ci pare ancora di doverla cercare nascosta, dopo quasi mezzo secolo che torna col suo presagio primaverile, con quella sua aria di gioia che non ci è quotidiana. Ma dov’è l’indirizzo, quella parola ripetuta da molte voci, desiderata, sognata, persin fatta cuore d’un giubileo: la parola speranza? Sì, forse lì, forse proprio nel giorno della Vita la porta che schiude idealmente il futuro ha quel nome, speranza. O non si dice fra noi, con la spiccia saggezza dei nostri proverbi feriali, che fin che c’è vita c’è speranza?
È vero, vita e speranza si intrecciano da sé, si abbracciano nel farsi consistere. Potessimo capire che anche questo anniversario è una “rivoluzione” (così chiamiamo il ritorno annuale della terra al punto dove la corsa nell’orbita del suo sole ripete il cammino); ma non perché immerge nel mistero del tempo la vita che muore e rinasce; né perché fa della speranza il setaccio fra le delusioni del passato e gli slanci verso il futuro. Rivoluzione resta nel cuore come parola di fuoco, come una palingenesi promessa. È la vita, di suo, che ci fa speranti. È la speranza, di suo, che ci fa vivi.
Pure, ogni vita sta dentro la stretta del tempo. E il tempo che viviamo è segnato da tragedie globali, da guerre che rinnovano crimini disumani e inaudite crudeltà; migrazioni di disperati fra torture e naufragi; genti stremate da fame, malattie e povertà, e fra essi l’innocenza straziata dei bambini; e dentro la vita innocente dei bambini, dei figli, dei nuovi germogli, dei nuovi viventi della famiglia umana, l’incredibile strage che li uccide prima di nascere. Il nesso tra guerre e aborti non è casuale: lo rivelò al mondo un Nobel per la pace nel 1979, Teresa di Calcutta. E ripensandoci si prova ancora un brivido, se il motto essenziale della guerra “pietà l’è morta” si confronta con la parola perduta di “compassione” che ha per etimo antico l’utero materno.
Certo l’umanità si porta sul groppone della storia, da sempre, i trionfi della morte generati dalla sua industriosa follia. Ma oggi la differenza è l’assuefazione. Droni, missili, bombe su ospedali, campi profughi, macerie, mutilazioni, cadaveri, fosse comuni. E barconi come carri funebri. E aborti come diritti di salute riproduttiva. Litanie di morte quotidiana senza quasi più reazione di cuore, tanto ci ha penetrati quell’altro veleno, la perdita della speranza. Che altro è la dottrina della “mutua distruzione assicurata”, dove si fa salvavita un terrore? Che altro è il primato del desiderio e del tornaconto rispetto all’altrui sorte?
Anche l’anima s’ammala, e rischia la morte. La malattia mortale, come scrisse Kierkegaard, si chiama disperazione. Dunque per l’umanità la Vita, l’amore per la Vita, la scelta della Vita non è diversa da una grande sfida di speranza a sconfiggere la malattia mortale. Ma dovrà essere una “rivoluzione”. Ne fu profeta Bernanos quando scrisse: «Giorno verrà che in un mondo organizzato sulla disperazione predicare la speranza sarà come lanciare un tizzone ardente accanto a un barile di polvere».
Forse il giorno è venuto, è il tempo nostro, il tempo di vegliare e non più di stare inerti, il tempo di costruire e non più di distruggere, il tempo di generare e non più di uccidere, il tempo di amare e non più di odiare. Questo potrà accadere non più per proclami, dichiarazioni, princìpi, intenzioni, auspici: accadrà se la speranza diverrà operosa com’è nella sua natura. La speranza infatti, la stessa speranza umana, terrestre, è progetto e coraggio coerente. All’umanità, per guarire i suoi mali, serve scongiurare le guerre, sconfiggere la fame, la povertà, le malattie, lo sfruttamento dei nuovi schiavi, e in una parola dare aiuto alla vita. Ma i progetti, e le carte e i trattati non fanno il miracolo senza l’azione di aiuto. La speranza è il coraggio di promettersi, di darsi in aiuto alla vita.
Nel Messaggio che i vescovi italiani hanno scritto per questa Giornata per la Vita la parola speranza è un filo rosso che guida alla disamina del presente e alle prospettive di grazia insite in quella fornace di speranza che è il Giubileo. Così la speranza resta parola di fede, resta dono e virtù. La virtù di saper attendere in veglia operosa il futuro come una lampada accesa, senza dubitare, senza smarrirsi: impiegata a ottenere il suo frutto nel segno di una tensione d’amore. Così ebbe ragione di dire il poeta Péguy che la Speranza è la sorella minore che tiene per mano la Fede e la Carità, come guida sicura.
Il Messaggio dei vescovi non viene qui riassunto, va letto per intero, sulle tracce che percorrono i temi della necessità di credere nel domani; della carica di gioiosa speranza nella trasmissione della vita, aperta alla fiducia e alla relazione; della dignità inviolabile di ogni vita umana; della difesa della vita nascente e della necessità di provvidenze in aiuto della maternità difficile (rammentando a tal proposito l’attività generosa di soccorso svolta dai Centri di Aiuto alla Vita); della genitorialità; dell’impegno che a tutti incombe per la vita, cristiani in primis.
E si comprende che la conclusione porti ancora la parola essenziale dell’aiuto, quello invocato da Dio, quello del Dio “amante della vita” che riecheggia la preghiera finale posta a suggello della storica enciclica Evangelium vitae. Se ciò inspira un pensiero definitivo sulla speranza dentro la nostra vita umana, che la storia pone per tutti sotto il segno della morte, è che la morte non sarà l’ultima parola; sarà l’ultimo nemico a essere annientato. Per lo spirito, speranza è morire vivi, disperazione vivere morti.
Cinque porzioni al giorno
Adrien Candiard
La frutta fa bene alla salute. Non smettono mai di ricordarci di mangiare cinque porzioni di frutta e verdura al giorno. Ormai è un imperativo morale tra i meno negoziabili. Eppure, non ci dice la Bibbia che tutto partì da un frutto che non si doveva mangiare? Perché, se la frutta è buona, può essere anche velenosa. Il comando divino di non toccare il frutto proibito non sarà forse una messa in guardia? Dio avverte Adamo: questo frutto è pericoloso, ti può fare male. Morirai – non perché io ti punisca, ma perché avrai mangiato quello che non puoi digerire. Qual è dunque la colpa di Adamo ed Eva? Non tanto di avere disobbedito, quanto di avere confuso il proibito con l’impossibile. Dio diceva: è impossibile mangiare quel frutto e vivere. Loro hanno capito: io ti proibisco di mangiare quel frutto e di continuare a vivere. Facendo di Dio un tiranno arbitrario, dimenticano che i suoi comandamenti indicano la via della vita e della felicità. Il nostro peccato si basa generalmente anch’esso sulla medesima confusione: noi crediamo che sia possibile essere felici e bugiardi, in pace senza perdonare, liberi senza amare. Il frutto del peccato lascia spesso un sapore amaro. Quante volte dovremo intossicarci ancora, prima di preferirgli l’abbondanza dei frutti dell’amore?
L’incontro
Danilo Di Matteo
Due sono a mio avviso le esperienze umane fondamentali di crescita: da un lato l’opera costante e tenace di semina, seguita dal raccolto, la preparazione, la gestazione; dall’altro l’incontro fulminante con l’altro/a. Anche il Libro di tutti i Libri, la Bibbia, presenta entrambi i volti del fare umano e della nostra relazione con il divino.
Ricorrono, tra le altre, le metafore dei semi, dei campi, dei rovi, della zizzania. E altrettanto eloquenti sono ad esempio i passi nei quali il Signore, in un attimo, impedisce, tramite un angelo, che Abramo sacrifichi suo figlio Isacco o comunica con Mosè nel roveto ardente. Per non dire della folgorazione per antonomasia, quella di Paolo sulla via di Damasco.
La storia di ciascun essere umano, che sia credente o meno, è caratterizzata dai due aspetti. Vi sono relazioni sentimentali o amicali nate da “un colpo di fulmine”, poniamo, e altre maturate lentamente negli anni. Più spesso, anzi, una stessa relazione è costellata di istanti (i primi, fugaci sguardi, le prime sillabe scambiate, il rossore in viso, l’emozione del primo bacio, il primo incontro di sesso, la nascita di un/a figlio/a e così via) e di un’opera tenace di dissodamento e di tessitura. Come si suol dire, il rapporto “va coltivato”.
E l’impresa culturale e scientifica è a sua volta contraddistinta da un lento, graduale, progressivo accumulo di saperi e da momenti di svolta (le varie “rivoluzioni copernicane”), quando antichi paradigmi cedono il posto ai nuovi. L’epistemologo Thomas Kuhn, non a caso, parlava di anomalie che approdano a veri e propri salti.
In tal contesto, accanto al contrasto fra i tempi lunghi della “routine” e la rapidità delle mutazioni (quasi fossero vere e proprie mutazioni genetiche, non semplici variazioni sul tema), porrei l’accento sulla forza dell’incontro. Una sorta di esperienza estatica, talora, nella quale è come se si uscisse dai propri confini individuali – da se stessi – per con-fondersi con il mondo interiore dell’altro/a. Un’altra, un altro che non di rado risuonano con qualcosa che è già in noi (il celebre perturbante evocato da Freud).
Nella nostra quotidianità capita che si stigmatizzi un atteggiamento di remissiva attesa (quella dello “speranzoso” a oltranza, di chi confida nell’incontro miracoloso o nel colpo di fortuna), a favore, piuttosto, dell’impegno e della costanza. In realtà la ricerca della felicità non può che nutrirsi di un equilibrio, di una giusta proporzione dei due momenti e dei due aspetti. Se non ci poniamo domande, se non arricchiamo noi stessi con la virtù e il discernimento, se non proviamo a tessere una trama relazionale adeguata, difficilmente ci imbatteremo nell’evento, difficilmente troveremo risposte.
E arduo sarà incontrare “la persona della nostra vita” intellettuale, artistica o sentimentale. Altrettanto importante, tuttavia, è riuscire a riconoscere quegli occhi, quella formula matematica, quel sorriso, quell’occasione di libertà. Già, come non si stanca di sottolineare il filosofo Giacomo Marramao, la libertà è nell’evento, nei fatti che rompono le catene che di solito ci vincolano, le legature, nei fatti che sfidano le dure leggi della necessità. E si tratta di fatti, di eventi che, tanto nelle vicende individuali quanto in quelle collettive, corrispondono di solito a una sorta di eccezionale “congiuntura astrale”. Per lo più a un incontro, nella vita dei singoli.
Potremmo anche porre in tensione i due aspetti costitutivi del tempo: Chronos, il fluire costante, inesorabile, cumulativo dei minuti, dei giorni, degli anni, e Kairós, il tempo debito, propizio, opportuno. In Chronos si situa la “gestazione”, nel Kairós l’incontro.
L’unica possibilità..il Coraggio della fratellanza. Ognuno, insieme.
Enzo bianchi
di Chiara Genisio
La fraternità come via per superare la guerra. «L’unica possibilità». Ad affermarlo è fratel Enzo Bianchi: «Siamo alla vigilia di una grande guerra mondiale. La fraternità è da vivere con lo stesso impegno avuto per la libertà e l’uguaglianza, come qualcosa di politico per cui combattere.
Deve tradursi in istituti politici, giuridici com’è avvenuto in Sudafrica per la riconciliazione. Finché la fraternità resta un augurio, anche la libertà e l’uguaglianza saranno fragili, come scrivo nel mio libro ». Si intitola proprio così, semplicemente Fraternità (Einaudi Editore), il suo ultimo libro. Un testo che era già pronto anni fa, poco prima dell’uscita dell’Enciclica sociale Fratelli tutti di papa Francesco. Ha scelto di attendere a pubblicare, nonostante i solleciti del suo editore. Ma ora ha sentito che il tema doveva “assolutamente” essere approfondito e divulgato. «Ne ho sentito l’urgenza», afferma, «la società è sempre più rancorosa, più diffidente con la mancanza di fiducia. Un clima in cui viene sempre meno soprattutto la fraternità e, di conseguenza, la solidarietà, lo stare insieme. Ciò mi ha spaventato e mi ha indotto a pubblicare questo libro; con la guerra ormai ai confini dell’Europa e nel Medio Oriente la fraternità diventa l’orizzonte dell’umanità e non più l’orizzonte di cui parlare come se riguardasse solo i cristiani o una parte del mondo».
Papa Francesco nella Prefazione scrive che nel libro lei mostra che «la fraternità è la vocazione dell’umanità». Quanto è importante che papa Bergoglio abbia scritto la Prefazione?
«Molto importante. Non ho mai perso la consapevolezza di essere figlio di uno stagnino, di venire dal Monferrato da una famiglia povera; nella mia vita avrei mai pensato di stringere la mano a un Papa, di diventare poi con Benedetto XVI e con Francesco, in un certo senso, un amico. La Prefazione mi è giunta come un dono grande, un segno di affetto di papa Francesco, di un suo riconoscimento soprattutto dopo un periodo burrascoso, in cui sembrava che ci fossero molte diffidenze verso di me. Quindi, non solo ringrazio Francesco che, in tutto questo tempo, con lettere e messaggi mi ha dato segni di affetto, di confidenza, di rassicurazione, ma lo ringrazio perché ha messo anche un sigillo su quello che scrivo, su quello che può essere il mio insegnamento, la mia eredità».
Lei a un certo punto cita che Francesco identifica la questione della fraternità come una cosa dei credenti di tutte le religioni, ma lei dice no: è una questione dell’umano...
«E aggiungo anche dei non credenti. Secondo me la fraternità è universale. Dobbiamo stare attenti a non fare una specie di “Onu dei credenti” in cui al centro ci sarebbero i monoteismi, poi le altre religioni e le altre spiritualità ai bordi. L’uomo non è definito dal credere o dal non credere, ma dal suo operare».
C’è, quindi, un’unica fraternità per tutti?
«Sì. Noi certamente ci sentiamo confermati nella fraternità, perché diciamo che l’unico nostro padre è Dio. Ma i non credenti possono sentire la fraternità come imperativo avvertito dalla coscienza umana come decisivo; è un cammino al quale sono chiamati tutti gli uomini e le donne della terra. L’umanità è una: ciascuno o si colloca in relazione con altri e si umanizza o sperimenta un cammino individualistico che ha come esito la barbarie».
Possiamo affermare che un credente dovrebbe avere una spinta in più verso la fraternità?
«Una responsabilità in più».
La Chiesa italiana come vive la fraternità?
«La Chiesa o è una fraternità oppure non è Chiesa di Cristo. La Chiesa italiana non sempre sente quello che dice Francesco, non sempre ascolta le voci più vive. È una Chiesa ancora troppo lenta; al Sinodo non c’è un vero tema di rinnovamento, manca l’invenzione, la scoperta di un segno dei tempi nuovi... Non si percepisce un’urgenza nuova nella Chiesa italiana. Sono ancora valide le indicazioni pastorali dell’inizio del 2000».
Di cosa c’è bisogno?
«Occorre avere del coraggio».
La questione femminile affiora nel dibattito anche al Sinodo: nella Chiesa italiana c’è un problema femminile?
«C’è in tutta la Chiesa, forse un po’ meno nelle Chiese del Nord. Le donne non sono ancora valorizzate come dovrebbero. Abbiamo un Papa che è più profeta e più avanti di quel che è il popolo di Dio».
Come sono i giovani che incontra?
«I giovani non sentono neanche la Chiesa lontano, per loro non esiste più. Viviamo un tempo di esculturazione del cristianesimo A volte parlando con loro mi dicono che la Chiesa non sanno cosa sia. Vivono nell’indifferenza verso tutto, con l’obiettivo di stare bene con sé stessi. Ci mancano dei corridoi di formazione per i giovani. Sono preoccupato, in questo periodo sto lavorando con gli Scout, un’agenzia che fa formazione e che aiuta a crescere umanamente e fornisce una grammatica umana».
Da mesi è impegnato con conferenze e iniziative, a parlare non solo di fraternità ma anche di vita, sentimenti, cuore, cibo. Tutta questa vitalità le arriva da “Casa Madia”, la sua nuova casa?
«No. Io credo che la fonte sia l’assiduità alla parola di Dio. Io sperimento che l’assiduità alla parola di Dio mi infonde un coraggio, una forza per cui non temo nulla. Mi fa dire quello che devo dire a chiunque; non ho paura e affronto anche quelli che mi calunniano o mi hanno calunniato. Se la parola di Dio viene meno anche per un giorno, io mi sento smarrito e mi sento debole».
L’invito è a pregare di più?
«Sì, a leggere di più la parola di Dio. Attaccarsi al Vangelo perché il Vangelo è Gesù Cristo e Gesù Cristo è il Vangelo».
Dare o ricevere
Adrien Candiard
Quando scrive «Beato l’uomo che ha cura del debole» (Sal 41,2), il salmista sembra essersi lasciato andare a un momento di distrazione. Non voleva piuttosto dire: “Beato il povero o il debole a cui qualcuno pensa”? Se infatti ci si prende cura degli sventurati, è appunto per renderli meno sventurati, per dare loro qualcosa che assomigli alla felicità. Se alla fine è colui che aiuta a ritrovarsi felice, si direbbe che ci sia sfuggito qualcosa. Eppure, il salmista è concorde con Gesù stesso, di cui san Paolo riporta questa parola: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35) – unica beatitudine di Gesù che non venga a noi da un Vangelo. Beatitudine che viene a confermare ciò che tutti i volontari e volontarie del mondo sanno bene: nel prendersi cura dei più piccoli e dei più deboli, essi ricevono molto più di quanto non diano. E che ne è, allora, della felicità degli sventurati? Non ce ne preoccupiamo mai tanto come quando consentiamo loro di manifestare anch’essi, nella misura loro possibile, cura per i più deboli – senza dunque imprigionarli nel ruolo di oggetti della nostra generosità, ma lasciandoli diventare soggetti capaci di amare, di prendersi cura degli altri e di dare.
Il gusto della vita
Roberto Oliva
Persino dall’abisso della precarietà umana può nascere – se ne riconosciamo la legittimità – l’anelito che, attraverso le pieghe della storia, ci conduce al gusto di essa. Antonio Gramsci dal carcere così scriveva alla mamma: «Si diventa vecchi quando si incomincia a temere la morte e quando si prova dispiacere a vedere gli altri fare ciò che noi non possiamo più fare. Finché si vuol vivere, finché si sente il gusto della vita e si vuole raggiungere ancora qualche scopo, si resiste a tutti gli acciacchi e a tutte le malattie».
Se l’insicurezza umana è narrazione del significato – a volte ignoto – di ciò che siamo, i cammini tortuosi compiuti al di là delle apparenze e dei riconoscimenti conducono verso mete più alte. A volte occorre maggiore delicatezza verso questa precarietà che desidera essere riconosciuta come appello che sale a Dio dai bassifondi della nostra complessità perché essa diventa ‘gustosa’ nel momento in cui si scopre possibilità e non solo mera fatticità.
Le domande partorite dalla precarietà umana esprimono il potenziale di un’inquietudine da non addomesticare poiché invitano ad uscire dall’individuale visione limitata delle cose. Soprattutto nei paesi occidentali questa precarietà assume i contorni di una povertà di tempo che, subdolamente, supera una semplice questione di orologio. La ‘mancanza’ di tempo provoca una corsa continua, evitando gesti “inutili”, verso il ripiegamento sul presente che – a stento – si tenta di dilatare sempre più. Come accade per le diverse forme di povertà, anche la seguente tende ad esasperare la mancanza fino ad assolutizzarla: quando si scopre che il presente non è tutto, ma una parte del tempo, si diventa succubi dell’ansia per paura di attraversare la vita.
Ma la povertà del tempo non è mai legata al presente che viene meno, bensì al futuro che incombe, cioè al tempo che sta per venire: “Come sarà? Cosa accadrà? Riuscirò a cavarmela?” Quando si diventa affamati di tempo l’unica soluzione è quella di riempire con attese eccessive un presente che fatica a diventare eterno. Così cresce senza sosta la frenesia di stimare ciò che siamo capaci di realizzare, la fretta di camuffare ciò che ancora non siamo diventati e soprattutto la paura di non meritare il giusto per le nostre prestazioni.
Se il tempo che resta sembra ridotto allora occorre dimostrare tutto e adesso, disposti alla logica disumana della competizione per meritare l’approvazione altrui e quando non arriva si approda nel disagio con la realtà. Questo è il malessere che dilaga ai nostri giorni abitati dalle vittime dell’ansia, tipica di chi fugge dalla propria vulnerabilità rincorrendo comodi e raggiungibili paradisi artificiali.
L’eterno presente ci ripiega così su noi stessi, trasformandoci in brutte copie dal famoso Narciso privi della capacità di prenderci cura dell’altro: l’amore infatti non esiste come ideale ma come sentiero da percorrere. Ai sentimenti contrastanti della paura è urgente rispondere con un esercizio di sentimenti positivi capaci di tirar fuori la dimensione affettiva che abita la verità dell’umano: lì, infatti, è nascosto il tesoro (Mt 6,21).
Se il presente non è tutto, il futuro diventa il tempo dell’imprevedibile. L’inedito costituisce così la riserva di possibilità attraverso la quale la precarietà umana può ancora desiderare. Non casualmente al cuore del messaggio di Gesù alberga quell’imperativo che libera ogni desiderio di vita: “Non affannatevi per il domani” (Mt 6,34). Il futuro non solo è ciò che ci viene incontro, ma anche ciò che posso diventare poiché “l’uomo si sperimenta come la possibilità infinita” (K. Rahner).
Ogni soluzione che l’uomo trova alla sua precarietà è sempre provvisoria, ogni appagamento all’ansia che escogita è sempre relativo: per tale motivo abbiamo bisogno del futuro per realizzare noi stessi. Il futuro è il tempo in cui posso immaginarmi, articolarmi e desiderarmi (V. Costa, La società dell’ansia, Roma 2024, 67). Il tempo, infatti, è anche attesa non solo godimento: gestazione di un desiderio che ci spinge oltre lo spazio ristretto dell’ansia da prestazioni.
In fondo Dio è colui che vuole essere desiderato non posseduto, atteso non rinchiuso: con Lui il futuro diventa la possibilità di esprimere a pieno il desiderio di vivere e amare perché è fedele alla sua promessa: “Sì, vengo presto!” (Ap 22,20).
Grande distrazione e presenza
Elisabetta Proietti
C’è una categoria che mi sembra rappresentare un rischioso nuovo paradigma dell’oggi: quella della “grande distrazione”. Gli antichi latini avevano un vocabolo, distraho, che significava tirare in sensi diversi, separare, disgregare e anche rompere in pezzi, disunire, mandare a vuoto un obiettivo, staccarlo da sé. Ragionando per opposti, il contrario di distrazione lo troviamo nella concentrazione. Una persona concentrata, poi, è anche presente; tuttavia la concentrazione è solo una delle molteplici realtà della presenza. Ad esempio, il mind wandering è necessario e costruttivo, predispone alla centratura e alla creatività: anch’esso in questo senso è presenza. Presenza è percepire corrispondenza tra interiorità ed esterno; rivolgendoci ancora agli antichi maestri, è trovarsi in uno stato di en-thou-siasmòs, nell’essenza e nell’ispirazione del dio. Riuscire a contattare quel “dio di dentro” che significa contattare un nucleo proprio vitale, il “punto vivo” per dirla con il Nobel Luigi Pirandello. Qualcosa che apre alla creatività, un terreno di pre-espressività. All’opposto sta la “grande distrazione” intesa come assiduità del distoglimento da sé, difficoltà protratta e indotta a mettere a fuoco. L’incapacità progressiva di cogliere il contesto sotto traccia, e non è questione di poco conto: cresce il frastuono della grande distrazione e di pari passo decresce l’abilità a decodificare “il rumore di sottofondo” il quale contribuisce a costruire coscienza personale e collettiva, e facciamo fatica a capire dove stiamo andando. La grande distrazione è scorrimento e si contrappone all’incontro profondo. La proiezione continua sull’altrove porta alla costruzione di identità solipsistiche, in un mondo che ha estremo bisogno dell’intelligenza dei gruppi per affrontare i decisivi cambiamenti in atto. Rivelatrice è una attuale invalsa modalità di fruizione delle cose, ad esempio dell’arte e della natura. C’è una differenza tra godere e carpire, tra lasciarsi attraversare e trasformare da un’esperienza e invece illudersi di impossessarsene velocemente attraverso lo smartphone, riducendo l’esperienza a un oggetto di consumo, il godimento e l’estasi a nulla. Smania di possesso e meccanicità connotano questo fare.
UNA CATEGORIA DELL’OGGI
Possiamo dunque definire la grande distrazione una categoria attuale pedagogica ed esistenziale. Un campo di indagine che ci interpella e richiede, a tutti gli educatori, la ricerca di pratiche che possano essere di aiuto, evoluzione e autoliberazione; affinché la persona possa coltivare nella presenza la qualità della relazione con sé e con ogni alterità, umana e non, e così avere sguardo per contribuire a rendere migliore la societas, dando ad essa una forma desiderabile per tutti. Una sfida che oggi (quando l’a-razionale ineducato è spesso direzionato sulla violenza, quando la preoccupazione del riarmo pandemico sembra occupare la natura umana lasciando poche fessure alla negoziazione del bene della pace) diventa ancora più urgente. La grande distrazione è il continuo essere spostati altrove che forse è iniziato con l’era del multitasking e con l’illusione delle infinite potenzialità di gestire diversi contesti in contemporanea, illusione che ci ha esaltati. Una tendenza diventata un disegno industriale, che accettiamo compiacendoci di andare dove il nostro algoritmo ci porta. Preoccuparsi di favorire la presenza piena diventa essenziale: essa dispone a cercare soluzioni creative. “(…) Sviluppiamo la creatività di tutti, perché il mondo cambi”, sostiene Rodari. Contro la creatività rema la grande distrazione: l’assiduo essere indotti a eludere il qui e ora (penso ad esempio al continuo scrolling con i social), che ostacola l’elaborazione collettiva di temi e problemi, mentre è attraverso di essa che passa la costruzione di una responsabilità pubblica. Il risultato è che ci indigniamo ma non combattiamo, ci scriviamo ma non ci tocchiamo. La grande distrazione è il ripiegamento delle più belle energie umane verso la stasi, pur nell’illusione di un’attività incessante, e l’inconsapevole inerzia davanti a quanto accade. È pervasiva; tocca tutti gli ambiti della vita; blocca o condiziona la scelta; depriva di strumenti di comprensione.
QUALE PRESENZA?
All’opposto della grande distrazione incontriamo la presenza. Nel greco antico il verbo pàreimi indicava sono presente, mi trovo, ma anche dipende da me, è in mio potere. Il latino praesum è illuminante: sono il principale responsabile, proteggo, sono il custode. Ma cosa dipende da me, cosa è più in mio potere, a queste condizioni? L’impegno sul fronte educativo deve essere quello di favorire la presenza per reagire; esserci perché possa dipendere da me. È la più grande responsabilità e il più importante lascito che possiamo fare alle giovani generazioni. L’innovazione di una Paese corrisponde alla sua cultura della responsabilità. Presenza significa esserci come persone dotate di senso in un contesto dotato di senso. La definizione dell’antropologo Ernesto De Martino – che incontra il da sein di Heidegger – indica la presenza come la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situazione storica, partecipandovi attivamente attraverso l’iniziativa personale e modificandola eventualmente attraverso l’azione. È l’adsum dei latini: ci sono, sono pronto. La crisi della presenza è spaesamento.
INCIDERE SULLA REALTÀ
Come poter governare i cambiamenti in atto senza subirli, poter tornare a dire dipende da me, ho potere di scelta, sono custode? Scrive Sant’Agostino: “L’animo attende, presta attenzione, ricorda”: attende il futuro e ha memoria del passato, ma è il presente il momento in cui si deve “prestare attenzione”. Presenza è attenzione, un’arte difficile di “comprendere le verità evidenti con tutta l’anima”; “l’attenzione estrema costituisce nell’uomo la facoltà creatrice” scrive Simone Weil. L’esercizio vero di questa capacità è “vita in profondità”. La grande distrazione, invece, è condizione rischiosa perché perdita di contatto con il fondo di noi stessi. Un mondo alienato dalla sua vera essenza non sa sviluppare nuove possibilità, ma si arma; è un mondo che, prima o poi, sceglie la guerra. Scrive ancora il filosofo di Tagaste: “Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi”.
Dalle aspettative alla speranza
José Tolentino Mendonça
Un’arte che la vita ci richiede, per vie diverse ma insistentemente, è quella di tramutare le aspettative in speranza. Dobbiamo riconoscere che tante volte, invece di essere un moltiplicatore di vita, le nostre aspettative diventano un’inconfessata spina nel fianco che ci trasciniamo per anni e anni. Siamo lenti a capire che le aspettative corrispondono alla proiezione dei nostri desideri, mentre la speranza si libra su di noi e ci coinvolge in una gestazione più grande, più generosa e polifonica. Facilmente le aspettative diventano creazioni astratte e illusorie, disegnate come forme ideali, determinate dalla nostra visione parziale. Mentre l’esperienza della fede, per esempio, ci fa abbracciare una speranza crocifissa, che si costruisce in direzione contraria al cammino lineare e senza scosse che avevamo previsto, e ci apre alle sorprese a cui l’amore concretamente ci conduce. Le aspettative sono una forma nervosa di intervenire nella realtà e di accompagnare gli altri. Senza rendercene conto, facciamo pressione, condizioniamo, riduciamo la vastità con il nostro stile affannoso. La speranza, invece, ci insegna a prendere il tempo come nostro alleato, poiché crede nel potere vitale di ciò che pare appena una briciola, quasi un niente. Ma ci sono briciole, infine, che si rivelano essere semi prodigiosi: il loro schiudersi riscatta la storia.
Il coraggio della Speranza
Eugenio Borgna
La speranza fa parte della vita, è una esperienza umana che ha molteplici espressioni tematiche e che ha una sua radicale significazione non solo in filosofia e in teologia, ma anche in psichiatria e, cosa ancora più importante, nella vita di ogni giorno; e di speranza vorrei parlare in queste pagine, intessute delle mie esperienze di vita.
La speranza non è l’attesa
L’attesa e la speranza sono esperienze di vita contrassegnate da concordanze tematiche ma che non si confondono l’una nell’altra.
Ci sono attese che non finiscono mai e attese che nascono e muoiono rapidamente; ci sono attese che si rievocano con ansia e inquietudine e attese che si rivivono invece con serenità; ci sono attese incentrate su eventi felici e altre su eventi ricolmi di angoscia e di dolore; ci sono attese che sconfinano nella speranza e attese che nulla hanno a che fare con la speranza; ci sono attese che riguardano il nostro destino e attese che riguardano il destino di altre persone; ci sono attese che invece cambiano di giorno in giorno e attese che non si concludono mai.
Ma ci sono altre attese: attese terrene e attese metafisiche, attese di qualcosa che ci consente di continuare a vivere, di ritrovare un senso alla vita, e attese disperate che non si realizzano mai.
Non saprei come meglio avviarmi alle riflessioni conclusive sull’attesa, e sulla sua ragione d’essere tematica, se non richiamandomi alle cose scritte da Eugène Minkowski, uno dei grandi psichiatri del secolo scorso, in testi di straordinaria importanza, non solo fenomenologica, ma anche psicopatologica. Anche nelle sue più alte e complesse considerazioni, alle quali non sono mai estranee implicazioni filosofiche bergsoniane e husserliane, egli non si allontana mai dalla sua esperienza clinica. Così definisce l’attesa: «Essa ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza, angosciato nell’attesa. L’attesa contiene in sé un fattore di arresto brutale che toglie il respiro.
Si direbbe che tutto il divenire, concentrato fuori dell’individuo, si avventi su di lui come una massa possente e ostile cercando di annientarlo, come un iceberg che si erge bruscamente davanti alla prua di una nave e contro il quale essa andrà fatalmente a schiantarsi subito dopo». A queste considerazioni Minkowski ne aggiunge altre: «L’attesa penetra così l’individuo fino alle viscere, lo riempie di terrore di fronte alla massa sconosciuta e inattesa – stavo quasi per dire – che tra un attimo lo inghiottirà.
L’attesa primitiva è dunque sempre legata a un’intensa angoscia, è sempre un’attesa ansiosa».
L’attesa non si identifica così con la speranza; benché l’una e l’altra siano tematizzate dal loro distendersi nel futuro: nell’orizzonte delle cose che ancora non sono state, e che nondimeno saranno, o potranno essere; ma cosa si può dire della speranza, come definirla nelle sue fondazioni esistenziali?
La speranza nelle sue fondazioni esistenziali
La speranza come categoria esistenziale non può essere intesa nella sua emblematica radicalità se non nel contesto di riflessioni non solo psicopatologiche, ma anche filosofiche, che ci consentano di avvicinarci al nucleo eidetico della speranza: ai suoi infiniti orizzonti di senso. Come è possibile non citare, nel contesto di questo discorso, le parole vertiginose di Blaise Pascal sul tempo e sulla speranza? «Noi non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo è solo per prendere la luce con cui predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine.
Il passato e il presente sono i nostri mezzi, solo l’avvenire è il nostro fine. Così noi non viviamo mai ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere felici, inevitabilmente non lo siamo mai».
La dialettica e il mistero della speranza, gli abissi di significato che sono in essa, riemergono da queste parole che sfidano il tempo; e a noi, a chiunque di noi intenda fare una psichiatria fenomenologica e antropologica, non rimane se non di riversare nel solco delle esperienze cliniche il senso di quello che le riflessioni pascaliane racchiudono in sé. Noi non viviamo mai ma speriamo di vivere; e allora, quando la speranza viene meno in noi, quando le alte maree della disperazione ci lambiscono, o ci sommergono, quando cioè la depressione, la malattia che recide drasticamente la speranza, nasce in noi, come è possibile vivere e continuare a vivere?
La speranza nelle sue radici fenomenologiche
Nel suo splendido libro, dedicato al tempo vissuto, Eugène Minkowski ha scritto pagine bellissime sulle radici fenomenologiche della speranza. «La speranza va più lontano nell’avvenire dell’attesa.
Io non spero nulla né per l’istante presente né per quello che immediatamente gli subentra, ma per l’avvenire che si dispiega dietro. Liberato dalla norma dell’avvenire immediato, io vivo, nella speranza, un avvenire più lontano, più ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre adesso davanti a me». E ancora: «Ma la speranza va “più lontano” anche in un altro senso: la speranza allontana da noi il contatto immediato del divenire- ambiente, sopprime la morsa dell’attesa e mi consente di guardare liberamente lontano nello spazio vissuto che si apre adesso davanti a me. Nella speranza intuisco tutto quanto può esserci al mondo al di là del contatto immediato stabilito dall’attesa tra il divenire e l’io».
Conoscere gli andamenti della speranza nelle aree delle esperienze psicopatologiche è senz’altro utile al fine di seguirne e di valutarne le ricadute; e del resto la speranza, la sua presenza o la sua assenza, testimonia di modi radicalmente diversi di confrontarsi con la vita: nelle sue crisi e nei suoi naufragi. La speranza, nella sua trascendenza, ci rimette in una continua relazione con il mondo delle persone e con il mondo delle cose, mentre le sue eclissi si accompagnano immediatamente al dilagare delle ombre e della notte oscura dell’anima con le loro angosce e le loro lacerazioni.
Ridestare la speranza
Dalle parole di chi sta male, di chi sia immerso nella depressione, nell’angoscia psicotica o nella ricerca senza fine di un senso, di un qualche senso, nella vita, riemergono l’importanza e i significati della speranza, e dei suoi naufragi.
Questi si riflettono nella perdita di slancio vitale, nello scoraggiarsi e nello svuotarsi degli orizzonti di vita, nel dilatarsi del presente e del passato, nell’inaridirsi dell’avvenire del quale non sopravvivono se non alcuni frammenti che non danno sollievo, e che non creano comunicazione e comunione con il mondo delle persone e delle cose. Dalla evanescenza della speranza discendono poi solitudine e isolamento che distolgono dalla solidarietà e dall’essere-insieme agli altri.
Quando questo avviene, quando la disperazione depressiva, psicotica o esistenziale, svuota di senso la vita, e la morte volontaria ne è una delle conseguenze possibili, la cosa essenziale è quella di ascoltare e di valutare se la condizione psicotica, depressiva o esistenziale mantenga aperti gli spazi a una qualche attesa, a una qualche speranza, che possano essere ridestate nel contesto del progetto terapeutico.
Confrontandoci, noi che viviamo nella speranza e nelle speranze, con chi non abbia più speranze nel cuore (bruciate dall’angoscia e dalla disperazione), non dovremmo mai dimenticare la debolezza e le ambivalenze delle nostre parole e dei nostri gesti che non sempre sono dotati di una radicale testimonianza terapeutica. Le parole leggere, o le parole pesanti come piombo: quali parole abbiamo nel cuore quando ci avviciniamo al destino, al volto e agli sguardi, ai silenzi e agli scoramenti, alla tristezza e all’angoscia, alla timidezza e alle insicurezze, alle speranze recise di chiunque fra noi sia colpito dalla malattia mortale e dalla disfatta della speranza?
La speranza nella cura
Non solo negli incontri che la vita ci propone ogni giorno, ma anche, e soprattutto, negli incontri che si hanno con pazienti divorati dall’angoscia e dalla disperazione, è davvero necessario intendere il senso misterioso di un dialogare nel silenzio; e questo al fine di intuire cosa questi pazienti sentano, e cosa provino, quali attese e quali speranze inquiete essi abbiano, e quali ombre scendano sugli orizzonti della loro vita.
Grande importanza, in ordine alle risultanze terapeutiche, ha la presenza in chi cura della speranza, della capacità e della possibilità di mantenere viva la fiaccola, o almeno la scintilla, di una speranza come atteggiamento interiore; e questo, in particolare, quando ci confrontiamo con le esperienze psicotiche che si esprimano nell’autre monde della follia. La speranza è come l’anima di una psicoterapia che tenda a fare riemergere le risorse nascoste e galleggianti nella vita interiore dei pazienti.
La nostalgia della morte volontaria
La speranza, senza confondersi mai con l’ottimismo, ci conduce a rivivere la sofferenza degli altri da noi come la nostra possibile sofferenza e a partecipare alla loro angoscia e al richiamo in loro della morte volontaria. Non è possibile, in ogni caso, confrontarsi con esperienze oscure e ambiva- lenti, come sono quelle che si correlano in particolare con la nostalgia della morte volontaria, se non si riconoscono le emozioni che sono in noi: la qualità delle nostre relazioni controtransferali che, se sono impregnate di inquietudine e di paura, non ci consentono di svolgere un utile lavoro psicoterapeutico.
Se non accettiamo interiormente l’esperienza del suicidio come possibilità radicata nella condizione umana e se la riviviamo come destituita di ogni possibile orizzonte di senso, allora non nascerà mai in noi una speranza capace di trainare una psicoterapia adeguata alla comprensione di quello che avviene nella vita emozionale, e nella storia della vita, di chi sia affascinato dal desiderio del suicidio, dall’anelito a rifuggire da una vita rivissuta come insopportabile e insostenibile. Se la speranza è in noi, se comprendiamo il senso dello scacco esistenziale che c’è nel suicidio, allora ci sarà possibile parlare sinceramente con i pazienti della cosa evitando inutili e vaghe allusioni.
Senza dimenticare mai che, quando il suicidio fallisce, essi si vergognano del gesto compiuto e tendono a banalizzarlo e a tacerlo, a rimuoverlo.
Il parlarne, in ogni caso, esige una grande delicatezza e una grande discrezione, e anche una grande attenzione alle motivazioni che vengono espresse, e a quelle, magari molto più importanti, che vengono taciute. Le parole con le quali si conclude lo splendido saggio di Walter Benjamin sulle goethiane Affinità elettive dovrebbero essere incise nel cuore di ciascuno di noi quando la vita si fa difficile e non è lontana da noi la disperazione.
Le parole sono queste: «Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza».
La speranza che rinasce
Come si vive la speranza quando la tristezza, la malinconia, il male di vivere, la depressione, che ne è la definizione clinica, scendono nella nostra vita, velandola e immergendola nella notte oscura dell’anima? Non conosco testimonianza più umana e struggente di quella che mi è stata data da una mia giovane paziente, curata in anni lontani e mai dimenticata, che ho chiamata Maria Teresa, nella quale l’eclissi della speranza e la sua rinascita sono state la conseguenza di una condizione depressiva di vita.
Ne vorrei ricordare alcune sue parole, che sono state di disperazione prima e di rinascita della speranza poi. «Se potessi sperare nel suicidio, se potessi contare su di una morte così vicina, se potessi scegliere la mia morte, sopporterei meglio questa tremenda sofferenza, perché ne conoscerei la fine. Non ho la speranza della morte. Non ho questa speranza. Non più alcuna speranza». A queste parole si univa una angoscia lacerante e una stremata tristezza dell’anima, che sembravano non finire mai; e invece dopo alcune settimane di cura un cambiamento radicale: la speranza perduta, a mano a mano si rigenera, e queste sue parole lo dimostrano.
«Ieri mi sentivo dentro una speranza non motivata. Non speravo nel miglioramento di mia figlia.
Avevo solo nel cuore una speranza: la speranza. Prima, pensavo di non potere sperare se non in una speranza determinata, ma ieri è nata improvvisamente in me una diversa speranza. Nel cuore, questa speranza. L’avevo così negata questa speranza. Questa speranza immotivata contiene un sacco di cose: anche il futuro. Una speranza che contiene il futuro ma un futuro che è vita. La presenza di un avvenire. Il futuro mi spaventava, prima, perché vedevo nel futuro la ripetizione del presente.
Ieri, non avvertivo più questo senso negativo. La speranza che si apriva, ed era come una nuova vita ». Sono parole emblematiche della significazione umana della speranza, del suo rinascere dal cuore, come fonte di conoscenza, del suo scomporsi in speranza e in speranze, una differenza di radicale importanza, del suo essere la splendida descrizione di una speranza che si forma muovendo dalla interiorità.
Sono parole che sanno dare di questo passaggio dalla disperazione alla speranza una straordinaria evidenza, che si è accompagnata ai cambiamenti delle espressioni del volto, da dolorose e straziate a luminose e ridenti. Sono esperienze che danno un senso alla psichiatria, come scienza umana, che aiuta, direi, ad avvicinarsi al cuore della speranza.
Le ultime cose
La vita dell’uomo è la speranza, e alla speranza vorrei invitare i miei occhi e gli occhi delle lettrici e dei lettori di questa meravigliosa rivista a guardare come alla coda di una cometa che non possa né oscurarsi né spegnersi.
Ma non mi è ora possibile dimenticare quello che della speranza dice Giacomo Leopardi in celebri pensieri dello Zibaldone; e in particolare in questi: «La speranza, cioè una scintilla, una goccia di lei, non abbandona l’uomo, neppur dopo accadutagli la disgrazia la più diametralmente contraria ad essa speranza»; e ancora: «Chi si uccide da sé, non è veramente senza speranza, non più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz’amore di se stesso.
Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita».
Solo la speranza risana le ferite, anche quelle sanguinanti, senza lasciare tracce; e la speranza, come diceva sant’Agostino, è misteriosamente intrecciata alla memoria. Questo ci dice che passato, presente e futuro scorrono senza fine l’uno nell’altro; e allora è necessario che ciascuno di noi custodisca nel suo cuore la speranza che è fragile come cristallo e dura come diamante. Sapere testimoniare la speranza, che vive in noi, a quanti l’hanno perduta è una esperienza che ne allarga i confini; e nella speranza si riesce a donare un senso all’infinito del dolore. Ma non potrei concludere queste mie riflessioni se non dicendo che la speranza ha bisogno di coraggio: quello di non lasciarsi affascinare da quello che avviene nel momento in cui viviamo, quello di ricercare senza fine il possibile che si nasconde nell’impossibile, quello di non identificare la speranza con l’ottimismo, che non ha nulla a che fare con lei, quello di non dimenticarsi mai che la speranza è apertura al mistero e che ci saranno sempre più cose in cielo e in terra di quelle che non conoscano le nostre filosofie, e le nostre psichiatrie: le celebri parole, aggiornate, dell’Amleto.
Una bellissima poesia di Emily Dickinson sigilla questo mio discorso sulla speranza.
È la “speranza” una creatura alata / che si annida nell’anima – / e canta melodie senza parole– / senza smettere mai – E la senti dolcissima nel vento – / e ben aspra dev’essere la tempesta che valga a spaventare / il tenue uccello che tanti riscaldò – Nella landa più gelida l’ho udita – / sui più remoti mari – / ma nemmeno all’estremo del bisogno / ha voluto una briciola – da me.
Fortezza virtù della Speranza
Enzo Bianchi
È difficile oggi parlare delle virtù. Pensiamo subito a una lettura moralistica, perché non si comprende più la virtù come habitus che fa parte della formazione del carattere. In realtà, la virtù è la dimensione stabile e evidente degli aspetti più profondi della persona dal punto di vista psicologico, morale e spirituale.
Non è una virtù teologale, dono dall’alto, ma è qualcosa che si può acquisire con la ricerca, l’esercizio, e dando costanza nel tempo a atteggiamenti e azioni finalizzate a compiere il bene.
Oggi, dobbiamo riconoscerlo, una delle più gravi carenze nella paideia, nell’educazione, è nell’approccio alle virtù.
Ma tra le virtù alle quali si bada poco, possiamo dire che la fortezza è ancora una virtù, la terza virtù cardinale secondo la tradizione filosofica e teologica occidentale?
Forse oggi è misconosciuta perché termine troppo imparentato con “forza”? O forse in reazione a una certa lettura di Nietzsche e del suo “uomo forte”? Eppure in passato la fortezza era considerata la virtù per eccellenza. Era la virtù “condizione necessaria di tutte le virtù”. Era ritenuta indispensabile per una vita bella, buona, felice, degna di essere vissuta, era sentita come determinante. Solo con la fortezza si può firmiter operari , operare in modo saldo, rimuovendo gli ostacoli perché l’azione decisa abbia corso e abbia buon esito.
Come si può costruire una famiglia se non c’è questa virtù della fortezza nei genitori e in modo specifico nel padre? I figli che crescono hanno bisogno di sentire e vedere la possibilità di aderire a qualcosa di sicuro, di saldo. E come si può governare una comunità senza essere “forti” ? Come si può contrastare la forza che aggredisce e tenta di distruggere senza persone forti che con discernimento sappiano lottare e difendersi? Ed è proprio nella capacità della lotta che la virtù della fortezza deve esercitarsi, nel sustinere ,cioè nella resistenza anche lunga e faticosa.
Il contrario della persona forte non è il pauroso ma l’impotente, che nella sua paralisi ad operare lascia fuoriuscire la violenza che lo abita per rovesciarla fuori di sé.
Proprio per mancanza di fortezza diventerà un traditore lasciando agli altri il lavoro sporco e nascondendo così la sua incapacità anche a opporsi alla persona forte.
Dove manca la fortezza fiorisce l’omertà, si omette la cura, la giustizia non può essere esercitata per l’arroganza di chi possiede potenza, il silenzio complice di chi non vuole vedere vince su ogni compassione. Troppi elogi della fragilità vengono celebrati oggi ma la fragilità è un grido che chiede aiuto, cura, interessamento di persone forti, non di persone complici della diffusa astenia.
Vorrei infine ricordare come la virtù della fortezza sia il fondamento della speranza. Perché colui che sa sperare lo può fare tenendo i piedi su un terreno solido per poi lanciarsi in avanti, può sperare sul fondamento di cose certe e mai da solo ma insieme agli altri.
"L’armonia è la chiave per salvare il mondo, solo così possiamo sognare giustizia e bellezza"
Vito Mancuso
La leva dell’intelligenza ci ha innalzati come teorizzava Archimede, ma serve una fede a cui appoggiarsi. Filosofia, religione o politica offrono una soluzione a patto di non crederle immobili, perché nulla lo è.
Immaginatevi (com’è capitato a me) di dover esporre pubblicamente quale sia la vostra filosofia di vita, la vostra scala di valori, il punto di appoggio della vostra mente per orientarvi nel mondo: quale sia insomma il vostro “ubi consistam”. L’espressione latina è tratta dalla frase pronunciata da Archimede dopo aver scoperto il principio della leva: “Da ubi consistam et terram caelumque movebo”, “Datemi un punto d’appoggio e solleverò la terra e il cielo”. Qui però non è in gioco un punto di appoggio materiale, quanto piuttosto il punto di appoggio immateriale necessario alla coscienza per non smarrirsi nel labirinto della vita. Ebbene, come rispondereste?
Ad Archimede nessuno fu in grado di dare il punto di appoggio fisico richiesto e il mondo proseguì nel suo corso regolare. E fu proprio questa regolarità cosmica a costituire lungo i secoli il punto di appoggio mentale degli esseri umani. Così Shakespeare illustrava la situazione: “I cieli, i pianeti, e questa terra ch’è centro di ogni cosa, rispettano grado, priorità, rango, stabilità, corso, proporzione, tempo, forma, dovere e fedeltà col massimo rigore” (Troilo e Cressida, I,3). Su questa cosmologia si appoggiavano la religione e la politica, l’etica e l’estetica, producendo ciò che nella sua bellissima autobiografia intitolata “Il mondo di ieri” Stefan Zweig definiva “il mondo della sicurezza” …
Oggi le cose sono cambiate. La leva dell’intelligenza umana è effettivamente riuscita a sollevare il mondo come sognava Archimede. Da qui lo scardinamento dell’antica cosmologia, della religione, dell’ideologia politica, dell’etica, dell’estetica, della socialità. Tutto il mondo di ieri, oggi, non esiste più. Si trattava di un lavoro che andava fatto? Penso di sì, ma la conseguenza è che noi ora siamo rimasti privi di punti fermi che ci consentano di avere un terreno comune su cui costruire anche solo un minimo di comunità. Il mondo di ieri faceva pagare la sicurezza e l’unità conferite negando libertà e diritti dei singoli, il mondo di oggi assicura libertà e diritti ai singoli ma lo fa sgretolando i valori e generando solitudine e insicurezza. Siccome però il primo bisogno della mente è la sicurezza (avvertita più urgentemente anche della libertà), da tale insicurezza deriva un malessere generale il cui nome più preciso è: paura. La paura conosce diverse gradazioni: preoccupazione, inquietudine, timore, agitazione, ansia, tremore, smarrimento, sgomento, spavento, fobia, orrore, panico, terrore. Ma una cosa è certa: essa si vince ritrovando sicurezza, e la sicurezza necessita di un punto fermo archimedeo su cui sollevare non dico il mondo, ma se stessi rispetto al mondo. Ovvero: datemi un punto fermo e mi solleverò dal mondo. E una volta lassù con la mia mente, il mondo mi farà meno paura e il mio respiro tornerà normale. Ma esiste un punto fermo a cui la mente si possa appoggiare?
L’atto di fede costituisce la posizione di un punto fermo per esercitare su di sé il movimento della leva. Ci si appoggia a quel punto e si solleva se stessi. Forse è la missione più importante della vita: sollevare se stessi e così vincere le proprie paure.
Esattamente come scriveva Etty Hillesum: “In fondo, il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità”.
Solo dalla serenità interiore infatti scaturisce una vita autenticamente capace di bene, di giustizia, di vera bellezza.
Ma in che cosa avere fede? Qui il discorso si fa strettamente personale, si può avere infatti una fede religiosa, una fede filosofica, una fede politica o ancora di altro tipo. Un tempo si cercava il punto fermo in cui avere fede pensando che qualcosa (Dio, il partito, la scienza…) potesse essere immobile, o, teologicamente parlando, infallibile, poi però si è capito che in realtà nulla sta fermo e nessuno è infallibile. Anche quando siamo fermi, ci troviamo su un pianeta che gira su di sé a una velocità di 1700 km/h e che ruota attorno al sole alla velocità di centomila. Nei nostri corpi poi è tutto un continuo movimento: cellule che nascono, cellule che muoiono, microrganismi del nostro microbiota che ora combattono ora collaborano, e mille altri incontrollati processi. Nulla sta fermo fuori di noi, nulla sta fermo dentro di noi. Noi quindi oggi possiamo onestamente ottenere un punto d’appoggio per la nostra fede solo a condizione di non ricercare un punto fermo che sia immobile, perché non c’è nulla che lo sia (e se, ciononostante, lo facciamo, cadiamo nel dogmatismo e nella durezza ideologica). Un punto fermo si può dare solo a patto che non sia immobile: ecco la condizione per avere un punto di appoggio per noi postmoderni.
Per questo la mia fede, che riprendendo Jaspers definisco “fede filosofica”, è fede nell’armonia quale logica complessiva del mondo e della vita. Il mio punto fermo ma non immobile è dato dall’armonia e dalla sua ricerca. In tutto questo incessante mutamento che produce spaesamento io tento come posso con la mia vita e il mio lavoro di inserire in me e fuori di me energia positiva finalizzata alla costruzione di armonia. Più c’è armonia, più c’è vita sana: questa è la mia verità.
A proposito di verità, un giorno mi colpì il fatto che in latino il termine verità (veritas) ha la medesima radice del termine primavera (ver). Non credo sia una mera coincidenza.
Anzi, a mio avviso questo legame tra verità e primavera attesta che originariamente il concetto di verità non aveva a che fare con la mera esattezza (verità scientifica) né con un’immutabile dottrina (verità religiosa), ma con il dinamismo naturale che fa fiorire e rifiorire la vita: cioè con l’armonia in quanto capacità di aggregazione. Per questo, inoltre, il colore primaverile per eccellenza venne denominato “verde” (in latino virĭdis).
Si tratta di un dato che va attentamente considerato: le radici della nostra lingua ci consegnano la radice “vr” connessa alla primavera e alla verità, la quale perciò non va intesa come formula o come dottrina, ma come energia e informazione che fa fiorire e rifiorire la natura. Come armonia.
Ora scusatemi, ma invito chi ha letto fin qui a pronunciare ad alta voce la radice “vr” di veritas; anzi, la seguente sequenza: “vr vr vr vr vr”. Non sentite come il suono di un motore che cerca di mettersi in moto? Che cos’è questo motore? Io credo che qui abbiamo a che fare con la riproduzione, intuita dalla mente archetipale, della vibrazione originaria dell’essere come motore che genera vita, dell’essere come energia. Energia etimologicamente significa “al lavoro”, in questo caso potremmo dire “in moto”.
Mediante la radice vr la mente antica della nostra civiltà giunse a cogliere l’energia che mette in moto e produce lavoro e così a esprimere l’armonia . Noi siamo all’interno di questo processo e più saremo conformi alla sua logica relazionale servendone la fioritura, più a nostra volta fioriremo. Ecco il mio “ubi consistam”.
Il punto fermo ma non immobile dell’armonia quale logica profonda della vita è stato colto da tutte le grandi civiltà dell’antichità e denominato in vari modi tra cui “logos, dharma, tao, hochmà, maat”. Per me il nome più bello è “sophia”, e per questo vivo il mio “ubi consistam” come philo-sophia: come servizio amorevole della logica più profonda della vita.
Una passione persuasiva
Eugenio Borgna
“Mitezza è la capacità di cogliere che nelle relazioni personali – che costituiscono il livello propriamente umano dell’esistenza – non ha luogo la costrizione o la prepotenza ma è più efficace la passione persuasiva, il calore dell’anima”. Borgna parte dalle parole di Carlo Maria Martini per definire le “possibili articolazioni” di questa “esperienza umana così importante, e così dimenticata”. E così quotidiana, se lo si volesse: “Talora non ci rassegniamo a che sia l’altro a concludere il discorso e vogliamo per noi la battuta finale. Sarebbe bello imparare la beatitudine di chi, a un certo punto, sa tacere nell’umiltà lasciando che l’altro magari prevalga, perché non è poi così importante spuntarla”.
È infatti nel rapporto con gli altri che si misura la mitezza, accostabile ma non assimilabile alla mansuetudine: questa infatti, secondo Norberto Bobbio, “è più una virtù individuale, la mitezza più una virtù sociale”, politica, si sarebbe tentati dire, essendo che “la mitezza è attiva, la mansuetudine è passiva”. Attiva ma non aggressiva, la mitezza è lontana anche dall’indifferenza, essendo sempre “ricerca di quello che ci unisce al di là di ogni diversa opinione”. In ciò richiamando, occorre dirlo, “un mondo della vita alternativo a quello della politica”, della politica intesa come la pratica e la qualità dei rapporti di cui ci tocca essere testimoni.
Ma la mitezza è un po’ come il coraggio, non la si può possedere solo perché lo si vorrebbe, “la mitezza è congenita”, sostiene la poetessa Vivian Lamarque, e sembra ammetterlo lo stesso Bobbio, autore di un Elogio della mitezza cui Borgna attinge ripetutamente: “Mi piacerebbe avere la natura dell’uomo mite. Ma non è così. (…) amo le persone miti, questo sì, perché sono quelle che rendono più abitabile questa ‘aiuola’”.
Modo di rapportarsi al prossimo, la mitezza è comunque, o dovrebbe essere, anche regola da osservare nei propri confronti, in quanto “accettazione di quello che noi siamo, delle nostre fragilità e dei nostri limiti”, e dunque via maestra, in questo senso, per “accettare le fragilità e i limiti degli altri”.
Come la mitezza, così la virtù contermine della gentilezza appare oggi “inattuale, nostalgica, e in fondo inutile”, quando è invece, proprio “nella situazione storica attuale”, “una fedele compagna di strada nell’arginare la solitudine, e l’angoscia”.
Simone Weil, Hofmannstahl, Hölderlin, Dostoevskij, Rilke e gli altri immancabili autori di riferimento segnano in contrappunto il discorso riproponendoci l’argomentare per analogie e richiami cui Borgna, letterato sensibile e analista consumato del disagio mentale, ci ha abituato in altri suoi libri, come La nostalgia ferita (in queste note nel maggio 2019). Ad arricchire la costellazione di autori in dialogo sono qui molti italiani, poeti: oltre a Leopardi e Pascoli, anche Antonia Pozzi, e Sergio Corazzini, di cui restano in mente i versi dedicati a un animale che della mitezza è immagine, l’agnello: “Gli occhioni dolorosi /volge senza belare / e pare non osi / perdono domandare”
Mitezza, Einaudi 2023 (pp. 114, euro 12)
Ci sono lacrime che salgono al cielo
Eugenio Borgna
Non intendo ora parlare delle lacrime, come conseguenza di una malattia, ma delle lacrime che rinascono dal taedium vitae, dal male di vivere, dalla nostalgia, o dalla malinconia.
Ci sono lacrime che fanno male, e lacrime nutrite di dolcezza, lacrime amare, e lacrime che leniscono le ferite silenziose dell'anima, lacrime che germogliano nella scia di ricordi lieti e dolorosi, e lacrime di gioia, come quelle rivissute da Blaise Pascal nelle sue indicibili testimonianze mistiche.
Le lacrime ci mettono in comunicazione con gli altri e ci chiedono non di rado aiuto; ma quando ci incontriamo con una persona che piange, che cosa avviene in noi? Quali parole abbiamo nel cuore, quali emozioni ci sono in noi, e quali sguardi sgorgano dai nostri occhi? Conosciamo i gesti (stringere una mano, o fare una carezza, impalpabile come un sospiro), che possano smorzare il dolore dell'anima?
Le lacrime, se sono sincere, sono la testimonianza di una vita interiore delicata e sensibile, e dovremmo saperle accogliere nelle loro gentili e umane risonanze.
Nelle Confessioni, non si può non leggerle almeno una volta in vita, sant'Agostino descrive con parole strazianti il morire della madre, e le lacrime che le hanno accompagnate. Ne vorrei citare alcuni frammenti: «Le chiudevo gli occhi, e una tristezza immensa si addensava nel mio cuore e si trasformava in un fiotto di lacrime. Ma contemporaneamente i miei occhi sotto il violento imperio dello spirito ne riassorbivano il fonte sino ad essiccarlo. Fu una lotta penosissima», e ancora: «Ma cos'era dunque, che mi doleva dentro gravemente, se non la recente ferita, derivata dalla lacerazione improvvisa della nostra così dolce e cara consuetudine di vita comune?»
Rivolgendosi allora a Dio egli diceva: «Privato di lei così, all'improvviso, mi prese il desiderio di piangere davanti ai tuoi occhi su di lei, su di me per me; lasciai libere le lacrime che trattenevo di scorrere a loro piacimento, stendendole sotto il mio cuore come un giaciglio, su cui trovò riposo. Perché ad ascoltarle c'eri tu, non un qualsiasi uomo, che avrebbe interpretato sdegnosamente il mio compito».
Sono parole che si leggono con grande inesausta emozione, e come una preghiera.
All'eloquenza delle lacrime ha dedicato parole straziate Jean-Loup Charvet, storico dell'arte e musicologo francese, in un suo bellissimo libro. Ne vorrei stralciare alcuni frammenti:
«Immobili nella loro caduta, le lacrime partecipano a un movimento che non è più quello della terra. Non cadono mai veramente; o meglio raggiungono il loro obiettivo prima di essere cadute. Non tratteniamo le lacrime, sono loro che ci trattengono. Esse parlano scorrendo verso un altrove che è già oltre la loro esistenza. L'istante delle vere lacrime è quello dell'incontro tra la leggerezza della luce e il peso dell'ombra», e ancora, con immagini struggenti: «Le lacrime esistono al di là della luce, al di là della pesantezza, e persino al di là del silenzio. È allora che piangiamo per davvero lacrimae verae. Da questa eloquenza silenziosa nasce una conversazione infinita. Parola sensibile, parola necessaria e impossibile, la lacrima ha questo di paradossale: più è discreta, più significa, e più sfiora, più cí tocca nel profondo. Stranamente silenziosa, chiaramente visibile, risolutamente sospesa, è una scrittura che esiste solo nelle sue cancellature».
La fenomenologia delle lacrime, il loro significato umano e spirituale, la loro donazione di senso, la loro dignità, il loro sgorgare da un infinito dolore dell'anima e la loro friabile apertura alla speranza rinascono luminosamente dalle pagine umbratili e luminose, metaforiche e misteriose, di sant'Agostino e di Charvet: sono pagine che non si possono leggere senza sentirle vicine al nostro cuore, e alle nostre quotidiane esperienze di vita.
Ma ci sono lacrime che salgono al cielo, come diceva Rilke, e che talora sono più durature del bronzo: la splendida immagine è di Emily Dickinson. Mi auguro che conosciate le sue poesie di una indicibile bellezza: sono un balsamo nelle ore del dolore e della solitudine.
(Eugenio Borgna: Apro l'anima e gli occhi. Coscienza interiore e comunicazione, Interlinea Novara 2021, pp. 39-42)
Attendere nella gioia
Divo Barsotti
Il messaggio del Cristianesimo è la gioia e la ragione di questa gioia è l'imminenza della venuta del Signore. Ma altra cosa è la ragione e altra la condizione: infatti, pur esistendo la ragione della gioia, l anima potrebbe non esserci capace di accoglierla, e non è capace di accoglierla se non realizza certe condizioni. La condizione necessaria ad accogliere questa gioia è detta dal tempo in cui questo messaggio di gioia viene annunciato alla Chiesa, tempo di penitenza. La gioia cristiana fiorisce sull'albero della Croce. Siamo testimoni della gioia, ma prima dobbiamo cercare di vivere in quel digiuno dal mondo che è condizione della gioia cristiana. Possiamo sperare di possedere Dio nella misura che siamo distaccati dalle cose. L'annuncio della gioia cristiana è prima di tutto esigenza di mortificazione, di rinuncia. L'anima possiedera' Dio nella misura che è vuota di sé e desidera' Dio nella misura che è libera da ogni attaccamento. Bisogna che l'anima si abitui a distaccarsi da tutto e trovi tutto in Dio. L'anima deve volgersi verso l'alto.
Vivere l'Avvento vuol dire aprirsi tutti a un solo desiderio: l'attesa di Dio. Noi quest'attesa, non la sentiamo, possiamo avere il senso della presenza di Dio, del possesso di Dio, ma il giorno di domani non rappresenta per noi una meraviglia, l'anima non vive nello stupore di quel che le è promesso. Desiderio di Dio, attesa di Dio! L'amore a te si dona e tutto puoi aspettare da Lui. Quel che Egli ti può dare è sempre nuovo e sempre supera ogni tua aspettativa. Noi crediamo che ci aspettino sempre le stesse cose, invece è tutto nuovo. Tutti aspettiamo meraviglie nuove domani, ma le aspetteremo con maggiore ansia se fossimo davvero distaccati. Non aspetteremmo i suoi doni da Lui.
Questo è l'atteggiamento dell'anima, la gioia che deriva dalla speranza certa in Uno che rimane l'ignoto, che è perpetua novità. Tutte le cose ci dicono Ecce Sponsus venit. Che l'anima esca di sé, dai suoi pensieri abituali, dalla sua vita abituale, allora potrà dire Veni Domine Jesu.
Vivere in modo che ogni circostanza ci ripeta Ecce Sponsus venit. Che l'anima sia tuta viva nel desiderio e nella speranza certa di un incontro imminente.
Il presente, tempo della speranza
Anita Prati
L’elogio del passato è un esercizio retorico che ha sempre appassionato gli insoddisfatti, i cinici, i disfattisti, i tradizionalisti, i timorosi. Davanti alle incertezze del futuro e ai rischi che increspano la superficie del presente, i contorni definiti del già accaduto raccontano orizzonti di certezze in cui è sempre possibile rifugiarsi, sentendosi al sicuro.
Sulla riva opposta stanno gli ottimisti ad oltranza, quelli che «andrà tutto bene» anche di fronte ai genocidi autorizzati e alla violenza che, in modo subdolo ma implacabile, contamina le falde sotterranee del vivere comune.
Lo sguardo all’indietro e la proiezione nel futuro raccontano due posizioni simmetriche, sbilanciate l’una sulla nostalgia, l’altra sull’idillio, ma entrambe avviluppate dentro una narrazione che trova perno e motore nella necessità di mettere a tacere le ansie sull’oggi. Il passato era migliore; il futuro sarà migliore.
***
Del tempo che è stato trattengo solo i giorni chiari, il racconto che pacifica o esalta, azzerando tutti i travagli da cui ogni presente viene partorito; del tempo che sarà mi concedo il sogno – Leopardi lo chiamava illusione – di un nonluogo utopico in cui tutto sarà diverso, più felice, più bello.
Così, tra rimpianti nostalgici del tempo che fu e utopie idealizzate del tempo che verrà, quella presa realistica sul presente che si chiama «speranza» continuamente si sfilaccia, facendosi sempre più vacua e inconsistente.
Strana sorte, quella della parola «speranza». I suoi contorni, nell’uso comune, vanno spesso a confondersi con quelli di parole come «sogno, illusione, miraggio, chimera». «Speranza» si riduce allora ad essere una vacua immagine di superficie, completamente priva di profondità, un’immagine che smarrisce l’affondo della traiettoria che, liberando il desiderio dalle strettoie talvolta mortifere del presente, segna la direzione, cioè il senso, del nostro andare avanti, del nostro procedere verso, del nostro tendere a.
Il legame etimologico che salda fra loro spes e spatium indica il protendersi spazio-temporale verso una meta, cioè verso un orizzonte che è, prima di tutto, orizzonte di direzione e di senso. Il tendere verso della radice sp- è anche nel verbo greco speudo e nel sostantivo spoudé, vocaboli portatori dell’idea di un agire direzionato e perciò stesso spinto da sollecitudine e da premura. È il correre verso la meta di cui parla Paolo nel terzo capitolo della Lettera ai cristiani di Filippi: non si dà speranza se non nello slancio di passi in cammino, di passi affrettati verso, protesi a.
I passi di Maria che, alzatasi, va in fretta (metà spoudès) verso i monti della Giudea, dalla cugina Elisabetta, come lei gravida di un figlio, come lei gravida di futuro.
Le statistiche che descrivono la tristezza di questo nostro lungo inverno demografico occidentale descrivono anche lo spegnersi della speranza nell’anima dell’Occidente: cosa più dell’attesa di un figlio è in grado di dare spessore e plasticità all’immagine e al volto della speranza, che è apertura sul futuro generata dalla piena consapevolezza del presente?
***
Sì, consapevolezza del presente. Niente a che fare con l’idillio utopico; men che meno con la nostalgia. La speranza morde il pane del presente e tiene il conto dei giorni – perché solo così, ci insegna il salmista, si può giungere alla sapienza del cuore.
Il poeta Pindaro, che lungo tutta la vita aveva celebrato le vittorie dei più grandi atleti di Grecia, suggellò il suo ultimo componimento, la Pitica VIII, composta in onore di un famoso lottatore, con una pacata riflessione sulla fragilità umana e sulla durata effimera della gloria:
La gioia dei mortali in un attimo s’accresce
e altrettanto rapidamente cade a terra,
solo che venga scossa da un pensiero diverso.
Creature di un giorno: che cos’è “qualcuno”? Che cos’è “nessuno”?
Ombra di sogno, la vita umana.
Ma quando giunge un bagliore − dono divino,
uno splendore di luce è sugli uomini e dolcezza d’eternità.
Gli uomini sono brotòi, mortali, ed epàmeroi, effimeri, creature di un solo giorno. Consapevolezza del presente è, prima di tutto, consapevolezza della mortalità e del limite che, in quanto umani, ci segna e ci dà forma. Le gioie della vita, come la gloria e la fama, sono soggette a mutamenti che non è in nostro potere determinare e condizionare. Perciò, che senso ha sentirsi «qualcuno»? che senso ha sentirsi «nessuno»? La vita umana non è che un’ombra di sogno, una pallida ombra.
Quest’ombra, però, può essere toccata dalla luce. Una luce che i mortali non si danno da sé, ma che ricevono da Dio come dono. Ed è proprio lì, in quell’incontro tra ombra e bagliore di luce, che si gioca per i mortali la visione (l’anticipo?) dell’eternità, è lì lo squarcio temporale che incardina nel presente quello slancio proteso al futuro che chiamiamo speranza. È Pindaro, ma un po’ sembra Mosè.
Preghiera. Di Mosè, uomo di Dio
Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
ma quasi tutti sono fatica, dolore;
passano presto e noi ci dileguiamo.
Insegnaci a contare i nostri giorni
e giungeremo alla sapienza del cuore.
Salmo 90 (89)
"Scambiamoci l’anima. Facciamo un miracolo."
Alessandro D’Avenia
Magari qualcosa ti è sfuggito, magari l'amore per la vita e, per quanto di seconda mano, o meglio di seconda anima, un po' di attenzione e un po' di tenerezza potresti trovarla anche tra queste righe, per resistere a chi ti vuole impotente e ridere di chi ti vuole disperato.
Ma come si fa a resistere e a ridere se il lunedì è poi la somma asfissiante di abitudine e necessità? Il regno triste del niente di nuovo? Credi al miracolo, anche nel lunedì più usato, anzi fallo. Assomiglia a una moglie che di notte, mentre mi rigiro nel letto per un malessere, sussurra: «Se ti serve qualcosa io sono qui». Il miracolo della normalità: un bicchier d'acqua in cui non ti perdi, ma ti ritrovi. Il miracolo della luce nella notte, che rischiara il prossimo passo: è inutile provare a illuminare il buio di un'intera valle di lacrime. E a me piace pensare che quelle lacrime siano anche di gioia: lì è il miracolo. La lacrima di gioia cade perché temiamo che una cosa bella finisca e ci portiamo avanti con gli addii, mostrando il nostro bisogno di consolazione, la nostra nostalgia del presente. Quella lacrima salva l'istante perché non diventi distante, come la goccia d'acqua preserva la vita del reperto sul vetrino da microscopio. Vorrei che guardassi nell'oculare perché, anche se raccontato, un miracolo riaccade. Questo oggi ho da dirti...
Vado a ritroso analizzando al microscopio della memoria qualche vetrino di gioia della settimana trascorsa, per osservarne la composizione. Solo così il distante torna istante.
E nella prima lacrima che avvolge il reperto, vedo le betulle già spoglie del bosco autunnale. All'ombra il freddo penetra dalle fessure del cappotto nuovo cercando il mio torcicollo ma nelle oasi di sole sembra di guarire. Le betulle hanno tronchi bianchi e lisci e, sfogliate, sono donne nordiche dalla pelle nuda. In cielo prevale un azzurro affaticato mentre in terra foglie che mai diresti esser state verdi si adagiano nel sottobosco già addormentato, e quelle ancora aggrappate ai rami, al soffio di un vento tenue, diventano mani che dicono arrivederci. Vedo scendere mia moglie sul sentiero rossastro, l'unico movimento nel contrarsi autunnale delle linfe. Il sole le brilla addosso come sulle betulle bianche, e loro e lei cantano senza parole «non moriremo, perché ci ha fatte l'amore». C'è una ingiustificata bellezza nelle cose autunnali che non hanno ragione d'usare colori di festa, eppure li vestono. Intanto c'è chi uccide e distrugge, forse perché non ha mai visto le betulle in autunno e una donna amata andargli incontro tra tutti i tu possibili. Non disintegra chi non è disintegrato, non fa disgrazia chi non è disgraziato.
Prendo un altro cristallino, metto a fuoco la composizione di questa lacrima di gioia. C'è mio padre che, invecchiando, vuole essere rassicurato dall'amore di tutti, ed è indifeso di fronte a questa sete che non lo lascia tranquillo, come i giorni che volgono al tramonto, eppure è proprio il tramonto che andiamo a vedere tutte le volte che possiamo. Al mare, in montagna, e magari, se ci sorprende ancora vivi, anche in città, dove riesce ad ammorbidire persino il cemento, l'asfalto e la nostra frettolosa solitudine. E quell'amore che vuole mio padre dopo gli 80 anni è lo stesso che voglio anche io dopo i 40, e mia nipote prima dei 10, e forse anche tu, ovunque tu sia nel computo delle decine. E questa sete fa l'umano nell'uomo, anzi il divino nell'uomo. In un altro cristallino, dentro la lacrima, vedo delle lettere che, messe a fuoco, compongono una verità. L'ha appuntata un uomo nel suo diario il 12 febbraio 1922, una domenica, come quella in cui scrivo. Penso a quella domenica del 1922 come questa del 2024, preludio a un lunedì in cui è già tutto visto, eppure proprio in quella domenica, giorno in cui dovrebbe lavorare solo l'anima, un uomo di nome Franz Kafka affrontava la sua amarezza, aggrappandosi alla penna anziché alla disperazione: «È errato dire che ho fatto esperienza della frase "Ti Amo", ho sperimentato soltanto l'attesa silenziosa che avrebbe dovuto essere interrotta dal mio "Ti amo"». Anche io non riuscivo a dire quella frase, ma quando è accaduto è stato come iniziare a parlare. E benché adesso irrompa più spesso, mi sorprende comunque: l'amore non è sopravvivenza della specie camuffata da metafora, infatti, quando uso la metafora - «ti amo» - è proprio la morte che abbraccio, perché amare è dare la vita non certo tenersela. C'è un'altra lacrima su un altro vetrino, confezionato nel tardo pomeriggio della scorsa domenica, l'ora che tutti temiamo a meno che non ci distragga una partita, o qualche altro diversivo occidentale. Per me c'era una tarda messa domenicale in cui temevo di perdere l'anima anziché ritrovarla, ma una parola forte come una primavera («liberaci dal male») mi è arrivata dritta in faccia, mentre tenevo gli occhi chiusi su un mondo che potrebbe essere un paradiso ma è più spesso un inferno nel quale non resta che disperarsi o amare di più. Come scriveva a un amico Paul Celan, poeta suicida, sopravvissuto nel corpo ma non nell'anima ai campi nazisti: «A Parigi andavo in una chiesa. Quasi sempre Notre-Dame. E in chiesa non si viene sollevati dalla propria angoscia, no, al contrario, capita che si provi un’angoscia ancora più grande... E allora è come se dovessimo togliere a Lui un peso dalle spalle o dalle mani, o un po’ di tristezza dallo sguardo. E Lui siamo noi tutti. È quasi per testardaggine che lo aiutiamo». E allora il purgatorio non è una fiction medioevale, ma la vita che mi è dato vivere e in cui sono chiamato ad agire: un crepuscolo che diventa luce o tenebra a seconda di cosa scelgo di fare. E infatti dopo quel «liberaci dal male» dico «amen»: ci sto. È la parola ebraica che indica la roccia su cui costruire. Dico amen a questo gioco strano della vita in cui è sempre il turno di tutti e ciascuno e vince (la felicità) chi fa bellezza, gioia, luce. E così finisco le righe che forse stai ancora leggendo prima di annegare nell'ennesimo lunedì, che però è l'unico che avremo in tutta una vita, datato 25 novembre 2024. Un lunedì dedicato a combattere la violenza contro le donne. Penso allora a un'amica non pagata con regolarità da una grande azienda che si spaccia in prima linea per i diritti, un'altra che per paura di perdere il posto non trova il coraggio di reagire al capo che la usa, un'altra ancora che non ottiene il tempo indeterminato per aver respinto le attenzioni di un superiore, e un'altra ancora che durante il colloquio di lavoro si è sentita dire che, se voleva il posto, non doveva rimanere incinta... E in generale a tutte le colleghe di scuola, precarie e con stipendi inadeguati (che in Italia la classe docente sia soprattutto femminile rende questa ingiustizia sociale ancor più scandalosa). Ci sono così tanti miracoli da fare, oggi, che mi chiedo perché non cominciamo subito?
"Il mondo lo salverà la gentilezza"
Alessandro D'Avenia
Il mondo non è una biglia blu mare che danza secondo le leggi della fisica alla periferia di una delle infinite galassie dell'universo. Troppo poco.
Mondo è la relazione che ciascuno stringe: con sé, con le cose e le persone. Ogni persona è e fa un mondo mai visto, da cui dipende il corso della storia umana, determinata dalla libertà più che dalla fisica.
Perché mondo? Traduzione del greco kosmos (ordine/bellezza), armonia di elementi connessi tra loro; l'opposto è immondo (brutto/decomposto) come l'immondizia. E poiché salvo significava in origine unito, collegato, integro, allora il mondo è salvo quando i legami che lo costituiscono sono così forti che l'entropia (morte) non riesce a spezzarli.
Ma per essere così saldi di che cosa devono esser fatti questi legami con sé stessi, con le cose e con le persone? Se per esempio in una catastrofe mondiale sopravvivesse solo la classe in cui sto facendo lezione, quello sarebbe il mondo intero.
Che mondo sarebbe? Che cosa le permetterebbe di salvarsi e fare un mondo nuovo?
La gentilezza, che non è il morbido sentimental-moralismo di facciata a cui è spesso ridotta oggi. Ho partecipato al Festival della Gentilezza, organizzato dal Corriere la scorsa settimana, nel tentativo di rianimare questa parola. Che cosa ho scoperto?
La gentilezza nella cultura individualistica in cui siamo immersi è spesso una finzione, una forma seduttiva per avere più potere.
Siamo gentili fino a quando qualcuno non calpesta l'alluce al nostro ego, tolleranti fino a prova contraria. Quanti «gentili» in scena, dietro le quinte sono feroci, perché la loro gentilezza è manipolazione, seduzione, paternalismo, affettazione, posa, strategia... per far abbassare le difese altrui e ottenere più controllo. La gentilezza è l'opposto. Gentile viene infatti dall'antica radice del «dare vita» presente in: generoso, geniale, generare, genesi, ingegno... Anche gente viene dalla stessa radice, gens era infatti, a Roma, il clan allargato con il medesimo capostipite, e gentile era quindi chi apparteneva a quella stirpe (Cesare era della famiglia dei Cesari, della gens Iulia, e si chiamava Caio: Caio Giulio Cesare).
Nel Medioevo, grazie soprattutto ad alcuni poeti, si spezza l'identificazione gentilezza-sangue, cortesia-corte, e la gentilezza diventa qualità dello spirito, cioè del cuore. I poeti dello Stilnovo (tra cui il giovane Dante) dicono che la gentilezza è la potenza umana che si attiva quando si è «generati» dall'amore.
La donna gentile rende gentile l'innamorato, perché solo chi è già gentile rende tale chi lo è ancora solo in potenza.
Gentilezza è quindi l'effetto dell'amore che mi conferma, gratuitamente, che sono degno di esistere, sono voluto, così come sono, nella vita. È infatti il «saluto» (stessa radice di salute e salvezza) fisico e metafisico di Beatrice a Dante a farlo entrare in una Vita nuova (titolo della sua prima opera).
La gentilezza non è più nobiltà di sangue, ma di cuore. Esser nobile per questi poeti non è questione di «classe», ma di nascere a una vita che è il progressivo compimento della propria natura nel suo darsi unico e irripetibile.
Il gentile viene generato e può quindi generare. Facciamo un salto nella modernità, sempre dove la lingua è madre, cioè dà vita, come accade per lo più nella poesia. Leopardi definisce «gentile» un fiore, non per effetto di un'emozione effimera ma di una profonda verità: gentile è la ginestra che fiorisce nel deserto di lava del Vesuvio. Per il poeta la gentilezza del fiore è l'eroica fedeltà a se stesso in favore dell'altro, compimento della propria originalità (origine).
La ginestra infatti mostra all'uomo, illuso di esser padrone della vita con le sue «magnifiche sorti e progressive», dove alberga la sua reale grandezza: «tu siedi, o fior gentile, e quasi/ i danni altrui commiserando, al cielo/ di dolcissimo odor mandi un profumo,/ che il deserto consola».
La gentilezza-ginestra è fedele a sé e agli altri, e non nonostante il deserto, ma proprio nel e per il deserto, dove ha le sue radici e il suo compito: ama, dà se stessa, profuma e consola. Questa gentilezza crea la famiglia umana, che Leopardi chiama «social catena» e basa sulla lotta degli uomini contro il loro nemico comune, la natura con la sua indifferenza. Ma neanche ciò basta, perché non tutti sono capaci di questo generoso eroismo.
Dove attingere allora l'energia della gentilezza? L'unica cosa che tutti gli uomini hanno veramente in comune è essere figli, questo significa che l'esperienza della filiazione, quel radicale sentirsi e sapersi voluti nella vita, è l'unica condizione che consente di essere poi riconoscenti alla vita, cioè pronti a creare altra vita.
Chi appartiene diventa gentile, ed è poi quindi generoso, geniale, ingegnoso. È «da» e quindi «per». Oggi è eroso proprio il senso di filiazione, di appartenenza alla vita, di ri-generazione continua. Più che figli ci sentiamo orfani. Questo dipende dalla morte di Dio certificata da Nietzsche, Dio non fa più mondo, non è più la fonte dei legami.
E infatti il filosofo proponeva una via, eroica e solitaria, simile alla ginestra leopardiana. Ma chi ci riesce? Per esempio: come può essere gentile (generativa) una scuola basata sul precariato, che fa sentire orfani sia docenti che studenti. Serve uno stilnovo di gentilezza che rinnovi cuori e strutture sulla base del senso di filiazione, di appartenenza: essere generati per generare.
A dispetto di quanto si dica in giro, Dio ci manca, e per questo Chesterton a proposito di guerra diceva che sono solo due le vie per la pace: «Uno consiste nel rimedio buddista dell’eliminazione di tutti i desideri. L’altro nel rimedio cristiano di una comune religione». Non a caso è la rivelazione del Figlio, cioè la rivelazione di una relazione e non di una religione, proprio quello che ci apprestiamo a festeggiare con il Natale.
Quando Cartesio mise a fondamento della realtà il suo «Penso quindi sono», ci obbligò a «pensarci» soli e a «farci» da soli (self-made), conquistando, consumando, sottomettendo. In guerra. Invece, come dice il filosofo Emmanuel Lévinas, tornando inconsapevolmente al «saluto» di Beatrice a Dante: «Prima del cogito viene il buongiorno», prima dell'io viene il tu, prima dell'individuo la relazione, l'io è un figlio. Infatti a differenza della certezza cartesiana, la verità è di carne, ha un volto, e per questo comporta rischi e incertezze, come accade in ogni relazione.
Il gentile non teme di morire perché viene sempre ri-generato, non si esaurisce perché riceve sempre vita e nessuno gliela può togliere, anzi è lui che la dona. Per salvare il mondo il «Penso dunque sono» deve cedere il passo al ben più reale e appassionante «Mi pensi dunque sono» e «Ti penso dunque sono». Chi mi pensa? A chi penso? La somma delle risposte fanno quanto siamo «gentili».
Solo così quella classe, sopravvissuta alla catastrofe, potrà essere un mondo nuovo. Salvo. Gentile.
Il senso della vita
Alberto Caprotti
Non è quasi mai vero che si stava meglio quando si stava peggio. Non ho sufficiente età e memoria per dirlo con certezza, ma mi pare di ricordare che al massimo si stava diverso. E mi permetto di notare che il nuovo, ora, non è che sia tanto sensato. Ascoltiamo frammenti per cercare di capire tutto, scriviamo nei telefoni e non li usiamo per telefonare, guardiamo il cinema senza più entrare nei cinema; ascoltiamo i
libri invece che leggerli, paghiamo il parcheggio dell’aeroporto più di quanto spendiamo per un volo, facciamo lente code per mangiare al fast food, viaggiamo tanto per fermarci poco, scegliamo le partenze intelligenti per ritrovarci tutti in coda mentre quelli non intelligenti sono già arrivati. Ma tutto questo andare senza sosta e senza logica genera una realtà che ci sembra sensata se con tanta urgenza e passione ci preoccupiamo, come mai nessuno prima di noi nella storia, di salvare il pianeta, mangiare bio, parlare di pace facendo la guerra. E ricordare le password, conservare la memoria, allungare la vita, e tutelare i più deboli, anche se meno di quanto si pensi a difendere dall’estinzione l’agnello sambucano del Piemonte o la fragola di Tortona. La diversità ci unisce, il dissenso ci divide, ma capire le ragioni di quello che facciamo, ecco questa resta l’enorme irrisolta questione dei nostri giorni.
"La fatica di piangere"
Enzo Bianchi
Noi pensiamo abitualmente che gli occhi siano quelle feritoie del nostro corpo che permettono l’esercizio di uno dei cinque sensi, la vista. Osservazione vera ma insufficiente, perché gli occhi non sono solo destinati a vedere ma anche a comunicare: sono infatti eloquenti. E tra le possibilità di comunicazione c’è il pianto. È significativo che anche gli occhi dei non vedenti possono piangere.
Le lacrime compaiono inumidendo l’occhio, il quale gravido a un certo punto le lascia colare ed esse scendono sul viso e lo attraversano.
Le lacrime sono misteriose, la loro sorgente è nascosta, eppure quando spuntano hanno il potere di destare sentimenti, ispirare gesti in chi ne è testimone, dicono qualcosa che è più performativo di una parola. Piangere è il gesto universale che può esprimere tanti e diversi sentimenti: dalla disperazione alla gioia e all’esultanza. La saggezza popolare si esprimeva non a caso con brevi frasi: “Piangi che ti fa bene! ... Piangi che ti aiuta a resistere! ... Piangi che Dio conta le tue lacrime!”. Ma oggi si piange poco, facciamo fatica a permettere che gli altri ci vedano in pianto, anzi spesso anche nel dolore abbiamo gli “occhi secchi”.
Socrate, secondo Platone, era critico sulle lacrime dei suoi amici che assistevano al suo suicidio: solo Fedone piangeva! E nel mondo latino Marco Aurelio, il sapiente imperatore, propone l’apatia, l’atarassia come arte che vince il pianto. No, le lacrime sono la manifestazione dei sentimenti umani. In realtà la secchezza degli occhi, oggi attestata, fa parte di un’anestesia generale, l’indifferenza che nasce dall’abitudine a vedere lo spettacolo del male. Roland Barthes, nei suoi Frammenti di un discorso amoroso (1977), si chiedeva: “Chi scriverà la storia delle lacrime? ... Da quando gli uomini hanno smesso di piangere? Che ne è della sensibilità?”.
Eppure dovremmo saperlo: Sunt lacrimae rerum (Eneide I,462), cioè siamo immersi nelle lacrime di tutte le cose perché tutte le creature piangono... e molti, infiniti sono i motivi per piangere: dal dolore fisico a quello psichico, dal venirci incontro della morte alla caduta e al fallimento di una vita, oppure per la fine dell’amore che speravamo durasse per sempre.
Dovremmo ritrovare la certezza che nessuna lacrima andrà perduta, allora ritorneremo a piangere.
Nella grande tradizione cristiana esistono anche le lacrime del pentimento. Oggi di fronte al male commesso si rifugge dalla responsabilità, si ha paura di portare una colpa. L’ossessione della colpevolizzazione ha fatto sparire il senso della colpa. Eppure il riconoscimento fino al pianto, è un’esperienza decisiva per percorrere il cammino del cambiamento. Ma oggi solo se il male che facciamo è conosciuto proviamo vergogna, altrimenti non assumiamo nessuna responsabilità.
E non dimentichiamo: l’essere umano quando è orgoglioso non piange, quando è cattivo non piange, quando è indifferente non piange.
La filosofia di vita nascosta nel Piccolo Principe di Saint-Exupéry
Sergio Givone
Un saggio di Francesco Marino scandaglia il capolavoro: il misterioso fanciullo atterrato nel deserto del Sahara e proveniente da un minuscolo asteroide interroga l’uomo di ogni tempo.
Il problema che assilla la coscienza occidentale moderna e soprattutto post-moderna è quello del rapporto tra libertà e verità: com’è possibile tenerle insieme? Anzi: è possibile tenerle insieme? Dalla risposta a questa domanda dipendono le risposte a tante altre domande. Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944) ha, a suo modo, mostrato l’indissolubilità del nesso tra verità e libertà. È questa la tesi del saggio di Francesco Marino Eredità e ascesa. La filosofia di Antoine de Saint-Éxupery (Inschibboleth, pagine 400, euro 30,00), con la prefazione del filosofo Sergio Givone che qui anticipiamo.
Tutti conoscono il Piccolo Principe; tutti almeno una volta nella vita sono stati sfiorati dall’idea che il misterioso fanciullo atterrato nel deserto del Sahara provenendo da un minuscolo asteroide ai confini dell’universo avesse qualcosa di molto importante da dirci, anche se poi sarebbe difficile trovare qualcuno che gli abbia davvero dato retta.
Ma nessuno o quasi nessuno finora era andato a cercare negli scritti postumi dell’autore della favola più letta e più tradotta nel mondo la conferma del suo sospetto: cioè che a far da presupposto a quella favola fosse una riflessione filosofica di tutto rispetto in cui Saint-Exupéry fu impegnato lungo tutta la vita.
E dire che non sarebbero mancate le pezze d’appoggio, assai numerose. Vedi ad esempio la raccolta intitolata Citadelle e ordinata dallo stesso Saint-Exupéry per temi e problemi di ordine speculativo. Ma vedi anche, e soprattutto, i Carnets, che sono una miniera di spunti, sia occasionali sia organici, e la dicono lunga sulla temperie culturale fra le due guerre ma soprattutto testimoniano un pensiero in divenire non privo d’una sua originalità e d’una sua novità anticipatrice.
In questo libro Francesco Marino legge Le Petit Prince alla luce dei Carnets e della Citadelle, ma anche della Correspondance, e ne ricava una tesi non meno sorprendente che convincente. Sostiene Marino: la filosofia di Saint-Exupéry – perché di filosofia si tratta – è tutta incentrata su un concetto di verità che rompe con la tradizione metafisica e inaugura una prospettiva che l’ermeneutica farà sua. Verità come esercizio di libertà. Verità come atto e non come stato di cose. Verità come fare, come creare, anzi, come ridestare, e non come contemplare o corrispondere. Ridestare che cosa? Ridestare l’essenziale umano, dice Saint-Exupéry. L’essenziale umano non è qualcosa che è lì e lì sta, da sempre, per sempre, immutabilmente. Cosa dell’essere, l’essenziale umano non è a disposizione dell’uomo, come se l’uomo potesse farne ciò che vuole e magari dargli il nome che crede, secondo il suo capriccio.
Al contrario, in esso l’uomo incontra il suo sé più proprio, la sua vocazione, il suo destino. Grazie all’essere. È l’essere a provocare l’uomo a essere sé stesso. Come da una trascendenza, l’essere strappa l’uomo all’identità di sé con sé e lo chiama a rinascere altro da sé, infinitamente altro, e ad abitare l’infinito. Ma è l’uomo ad accendere nell’essere una luce che non è della natura perché è dello spirito. Venendo al mondo l’uomo attesta che lo spirito è irriducibile alla natura. Questa irriducibilità è la libertà. E la libertà è l’espressione di ciò che noi siamo veramente. La libertà è la verità dell’essere: e non solo dell’essere al mondo, ma dell’essere in quanto tale. Il mondo sarà pure la prigione dell’uomo. Ma se l’uomo è prigioniero del mondo – questo il suggerimento di Saint-Exupéry – suo primo dovere sarà fuggirsene via, tornare libero, riconquistare il cielo, sia il cielo dove ci si libra in volo sia il cielo figurato dell’anima.
E come potrebbe l’uomo rispondere a questo appello originario, se non in nome dell’essere? Originariamente l’essere è libertà. Dire, come fa una certa metafisica (per esempio la metafisica che Luigi Pareyson definiva “ontica”, ossia la metafisica che prende atto del dato oggettivo, dello stato di cose esistente, dell’essere come essere-stato, e lo identifica con la realtà contrapponendolo alla mera apparenza), che l’essere è e non può non essere, insomma, dire che l’essere è necessità significa tradire non solo il senso dell’essere ma addirittura la verità dell’essere. La verità dell’essere è la libertà. Tolta la libertà, niente di ciò che è ha più alcun senso. Tutto si fa opaco, si spegne, muore. Il mondo diventa il regno dell’assurdo. Con la libertà, invece, non c’è cosa che non appaia degna di essere accettata e addirittura amata. Al punto che anche la condizione più miserabile, se liberamente scelta, acquista valore inestimabile. È il paradosso della libertà. Ed è anzi, a voler andare perfino più in là, il paradosso dell’amore.
Perché l’amore non è oggetto di volontà. Tantomeno può essere imposto ad altri. Eppure, nel momento in cui ne facciamo esperienza (nel momento in cui ci capita di amare, nel momento in cui amiamo perché amiamo e non perché abbiamo deciso di amare) scopriamo che una luce si è accesa da qualche parte, più precisamente nel nostro cuore, e questa luce, per quanto ciò appaia inverosimile, e anche un po’ folle, è in grado di rischiarare il mondo intero, dissipare le ombre, raggiungere perfino le oscurità più tenebrose. Ogni cosa appare illuminata. E come potrebbe darsi un prodigio del genere se l’amore, che non si dà mai a comando, non coincidesse con il desiderio, e dunque con il contenuto più intimo e più profondo e più intensamente voluto del nostro essere?
A partire da considerazioni di questo tipo Marino svolge la filosofia di Saint-Exupéry nella direzione di un’ontologia che rimette al centro il problema del senso e della verità dell’essere (e che quindi è una metafisica, per restare al lessico pareysoniano, “ontologica”). Particolarmente felice appare qui un cenno di Marino: quello che invita a leggere filosoficamente Saint-Exupéry muovendo da Pascal.
Tre sono i motivi per farlo. Il primo riguarda il celebre pensiero intorno al cuore che ha ragioni sue proprie del tutto ignote alla ragione: ragioni, non sentimenti o intuizioni, ma forme del discorso in grado di argomentare intorno a una verità che evidentemente non è univoca e forse neppure unica, ma certo è irriducibile alla logica e alla scienza. Il secondo evoca l’altrettanto famoso tema della scommessa in forza della quale una speranza del tutto infondata o comunque non suffragata da prove potrebbe mostrarsi plausibile, credibile, degna di fede, in una parola più capace di avvicinarci al vero di quanto non possa fare la disperazione. Il terzo motivo fa riferimento alla posizione conquistata per via pratica e non teoretica, cioè attraverso una sfida che, per così dire, stana il vero dal suo nascondimento e ne fa il principio dell’agire umano, esposto sì al nulla, ma nondimeno proteso a uno scopo e già da sempre orientato.
Tutto ciò secondo Marino permette di ascrivere a pieno titolo la filosofia di Saint-Exupéry al campo dell’ermeneutica. Un’ermeneutica che ben poco ha a che fare con la decostruzione del mondo cui ci ha abituati il postmoderno, perché semmai si tratta di una sua ricostruzione, se non addirittura di una nuova creazione. A parlare espressamente di nuova creazione è proprio Saint-Exupéry. Il quale ne trova le tracce ovunque l’uomo si lasci interrogare, come il Piccolo Principe, dal mistero che avvolge l’universo.
Stupore, meraviglia, ma anche sgomento, lo accompagnano, anzi, affiorano in lui sempre di nuovo come dalla sorgente stessa della vita. E non è già questo un risveglio, non è già questa una rinascita? Sia come sia, le domande in questione sono le stesse di una ontologia che voglia essere al tempo stesso ontologia della verità e ontologia della libertà. Ma anche le stesse di un aviatore che si alza in volo sul suo traballante monoplano come se a chiamarlo fossero le stelle, ma che a un certo punto s’inabissa nella notte.
Fede è possedere
ragioni per vivere
Riccardo Tonelli
La stragrande maggioranza degli uomini vive di fede: affidano infatti a cose, persone, sogni e progetti un pezzo della loro esistenza. Chi crede in Gesù Cristo, condivide questo atteggiamento comune, lo orienta verso orizzonti nuovi, lo fonda su una radice che afferma insperabilmente sicura. Come fanno tutti, consegna la sua vita e la sua speranza a qualcosa che, in qualche modo, lo supera.
La diversità tra la fede cristiana e la fede con cui ci diamo ragioni per vivere, provocati dai problemi che la vita di tutti i giorni ci lancia, è tanto importante e qualificante che i cristiani pretendono, proprio sulla forza della loro fede, di essere gente che vive in questo mondo come se fosse di un altro mondo.
I punti di contatto sono però tanti che solo chi condivide il significato del sostantivo «fede», può dire in termini seri la novità che proviene dall'aggettivo «cristiana».
Per questa ragione propongo di incominciare la nostra ricerca sulla fede cristiana mettendoci sinceramente alla scuola degli uomini che sanno vivere di fede in modo maturo. La mia fede in Gesù Cristo, a cui non posso rinunciare per una falsa pretesa di neutralità, ispira la riflessione e la orienta verso direzioni che altrimenti potrebbero sfuggirmi.
1. IL SIGNIFICATO
L'espressione «vivere di fede» viene utilizzata in differenti contesti. Si parla di fede politica, di fede in una persona o in una istituzione; qualche tifoso scatenato dichiara persino la sua fede in una squadra di calcio.
In questi modelli esiste un denominatore comune: fede è un complesso di ideali, capaci di guidare gli orientamenti di una persona, fino a sollecitare un impegno coerente di vita.
Nella declinazione religiosa la fede riferisce a Dio il fondamento di questi ideali e l'orizzonte ultimo della vita.
La fede cristiana assume e condivide questo atteggiamento. Lo radica sulla rivelazione che Dio ha fatto di sé nella creazione e nella storia. E si esprime come risposta personale alla Parola ascoltata. Si differenzia dalle altre fedi religiose perché riconosce in Gesù di Nazaret il testimone definitivo del Padre.
1.1. Un complesso di ideali assunti per «identificazione»
Il complesso di ideali, in cui una persona si riconosce e a cui ispira la sua esistenza (da quelli politici a quelli sportivi, fino a quelli che investono le dimensioni più radicali della vita e chiamano direttamente in causa Gesù Cristo), sono assunti attraverso un processo di identificazione.
L'identificazione è un processo formativo molto originale, diverso da quello di cui abitualmente ci serviamo per apprendere nuove informazioni o per acquisire nuove competenze.
Nell'insegnamento, chi sa comunica la sua scienza agli altri. Essi ascoltano, valutano e assimilano le proposte. Per abilitarci a competenze che non avevamo (la guida di un automobile, l'uso del computer, una disciplina sportiva...), la via normale è quella della ripetizione dei gesti adeguati: provando e riprovando, diventiamo competenti.
In tutti i casi, al centro c'è uno specialista che fa la sua proposta e ne giustifica la correttezza sul filo della logica.
Nei processi di identificazione le cose procedono in modo assai diverso. Riconosciamo qualcuno significativo e importante per noi per quello che è. All'esperto viene sostituito il testimone; alla logica subentra l'esperienza. Decidiamo così di aprire a lui il santuario intimissimo della nostra vita, per affidargli la gestione delle ragioni decisive dell'esistenza.
Qualche volta si tratta di ragioni oggettivamente piccole e povere. La persona che le condivide le valuta però così importanti da fondare in esse un pezzo della sua passione e del suo entusiasmo.
Altre volte si tratta di ragioni grandi e impegnative, per cui vale davvero la spesa giocare tutta la vita.
L'identificazione scatta nei confronti di una persona, singola e concreta, nei confronti di un gruppo sociale di appartenenza, e, qualche volta, anche nei confronti di una istituzione.
L'operazione è delicata e un po' pericolosa, soprattutto quando non ci sono di mezzo solo aspetti parziali dell'esistenza, ma tutta la vita ne viene afferrata. Non esistono però alternative. Gli «ideali», quelli che danno ragioni per vivere, sporgono sempre verso l'ignoto e il non posseduto. Non diventano significativi perché sono pienamente verificati; lo diventano solo perché sono resi significativi dalla testimonianza di alcune persone. Siamo disposti ad accettare il rischio di giocare la nostra esistenza su un fondamento che non riusciamo a possedere in modo pieno e verificabile, perché stimiamo «degni di fiducia» questi nostri interlocutori.
1.2. Dare vita e dare ragioni per vivere
Questo fatto merita un'attenzione speciale: ci introduce nel mistero della generazione della vita.
Esiste una persona, una comunità, un gruppo di credenti, che è portatore di un insieme di ragioni per credere alla vita e sperare in essa dentro la morte. Questo soggetto consegna ad altri l'ideale in cui si riconosce.
Lo fa come gesto d'amore. Non ha nessun altro scopo recondito. Non vuole diffondere nuovi modelli culturali; non ha prodotti raffinati da immettere sul mercato. Non cerca proseliti per la sua causa. Non gli interessa produrre strumenti di pressione, magari a fin di bene.
Ha una sola intensa passione: la vita. E si lascia inquietare profondamente dalla diffusa domanda di vita. Ha vissuto un'esperienza che ha rassicurato la sua incertezza e ha confortato la sua paura. E vuole offrire ad altri il dono di cui è stato fatto ricco.
L'intenzione e i gesti che accompagnano e verificano la sua testimonianza sono le uniche prove che la rendono «credibile», in una compagnia che sostiene e rende forte la sua povera voce e i suoi gesti incerti.
Sulla provocazione della sua testimonianza, altri ritrovano ragioni per vivere e per sperare. Nasce la fede. Qualcuno può ora dire: «Adesso anch'io credo alla vita».
Dare la vita sul piano fisico, nella generazione della carne, è un avvenimento misteriosamente grande e impegnativo. Continua l'impresa divina della creazione. Non è però sufficiente: dà la vita veramente solo chi dà ragioni per vivere. Senza ragioni per vivere, la vita è una disperazione: molto meglio la morte.
Nella fede, che ci scambiamo da persona a persona, si realizza il livello più alto di generazione. Sostenendo la fede di una persona, noi le diamo la vita.
Vivere di fede è possedere ragioni per vivere; donare la fede, suscitando ideali per cui vivere, è dare pienamente la vita.
2. LA QUALITÀ DI UNA FEDE «ADULTA»
Ho già avanzato una punta di sospetto sull'identificazione, perché questo processo ha sempre il rischio di diventare manipolatorio. Ci sentiamo tanto in crisi, alla ricerca affannosa di ragioni per vivere, che diventiamo disposti a svendere la nostra libertà e ci fidiamo ciecamente di colui che ci fa proposte.
La zona di rischio è tanto più larga, quanto è intensa la ricerca di speranza o quanto le proposte sono offerte con toni solenni e seducenti.
L'ho già detto: non ci sono alternative. Gli ideali che danno fondamento alla nostra speranza si accettano per scommessa, rinunciando alle fredde procedure razionali.
Questa condizione fa problema a chi vuole giocare la sua umanità in piena responsabilità.
Di qui l'interrogativo: quando posso considerarmi adulto nel vortice del processo di identificazione?
Quali condizioni personali indicano che è diventata fede «adulta» l'atteggiamento vitale di chi affida a un fondamento le sue ragioni per vivere e per sperare?
Il bambino affida la sua speranza alla mano sicura della mamma. Lo fa senza chiedersi il perché di questo suo atteggiamento e senza pretendere motivi che lo giustifichino.
Non è certo questo lo stile di una fede «adulta». Possiamo però considerare «fede» adulta l'atteggiamento di chi vuole rendersi conto di tutto e non decide nulla della sua vita se non quando tutti i conti gli tornano con sicurezza? Certamente no. La fede ha sempre una dose alta di rischio personale. Non possiamo mai dire: «è così, e solo così», come quando ci mettiamo a dimostrare un teorema di matematica.
La fede adulta non assomiglia all'atteggiamento
critico dello scienziato, ma neppure a quello del bambino nelle braccia della madre. Quando, allora, divento adulto nella fede?
Lo stretto rapporto esistente tra fede e vita giustifica una risposta che può suonare un po' strana: la qualità della fede, come la qualità della vita, si misura dalla sfida della morte.
La fede è «adulta» quando sa possedere anche la morte. Lo esprimo mettendo in risalto due caratteristiche di questo difficile confronto.
2.1. Ricostruire l'identità dall'interiorità
Ci chiediamo spesso chi siamo, anche per riuscire a dire a noi stessi chi vogliamo essere. Ce lo chiediamo provocati nel confronto con gli altri e nel frastuono di mille seducenti proposte.
Di risposte ne abbiamo tantissime, tutte pronte all'uso. Dalla parte della morte, in quel silenzio impietoso che essa provoca, le scopriamo spesso troppo fragili per bastare a saziare un'inquietudine mai spenta.
Una cosa è certa: l'identità è l'esito di una lunga faticosa marcia di conquista. Solo a fine percorso sappiamo chi siamo veramente. Non possiamo pretendere di dircelo una volta per sempre, attingendo poi a questa definizione con la stessa presunzione con cui trattiamo il nostro conto in banca.
Il momento della morte è quello in cui in modo definitivo possiamo finalmente affermare la nostra identità. Ma, a quel punto, non ci serve più. Siamo come quegli studenti a cui balena la soluzione intelligente del problema qualche istante dopo aver concluso l'esame.
L'identità non è utile a fine percorso; serve il lento procedere della nostra giornata, tappa dopo tappa.
Possiamo sognare un tipo di identità conclusiva, nel momento solenne della morte, solo se l'abbiamo costruita così giorno dopo giorno.
Quale identità?
Non voglio dare una risposta sul piano dei contenuti. Questo è, in ultima analisi, un problema strettamente personale. Nelle pagine che seguono darò qualche suggerimento di merito. Non è la soluzione dei problemi; rappresenta solo un punto su cui confrontare la soluzione che personalmente ci diamo.
Chiedo invece di verificare subito il modo con cui decidiamo la nostra identità. Su questo modello procedurale la fede diventa «adulta».
Possiamo costruire la nostra identità solo dal silenzio della nostra interiorità. Ci diciamo «chi sia- mo» e «chi ci sogniamo» in quello spazio intimissimo e personale dove siamo sempre inesorabilmente soli e poveri. Lì ci ritroviamo senza le cose, i titoli, le sicurezze e gli idoli che ci danno conforto e sembrano tanto preziosi per dire a tutti chi siamo.
Anche se ci affannassimo ad accumulare tesori di questo tipo, la morte ce li strapperebbe tutti, inesorabile come un ladro.
La morte ci lascia senza le cose: dunque senza identità, se l'abbiamo costruita sulle cose. Un'identità dall'interiorità resiste invece al vento della morte. Nasce nel distacco quotidiano e progressivo, che anticipa quello della morte. Ci diciamo «chi siamo a», re fra- stando da soli, anche in mezzo a una compagnia fragorosa di amici e di testimoni.
Questa è la fede adulta: una fede che viene dal silenzio dell'interiorità, dove tutte le voci risuonano interessanti, ma dove nessuna può pretendere di darci quella ragione per vivere e per sperare di cui abbiamo ardente bisogno.
La fede ci costringe al coraggio solitario che assomiglia tantissimo a quello dei martiri d'un tempo passato e del nostro tempo: la fede trova forza e sostegno in se stessa e non cerca l'appoggio del consenso e dell'applauso.
Vivere di fede è quindi evento di libertà, un gestoche irrompe nel centro più intimo dell'esistenza. Spesso non siamo in grado di oggettivare in modo adeguato questa esperienza. Ma essa resta, come una decisione ultima di coscienza non più applaudita da alcuno, in una speranza illimitata che supera le delusioni della vita e l'impotenza di fronte alla morte.
2.2. Fiducia nella vita
La morte produce un distacco obbligato e irrevocabile dalle cose e dalle persone. Recide, in ultima analisi, la trama quotidiana della vita.
Ci sono ragioni da vendere per disperarsi. Che senso ha un'esistenza che si conclude in una costrizione senza appelli ad abbandonare tutto quello che è stato amato, costruito, realizzato?
Possiamo amare una vita protesa verso un esito tanto triste e ingiusto?
Gesù, a parole e a fatti, ha insegnato che possiede la vita solo chi la sa offrire totalmente, la possiamo amare solo se impariamo a consegnarla (Mt 16, 21; Lc 17, 33; Gv 12, 25). Molti uomini hanno preso sul serio queste idee, persino senza riconoscerlo in modo diretto.
La fede genera vita e ragioni per vivere perché sollecita continuamente a possedere «consegnando» tutto. Così ha fatto Gesù, secondo il racconto di Luca: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo, spirò» (Lc 23,46).
La fede è matura quando la fiducia piena nella vita diventa amore appassionato che sa condividere.
2.2.1. Distacco dalle cose
Il distacco dalle cose è irrimediabile. Non c'è scampo e non ci sono alternative: o impariamo a vivere imparando a morire, oppure viviamo «contro» la logica della morte, arraffando e accumulando in attesa di perdere tutto.
Il distacco non è l'atteggiamento manicheo di chi disprezza tutto per un principio superiore. Distacco vuol dire invece consapevolezza crescente di una solidarietà che diventa responsabilità. Le cose sono per la vita di tutti.
E tutti hanno il diritto di goderne, soprattutto hanno questo diritto coloro a cui sono sottratte più violentemente e ingiustamente.
Il povero, l'essere-di-bisogno, è la ragione del mio distacco. Mi privo delle cose, giorno dopo giorno, proprio mentre le possiedo gioiosamente, per permettere ad altri di goderne un po' .
L'esito è strano e assurdo nella logica in cui siamo abituati a lavorare: condividendo, tutti abbiamo tutto a sazietà.
La parabola della moltiplicazione dei pani lo insegna senza mezzi termini: solo condividendo i pochi pani che qualcuno previdente aveva portato con sé, tutti si sono tolti la fame e ne sono rimaste sette sporte traboccanti (Lc 9, 12-16).
Qui passa la linea di demarcazione tra due modi di vivere la vita: fidarsi tanto della vita da saper «partire in solitudine», distaccandosi dalle cose perché possano servire ad altri; oppure imprecare contro l'esistenza che ci strappa da quello che abbiamo cercato di afferrare a tutti i costi.
2.2.2. Distacco dalle persone
La morte ci strappa violentemente anche dalle persone con cui abbiamo condiviso un piccolo frammento di tempo, tanta passione ed esperienze originalissime di amore. Non le possiamo portare con noi, nonostante l'affetto intenso che ci lega. Le dobbiamo abbandonare alla loro solitudine e al loro dolore.
L'abbiamo già sperimentato personalmente. Papà o mamma ci hanno lasciato, e sono scomparsi molti di coloro che ci hanno generato alla vita, dandoci ragioni per vivere. E se per fortuna sono ancora con noi, sentiamo incombente la minaccia della loro scomparsa.
Lo sappiamo e ne soffriamo. Basta davvero poco per toccare dal vivo lo strappo violento e insanabile della morte. Parliamo tanto di amore, di solidarietà, dell'ebbrezza dello stare in compagnia. E poi... all'improvviso la luce si spegne: per noi e per gli altri. Di fronte a questa minaccia rispunta, più inquietante che mai, l'interrogativo: possiamo fidarci di questa vita che ci costringe a restare da soli e ci chiede di partire in solitudine?
Fiducia nella vita significa, anche in questo caso, anticipare nel ritmo dell'esistenza quotidiana il distacco prodotto dalla morte, per non essere colti di sorpresa, quando verrà improvvisa e inesorabile.
Verso le persone siamo chiamati a vivere un distacco simile e molto diverso da quello che realizziamo nei confronti delle cose.
Non voglio giocare sulle parole. Non è certo questo il contesto per farlo.
Per dire in modo concreto la qualità del distacco a cui dobbiamo allenarci, penso ai doni preziosi che ci hanno fatto amici che non sono più fisicamente in nostra compagnia.
I cristiani proclamano, con forza e con fierezza, che Gesù di Nazaret è il Vivente. È vissuto duemila anni fa, in una regione lontana dalla nostra. Trascinato sulla croce dalla malvagità dei suoi nemici, ha vinto la morte e ha superato i confini del tempo. Vive oggi con noi.
Lo stesso si dice di Maria, dei grandi credenti che hanno segnato la storia della loro presenza operosa.
Io chiamo don Bosco «padre» perché mi ha dato, in modo specialissimo, ragioni per vivere e per sperare. Con tanti amici e con tanti giovani, diciamo che è ancora vivo in mezzo a noi, anche se la passione per i giovani l'ha consumato come una lampada che brucia l'ultima goccia di olio e poi si spegne.
Certo, non è esattamente la stessa cosa riconoscere che Gesù è il Vivente e dire che Maria, don Bosco, i santi sono ancora vivi. È diversa la persistenza nella vita ed è differente il dono che la loro esistenza ci ha offerto.
Gesù di Nazaret è veramente vivo in mezzo a noi, fondamento della nostra vita e della nostra speranza. Lo testimonia Pietro davanti al tribunale del sommo sacerdote e dei maestri della legge, irritati per la guarigione dello zoppo alla porta del Tempio: «Capi del popolo e anziani di questo tribunale, ascoltatemi. Voi oggi ci domandate conto del bene che abbiamo fatto ad un povero malato e per di più volete sapere come mai quest'uomo ha potuto essere guarito. Ebbene, una cosa dovete sapere voi e tutto il popolo d'Israele: quest'uomo sta davanti a voi, guarito, perché abbiamo invocato Gesù Cristo, il Nazareno, quel Gesù che voi avete messo in croce e che Dio ha fatto risorgere dai morti. [...] Gesù Cristo, e nessun altro, può darci la salvezza: infatti non esiste altro uomo al mondo al quale Dio abbia dato il potere di salvarci» (At 4,8-13).
I santi e i nostri amici sono vivi in mezzo a noi perché ci siamo amati intensamente e perché la loro esistenza ha costruito la nostra. Quando la morte ce li strappa dal contatto fisico, resta il ricordo intenso della loro presenza. Li pensiamo con nostalgia, li avvertiamo ancora vicini perché la loro esistenza è stata un dono impagabile per la nostra vita.
Ci hanno amato e hanno servito la nostra crescita nella libertà e nella responsabilità. Hanno generato in noi una qualità nuova di esistenza.
Tutto ciò che ci parla di loro è per noi gradito e prezioso. Ci sentiamo soli e, nonostante tutto, non ne soffriamo, perché grazie a loro siamo diventati «adulti», capaci di vivere in solitudine.
Molto diverso è il rapporto con persone di cui abbiamo un ricordo triste. Si arriva persino a dire: per fortuna, non ci sono più; ci hanno succhiato il sangue e ci hanno amareggiato l'esistenza... ma anche per loro la festa è finita. La loro partenza è salutata come una grande liberazione.
Ho suggerito due situazioni opposte.
A confronto con quello che altri sono stati per noi, è più facile dirci cosa significa imparare a vivere nel distacco verso le persone.
Il distacco non spegne il ricordo e non brucia la capacità di generare ancora ragioni per vivere solo se, nell'avventura con gli altri, ho saputo costruire amore e libertà, servendo spassionatamente la loro gioia di vivere, la loro capacità di sperare, la responsabilità di crescere come protagonisti della storia personale e collettiva.
Quando la mia presenza si fa ossessiva, quando cerco a tutti i costi di dominare la mano che mi chiede un aiuto, quando faccio prevalere il mio interesse su quello degli amici... non vivo nel distacco. Cerco di afferrare qualcosa che poi la morte mi strapperà violentemente. Resterò così senza quello che ho cercato di possedere e la mia partenza sarà accolta come una liberazione.
Quando invece mi perdo nell'amore che si fa servizio, fino alla disponibilità a «dare la vita perché tutti ne abbiano in abbondanza», anticipo nel quotidiano quel distacco a cui la morte mi costringerà, presto o tardi. Il mio ricordo «resta», forte come l' amore .
La nostra fede è diventata adulta perché abbiamo vinto anche la morte, anticipando, attraverso gesti pieni di vita, le sue richieste dolorose.
3. IL PROCESSO VERSO LA FEDE «ADULTA»
Non diventiamo adulti tutto d'un colpo. La nostra fede non diventa adulta con un tocco improvviso di bacchetta magica.
Il cammino è lungo e impegnativo. La méta è luminosa e, da lontano, giudica il processo.
La fede che fa credere alla vita resta un atto strettamente personale, giocato nella solitudine della propria interiorità. Lì, nel silenzio e nella sofferenza della solitudine, le ragioni di vita che altri hanno offerto diventano le «mie» ragioni di vita. Diventa quindi fede adulta solo quando ciò che è stato ricevuto, nello scambio di una testimonianza di vita, viene riconquistato personalmente.
Questa è la condizione irrinunciabile. Solo quando la fede raggiunge questo indice di autenticità essa è capace di generare, nella libertà, vita d'attorno, dando ad altri quelle ragioni per vivere e sperare che sono state offerte a noi.
Se questa condizione viene disattesa, siamo costretti a seminare di idoli i sentieri della nostra vita. Ci inquieta tanto la ricerca di ragioni per vivere che corriamo a spegnere la nostra sete alle cisterne piene di fango, e diventiamo tanto affamati di speranza da affidarla ciecamente al primo venuto.
Esprimere l'annuncio fino in fondo alla vita
Enzo Bianchi
Nella nostra esistenza la morte resta l’evento ineluttabile per eccellenza, anche se oggi si vive come se si fosse immortali. La morte viene rubata all’uomo, come se fosse qualcosa di osceno, e la nostra vita rischia di non avere più un confronto con il momento della propria finitudine. Il libro è una forte – e insieme consolante – reazione alle ideologie dell’edonismo che confina l’esperienza della morte nello spazio degli emarginati o della incoscienza.
“Sono passati quarant’anni e ancora una volta questo libro viene ristampato: certo porta i segni della fede ardente nella pienezza della mia vita. Fede che è mutata, non è più la stessa, forse è anche più abitata da domande e dubbi rispetto al passato, ma è ancora fede, adesione a Gesù Cristo. E se la fede fosse diventata più debole è rimasto l’amore per il Signore, e questo basta perché lo possa incontrare come la realtà più preziosa e amata, come l’unica speranza mai venuta meno. Da parte mia il desiderio è poter esclamare all’annuncio, se ci sarà, del compimento della mia vita: – mi rallegro perchè mi dicono: andiamo alla dimora del Signore! – e subito dopo dire il mio ringraziamento al Signore, a chi ho amato e mi ha amato, alla terra, alle creature tutte che mi hanno accompagnato, mi hanno dato lezione, consolazione e gioia durante tutta la mia vita.”
Vito Mancuso “Per salvarci dobbiamo creare una barriera tra noi e la cattiveria mondo”
Ascoltiamo una notizia alla radio, leggiamo un giornale e poi usciamo, di corsa nel traffico. Un clacson suona, l’autobus è affollato, c’è uno che impreca.
Corriamo in giro, leggiamo dell’ennesimo omicidio, malediciamo qualcuno perché sui social abbiamo letto che… E poi torniamo a casa, la stanchezza, lo stress, un magone nel petto. Quante volte accade? Quanto della negatività del mondo ci avvelena quotidianamente? Alla fine, quel che resta è una sensazione di smarrimento e di paura, come se il mondo dovesse finire da un momento all’altro, tra guerre, crisi climatiche e migrazioni. Eppure, non è così. L’unica cosa da fare, quindi, è tirare un respiro per poi focalizzarsi su sé stessi. Non è difficile e ce lo spiega il filosofo Vito Mancuso.
In questi tempi difficili che stiamo vivendo come ci può aiutare l’etica?
L'unica possibilità che abbiamo per non diventare difficili anche noi, come lo sono questi tempi, è di porre una barriera tra noi e la difficoltà di questi giorni. Difficoltà che si chiama cattiveria, tensione, aggressività. E la barriera che noi poniamo tra la cattiveria di questi tempi e noi stessi si chiama etica. Etica significa giustizia interiore, ricerca di armonia, ricerca del bene e non dell'interesse immediato. L’etica trasforma una persona negativa non dico in un amico, ma perlomeno in una persona non ostile. Questo vuol dire etica. Considerato i tempi che viviamo, chi non fa così soccombe. L’unica soluzione, come dicevo prima, è creare una specie di fossato, come nei castelli medievali, tra sé stessi e la cattiveria. Per isolarsi da questa specie di onda nera che arriva e che può sommergere tutti. Ci si aiuta così. Chi non lo fa, viene travolto dalla marea nera, è in balia di questo spirito. E molti lo sono già, purtroppo. Lo si capisce parlando con le persone, andando in giro, guidando nel traffico. Siamo diventati tutti tendenzialmente più aggressivi e rissosi, senza empatia.
Tra guerre, discorsi d’odio e altre cose, come possiamo difenderci? La filosofia può aiutarci?
La società sta andando verso un declino, per non dire dirupo, ed è chiaro che la filosofia ci aiuta interiormente. Certo, in questo momento storico non è che con la filosofia, l'etica, la spiritualità insomma, si riesca a cambiare il mondo esterno. È evidente che questo processo nel quale siamo inseriti non è facilmente trasformabile. E, tra l’altro, chissà per quanto tempo dovremmo ancora sopportare questa situazione sempre più problematica. Però, la filosofia, l’etica, la spiritualità e la coltivazione della propria interiorità ci possono aiutare a non diventare noi stessi vittime di questa situazione.
E se non riuscissimo a trovare forza nella filosofia?
Le soluzioni sono due: o diventiamo anche noi a nostra volta delle persone negative, assorbendo quello che c’è intorno, oppure resistiamo, perché sentiamo che diventare cattivi significherebbe la peggiore sconfitta per la nostra vita. Bisogna riuscire a rimanere persone giuste. Tutti insieme, con l’aiuto della filosofia, dobbiamo resistere, trovando una fonte di energie positive. Questa fonte si chiama preghiera, per chi è religioso. Per chi non lo è si chiama filosofia, meditazione. Ma anche una persona religiosa può benissimo sia pregare sia avvalersi della filosofia. E poi è anche importante creare dei legami positivi, sani. Ma, ripeto, la cosa imprescindibile è la cura della propria interiorità: a cosa serve lottare per la pace se dentro di noi c'è la guerra? Dobbiamo aspirare prima di tutto a una pacificazione interiore. Il grande errore del socialismo, del comunismo e delle ideologie del ‘900 era di pensare che i problemi umani si risolvessero solo a livello sociale. Non che la società non sia importante, ha un ruolo rilevante. Ma i problemi umani si risolvono a livello umano, a livello interiore, perché la società non è nient'altro che l'espressione di quello che siamo noi. E quindi il vero campo di battaglia è interiore.
Il titolo del suo ultimo libro è “Destinazione speranza”. Cosa intende?
La parola speranza, come diceva il grande studioso della lingua latina VII secolo, Isidoro di Siviglia, viene dal termine “pes”, piede, un elemento del corpo ci tiene in posizione eretta. Ecco, la speranza è una forza interiore che non ti fa abbattere sulla realtà, quando la realtà è quella di cui abbiamo parlato finora. Se una persona non ha questa ulteriore forza interiore è chiaro che viene catturato dall’onda nera e diventa aggressivo e depresso. E anche deprimente, nel senso che deprime gli altri e si deprime sé stesso. Se, invece, si ha un'interiorità viva, vivace, allora le cose cambiano e si può affrontare la realtà senza scoraggiarsi, senza cadere nello scetticismo. E questo distributore di energia positiva la possiamo chiamare, appunto, speranza.
Abbiamo bisogno di poesia, custodiamola
Daniele Mencarelli
Abbiamo sempre più bisogno di parola e scrittura, ma abbiamo fatto fuori quella che per rango e valore ne era la somma. La sua morte non è stata accidentale, ma volontaria, studiata a tavolino
Poemi anglosassoni
Lo stranissimo tempo che ci è toccato in sorte, fatto di più e più cose, come ogni altro tempo, ha nella rivoluzione digitale il suo marchio più esibito e dibattuto. L’innovazione è continua, nella nostra attività quotidiana è sempre più frequente la relazione e l’intervento di invisibili aiutanti, pronti ad accenderci la luce o consigliarci il percorso più veloce. L’intelligenza artificiale sarà regista delle nostre vite, con la sua voce suadente ci sarà fondamentale in tutte le nostre attività. Sin qui nulla di nuovo.
Infatti, il nostro è il tempo delle innovazioni, altri sono stati quelli delle rivoluzioni vere e proprie. Basti pensare al mondo prima dei voli aerei e dopo, giusto per fare il primo esempio che passa per la mente. Il nostro tempo, fatto di piccole grandi migliorie rispetto all’esistente, è legato a tutti quelli passati, e forse futuri, da un dato che continua a rimanere centrale nella stessa misura in cui è centrale l’uomo rispetto alla civiltà umana. Il dato è il ricorso alla parola, e alla sua forma più durevole: la scrittura.
Tutto continua a girare attorno a questa stella. Anche quando viene occultata, anche quando pare non esserci, alla base di tutto c’è sempre lei, la regina di noi mortali.
Dalle nuove frontiere dell’intrattenimento passando per i social, anche laddove l’immagine sembra centrale, sino al profluvio infinito di news in diretta h24 in giro per il pianeta, ci sarà sempre un’anima nascosta, un’anima di parole e scrittura. Alla fine il nostro dialogo con il mondo non può non avvalersi di questa mediazione antica quanto l’uomo, o quasi. La parola come telaio irrinunciabile dello stesso pensiero umano e di tutto ciò che è in grado di partorire e realizzare. Magari si è portati a pensare il contrario, ma l’innovazione continua produrrà una sempre maggiore richiesta di materia prima, ovvero di parole e di scritture, con cui costruire sempre nuove e più seducenti, e commerciali, narrazioni da mettere sui vari mercati.
Narrazioni. A pensarci bene, lo stranissimo tempo che ci è toccato in sorte ha nella centralità del racconto uno stigma ben più profondo rispetto alla digitalizzazione imperante. L’uomo contemporaneo delega ad altri il suo rapporto con la realtà, in maniera sempre più cieca e inconsapevole. Pensiamo di sapere e conoscere tutto solo perché abbiamo a disposizione un’offerta di narrazioni come in nessun altro tempo. E questa non è un’innovazione rispetto all’esistente: è un dato nuovo, un codice assolutamente originale rispetto al passato. Viviamo sprofondati nella narrazione di tutto, ce ne nutriamo costantemente, la realtà in questa relazione ossessiva è diventata un dettaglio sacrificabile, obsoleto. Il nostro tempo ipernarrativo, perennemente in prosa, a pensarci una trasformazione epocale l’ha prodotta. Questa sì assume tutti i crismi del dato rivoluzionario. Abbiamo sempre più bisogno di parola e scrittura, ma abbiamo fatto fuori quella che per rango e valore ne era la somma, per dirla con le parole di Leopardi.
La poesia sta al nostro tempo come una testimone scomoda, all’uomo che si accontenta del racconto della realtà fatto da altri, sempre su commissione, sempre interessato, comanda di uscire e di vedere con i propri occhi. La poesia è figlia della realtà, realtà che è arcinemica di tutte le narrazioni che ci esplodono sul viso ogni secondo. Per far fuori la realtà, occorreva togliere di mezzo la disciplina che ne esaltava il valore primo più di ogni altra. E il delitto è servito.
Non è uno scenario distopico, è la nostra epoca. La poesia ha assunto un valore eversivo rispetto al tempo e agli interessi imperanti, è scomoda, chiede all’uomo di essere libero, di essere esperimento di se stesso, cerca di ricollegarlo costantemente al dato della realtà, l’unico veramente in grado di rivelargli qualcosa che sino a quel momento non sapeva.
Nessuno lo dice, ma l’uomo senza poesia si sta lentamente ammalando, anche se lui non ne è cosciente. La prova più drammatica è il progressivo imbarbarimento rispetto ai temi fondamentali della vita. Temi che la poesia, da sempre, affronta faccia a faccia, facendone canto e insieme esperienza. Perché la poesia è l’unica parola che risiede naturalmente nella realtà, l’unica di cui la realtà si fidi veramente. Custodiamola.
Lasciare il segno
Alberto Caprotti
Flaiano diceva che “i giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono cinque o sei, gli altri fanno volume”. Ma quei giorni, se proprio non capitano, occorre andarseli a cercare. Inseguirli o, meglio, fabbricarli. Invece ci sono persone che non hanno mai voglia di niente, e purtroppo non sono poche. Non sanno da che parte girarsi, non sanno che farsene neppure del tempo. Non sono mai contente di nulla, che poi è una delle più grandi povertà del mondo. Galleggiano nel limbo, vivono in grigio, ormai non sanno più se ridere o piangere, e nel dubbio non fanno né l’uno né l’altro. Non rischiano, vegetano. Confondono la felicità con quello che desiderano senza apprezzare il bello e il buono che hanno a portata di mano ogni giorno. Invece è sempre valida e forte la convinzione che sia meglio la delusione rispetto al rimpianto, se non altro perché regala la consolazione di averci provato. E la consapevolezza di sapere che chi si accontenta forse gode, ma solo un po’.
Quando chiedevano a Madre Teresa perché fosse rimasta a Calcutta, lei rispondeva: c’è sempre un posto dove puoi essere straordinario. Ecco, se ognuno pensasse di poter davvero lasciare un segno del proprio passaggio, anche piccolo se non straordinario, forse nel mondo ci sarebbero più bellezza e meno squallore.
La bellezza di una vita buona e bella
Lisa Cremaschi
Una vita bella è una vita eucaristica, cioè che riconosce che tutto è dono e sa ringraziare per ogni cosa. Che senso ha partecipare a tante eucarestie e non diventare uomini e donne eucaristici, cioè uomini e donne che non vivono nel regime della pretesa e della prepotenza ma in quello del dono (cf. Col 3,15: “Vivete nell’azione di grazie”)? E allora può essere una vita gioiosa. Scriveva Friedrich Nietzsche nel 1882: “Il furibondo lavoro senza respiro [degli americani] – il vizio peculiare del nuovo mondo – comincia già per contagio a inselvatichire la vecchia Europa e a estendere su di essa una prodigiosa assenza di spiritualità. Ci si vergogna già oggi del riposo, il lungo meditare crea quasi rimorsi di coscienza … L’inclinazione alla gioia si chiama già ‘bisogno di ricreazione’ e comincia a vergognarsi di se stessa. ‘È un dovere verso la nostra salute’ si dice quando si è sorpresi durante una gita in campagna”.[15] Si può essere nella gioia? Sì, perché non siamo noi a salvare il mondo! Siamo collaboratori di Dio e collaboratori della gioia dei fratelli e delle sorelle (cf. 2Cor 1,24). Gioia di condividere un buon pasto, gioia nel fare festa, gioia nel coltivare relazioni di amicizia… Le nostre comunità cristiane sono luoghi di bellezza? In senso materiale – quanto squallore a volte nei luoghi religiosi! – ma soprattutto nei rapporti reciproci. Rapporti belli, sinceri, d’amore vicendevole ( e non solo luoghi in cui si organizza la carità per i poveri, ecc.). Le nostre liturgie sono belle, curate? O sono la ripetizione di formule più o meno biascicate da un funzionario del “religioso”? La chiesa, diceva papa Giovanni, non è un museo, non è una cittadella fortificata, è un giardino e in un giardino ci sono piante vive e tanto più sono diverse tanto più il giardino è bello...
E siamo chiamati a essere sacerdoti, tutti, in forza del battesimo ricevuto, sacerdoti, cioè mediatori tra Dio e gli uomini, incaricati di annunciare le opere meravigliose di Dio, la sua misericordia per tutti. Tutti dobbiamo far conoscere il Signore mostrando il suo volto, donando il perdono, proclamando con la nostra intera vita che nessuno è escluso dalla misericordia. Nel cuore di Dio c’è posto per tutti. Ma a volte, invece, non diventiamo un ostacolo a questo annuncio? “Vi esorto come stranieri e pellegrini” (1Pt 2,11). I cristiani sono nel mondo, ma non appartengono al mondo. Il cristiano non ha patria su questa terra. In una stagione in cui si rinfocolano i nazionalismi, la chiesa dovrebbe ricordare che il cristiano non ha altra patria se non il regno dei cieli. Dobbiamo vivere in una grande fedeltà alla terra, alla storia, agli uomini, al mondo in cui viviamo, il mondo di oggi, senza inutili rimpianti del passato. Chi ha mai detto che il passato sia stato migliore, più santo, più conforme al vangelo del presente, dei tempi di oggi in cui siamo chiamati a vivere? Oggi siamo chiamati alla santità, nel mondo di oggi siamo chiamati a vivere il vangelo; la nostalgia dei tempi che furono, la pretesa di conservare forme di vivere la fede proprie del passato è un atto di disobbedienza allo Spirito che oggi ci chiama alla santità. E tuttavia anche oggi siamo posti dinanzi a eventi, problemi, situazioni che esigono discernimento. È difficile questo continuo discernimento che ci è chiesto tra un modo di pensare a cui dobbiamo opporre un netto rifiuto, e il rendere il vangelo parlante, profetico per i nostri contemporanei. Quante volte ci adeguiamo al mondo, forse illudendoci in questo modo di conquistare la gente! E quanto poco ci preoccupiamo di non fare da schermo al vangelo, di annunciarlo nella sua semplicità e purezza! Al termine delle Beatitudini nel vangelo di Matteo Gesù dichiara: “Voi siete il sale della terra … voi siete la luce del mondo” (Mt 5,13.16). Non ci viene detto che dobbiamo fare di tutto per essere sale e luce per gli altri, sforzarci per essere di esempio agli altri, magari proclamandolo a gran voce. Il discepolo è sale e luce, se lascia plasmare la sua vita dalla logica delle beatitudini.
“Voi siete sale e luce” è detto a quelli che si lasciano coinvolgere dalla vita di Gesù, luce del mondo. E allora la luce risplende da sé e risplende con i tempi di Dio che non sono i nostri. Se viviamo davvero nell’amore per il Signore, la nostra vita sarà bella, trasfigurata; dietro al Signore ci sono dei no da dire, la rinuncia all’io egoistico, ma il risultato non è un immiserimento della vita, come spesso è accaduto nella tradizione cristiana. Se uno, come dice Agostino, è innamorato della bellezza spirituale, questa bellezza traspare nel suo modo di essere, nelle sue relazioni, nei luoghi in cui vive, nel suo amore per il creato, per le creature, nella gioia e nella gratitudine per i doni che Dio ha dato all’uomo quando sono impiegati per amare gli altri.
Ha scritto Carlo Maria Martini nella Lettera pastorale già ricordata: “Non basta deplorare e denunciare le brutture del nostro mondo. Non basta neppure, per la nostra epoca disincantata, parlare di giustizia, di doveri, di bene comune, di programmi pastorali, di esigenze evangeliche.
Bisogna parlarne con un cuore carico di amore compassionevole, facendo esperienza di quella carità che dona con gioia e suscita entusiasmo; bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio”.
La forza della gratitudine
di Massimo Recalcati
Si può accogliere ciò che è stato come una possibilità nuova e non come una maledizione. Occorre essere grati nei confronti delle generazioni precedenti e di ciò che abbiamo vissuto.
Il passato è una catena che impedisce la nostra libertà? E una maledizione che impone la ripetizione inesorabile dello stesso trauma? Non a caso Nietzsche lo definiva come «il peso più grande».
Quello che abbiamo vissuto si deposita alle nostre spalle accorciando e condizionando impietosamente il tempo della nostra vita. Siamo tutti figli del «potere di ieri», come direbbe Jung.
Nessuno può più agire su ciò che è già stato ma solo subirlo.
Ma le cose stanno davvero così? Sappiamo bene che esiste un passato che non possiamo dimenticare. È un insegnamento della clinica psicoanalitica: la nostra memoria – come la nostra stessa vita – resta appesa ai traumi che l’hanno marchiata in modo indelebile. Si tratta di un passato che non può essere ordinato in un archivio, catalogato in un album o in un cimitero dei ricordi, ma che ritorna in modo spettrale imponendo alla nostra vita la sua ripetizione. In questo senso non siamo noi che decidiamo di ricordare il passato ma è il passato che si impone sulla nostra decisione di ricordare. È un fatto di esperienza: non riusciamo mai a ricordare come vorremmo quello che è stato e non riusciamo a non ricordare quello che dal passato vorremmo dimenticare. Questo significa che c’è qualcosa di sempre vivo nel nostro passato. La memoria non può essere né l’archivio, né l’album, né il cimitero dei ricordi. Piuttosto, come Freud ha mostrato bene, siamo inseguiti, tormentati, placcati dal nostro passato più traumatico: quello che è già stato insiste nel ripetersi, non cessa di rincorrerci e di condizionare la nostra vita.
Accade in modo eclatante nel film Il cacciatore di Cimino, dove uno dei protagonisti non può non continuare a ripetere nel corso della sua vita il trauma della roulette russa alla quale era stato sottoposto durante la guerra del Viet Nam, quando era caduto prigioniero dei Viet Cong. In questo caso, come nei disturbi che il DSM classifica come post-traumatici, il passato ritorna spettralmente imprigionando la vita in un “eterno ritorno dell’eguale”. Anche la depressione scaturisce da un legame tossico con il passato. Per il depresso tutto è già avvenuto, tutto si è già consumato, tutto è già stato e l’avvenire non può che essere solo cenere. Per questa ragione la sua inclinazione è sempre quella di rimpiangere ciò che è stato e non è più: la vigoria del proprio corpo, gli entusiasmi dei primi amori, una carriera professionale luminosa, un’infanzia felice… Il rimpianto è, infatti, un modo per entrare in rapporto col passato che mentre lo idealizza, lo rende per questa ragione insuperabile. Se tutto ciò che brilla è perduto, se è sprofondato nel buio di un passato irrecuperabile, se la mia vita si perde insieme a ciò che ha perduto, allora non abbiamo più futuro perché anche il futuro viene risucchiato all’indietro, trascinato verso il passato.
Ma il rimpianto non è la sola possibilità che noi abbiamo di entrare in rapporto col passato. Il grande insegnamento della psicoanalisi, che su questo punto eredita la riflessione di Nietzsche sul tempo storico, consiste nel mostrare che è solo la nostra lettura attuale del passato a definirne il senso. In questo modo noi abbiamo sempre la possibilità di dare una significazione inedita a ciò che è già avvenuto. La concezione lineare e causale del tempo si modifica profondamente: non è più il “prima” che determina inesorabilmente il “dopo”, ma esattamente il contrario. È il “dopo”, quello che deve ancora venire, che determinata quello che è già stato.
Sembra un pensiero contro intuitivo ma è, in realtà, un pensiero che anche gli storici conoscono bene. È solo lo sviluppo successivo dei fatti che ha potuto, per esempio, tradurre la presa della Bastiglia in un evento che noi possiamo riconoscere come epocale e non in una sommossa qualunque. Lo stesso si deve dire anche per il trauma incalcolabile della Shoah. Siamo noi a custodire oggi la realtà di quell’evento.
E questo si realizza solo se nel tempo presente quel trauma continua a esistere e ad insegnare. Non si tratta, dunque, di ricordarsi di ciò che è avvenuto ma di riscrivere la storia facendo esistere oggi il senso di ciò che è stato.
È lo stesso che accade in una esperienza analitica: il paziente non si limita a ricordare il proprio passato, ma ne ricostruisce il senso in modo assolutamente inedito. È quello che intendeva Nietzsche quando affermava che è necessario «darsi a posteriori il proprio passato». La rimemorazione non consiste nella semplice riproduzione di quello che è già avvenuto, ma nella ricostruzione inedita della propria storia. Il rimpianto non è dunque il solo modo di entrare in relazione con il nostro passato. Ad esso dovremmo contrapporre la gratitudine.
Diversamente dal rimpianto, essa accoglie ciò che è stato come una possibilità nuova e non come una maledizione. In questo senso, nella gratitudine il passato non è mai del tutto morto. Non appare come un peso al collo che trascina la vita verso il basso, ma come una nuova linfa: luogo di un insegnamento, di una verità, di un evento ancora vivo. Essere grati nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduti e nei confronti di tutto quello che abbiamo vissuto (il bene e il male, il buono e il cattivo incontro, la gioia e il dolore), significa non lasciarsi inghiottire dal passato, non cedere alla tentazione della nostalgia come rimpianto, ma riscattarlo, redimerlo proprio in quanto esso continua a riscriversi attraverso la nostra vita attuale e futura. È solo nella gratitudine che la memoria resta davvero viva.
In montagna e nella vita
Erri De Luca
1)In montagna camminare lo sguardo fisso a terra, a dove poggiare il passo. Se si vuole guardare intorno il panorama, fermarsi. Non si sta nella zona pedonale di una città d’arte. Si sta da passanti su sentieri che rasentano precipizi. 2) In discesa fare passi corti: permettono di recuperare l’equilibrio in caso di scivolata. Il passo lungo comporta la caduta. Poggiare tutta la pianta del piede anticipando l’appoggio di tallone. La tenuta del passo sfrutta l’intera suola e aumenta l’aderenza. Un adagio ingannevole dice che in discesa vanno pure i sassi. Certo, ma bisogna evitare di andare come loro, i sassi. 3) Fa bene imparare i nomi degli alberi del bosco che si sta attraversando. Distinguerli fa percepire il luogo con maggiore definizione. Lo stesso vale per i fiori, gli animali e i nomi delle montagne intorno. La geografia è parola greca che significa scrittura della terra. È bene percorrerla da lettori. 4) Non guardare quanto manca alla cima, al rifugio o al termine della tappa. Conta il passo seguente non il traguardo. 5) Ridurre al minimo il carico infilato nello zaino. Protezione dalla pioggia, dal freddo, il resto è zavorra. Una gita non è un trasloco. Informarsi sulle previsioni meteo, sapendo che si tratta di probabilità e non di oracoli. Alcuni di questi accorgimenti si possono estendere al di là dell’escursione in montagna.
Abitare la vita
Emanuele Borsotti
Abitare è una parola che deriva dal verbo habére che in latino vuol dire: trattenere, occuparsi, possedere e, come forma intensiva frequentativa, continuare ad avere e quindi anche abitare in un luogo, cioè avere una abitudine con quello spazio, farsene quasi un abito, qualcosa che indossiamo e che aderisce radicalmente alla nostra persona. L’uomo è un abitatore di luoghi, di tempi, di storie, di memorie e fa di tutto questo universo il suo habitat, il suo abitare.
Il modo con cui noi uomini stiamo sulla terra è l’abitare (Heidegger).
Bisogna però chiarire come abitiamo o come dovremmo abitare. C’è un abitare improprio che è uno sfiorare il paesaggio, leggere i luoghi come un fondale della nostra vita, come un ambiente palcoscenico che ci resta estraneo, al quale noi non aderiamo intimamente. Ѐ come se il paesaggio fosse un oggetto e noi un soggetto ma senza una profonda relazione fra questi due elementi. L’unico legame fra i due sarebbe una visione superficiale, un aspetto puramente visivo. Pensiamo alla nostra società del selfie: oggi molte volte l’uomo contemporaneo non vede neanche più ciò che sta attraversando, ma frappone fra il luogo e se stesso uno smarphone, un apparecchio fotografico e se va bene rivedrà poi quel luogo nello scatto fatto. Quando però noi scegliamo di fare un passo più in profondità e non ci limitiamo allo sfiorare turistico ecco che viviamo un’esperienza di ancoraggio, cioè abbandoniamo l’esteriorità dello spettatore per entrare in un dialogo. Non si tratta, come diceva Barthes, di limitarci a fotografare il mondo, ma si tratta di rimanere, di percorrere tutta la marezzatura dei luoghi, delle luci, dei momenti.
Questo ancorarsi al luogo è l’esperienza che Cristo fa tante volte. In Marco 10,23 viene usata l’espressione: circumspicere per indicare che Gesù guarda intorno, che ha uno sguardo a 360 gradi ed è questo sguardo che permette a Gesù di amare. Guardarsi intorno è guardare anche dentro l’altro e fare il passo di uno sguardo che ama. Ecco allora l’invito a non fermarsi a posare uno sguardo superficiale sui luoghi, ma ad entrare in una relazione, ad essere implicato dentro l’esperienza di quel luogo.
Ѐ l’esperienza pasquale di Cristo là dove, in Giovanni, si dice che entra nel cenacolo, e “stette in mezzo”, in mezzo non solo dell’ambiente, ma anche del ‘con’ e del ‘fra’ le persone. Ecco allora che nel lasciarsi assorbire da un ambiente e assorbire l’ambiente che ci ospita sta la differenza tra la provvisorietà del turista in transito e l’abitatore del luogo.
Se dunque non sfioriamo i luoghi, ma li abitiamo veramente, dobbiamo confrontarci con l’esperienza di essere costruttori e ricostruttori. L’uomo abita costruendo, costruisce per abitare, ma è proprio perché l’uomo è un abitatore che è in grado di costruire. Vivere è dunque anche questo: costruire e ricostruire luoghi e, attraverso la metafora del luogo, costruire e ricostruire l’esistenza di noi che lo abitiamo. Partiamo da una suggestione che ci viene dalla vecchia sapienza dell’imperatore Adriano - come immaginato dalla Yourcenar, nelle memorie di un grande condottiero - che alla fine della vita fa un bilancio e conclude dicendo: “Io ho costruito e ricostruito”. Costruire come sinonimo di collaborare con la terra, di “lavorare con” e “faticare con” perché labor in latino vuol dire innanzitutto fatica, quindi lavoro. Collaborare con la terra è imprimere il segno dell’uomo in un paesaggio che quindi ne resterà modificato per sempre. E in questo modo contribuiamo a una lenta trasformazione che è la vita delle città, degli edifici, dei nostri spazi vitali. E poi costruire è anche opera di ricostruzione perché bisogna fare i conti con la labilità delle cose e con il tempo, grande scultore, ma anche grande distruttore. Quindi ricostruire è collaborare con il tempo, con il passato, se ne coglie lo spirito, lo si modifica, lo si conserva e gli si imprime un movimento propulsivo cercando di farlo arrivare verso l’avvenire. Ricostruire significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti, l’esperienza sorgiva della vita. Quindi costruire è principalmente un atto di speranza: è dare forma al presente, plasmare la materia, dare una direzione alla vita e sporgerla verso l’avvenire, verso il durevole, verso quello che è il lascito ereditario. Sempre dalla Yourcenar, Adriano dice: “Ogni edificio sorgeva sulla pianta di un sogno”. Le cose sono sempre costruende, sempre da costruire, sempre da riedificare. Allo stesso modo la nostra umanità, la nostra vita interiore, le nostre profondità spirituali come i nostri legami affettivi sono sempre incompiuti e quindi in costruzione continua. Costruire come speranza e ricostruire come forma architettonica della consolazione è questa l’idea che ci viene dalla Scrittura, dall’AT e dagli scritti profetici.
Sono testi nei quali il verbo ricostruire e il verbo consolare vengono coniugati in parallelo e i paralleli sinonimici dell’ebraico ci dicono appunto che c’è una profonda osmosi fra le due cose.
Ricostruire un edificio, ricostruirsi una vita dopo una frattura significa fare un’opera di architettura della consolazione. Ѐ l’esperienza di Israele dopo l’esilio, dopo la distruzione di Gerusalemme quando il Signore consola ricostruendola dalle sue rovine, riaprendo un giardino là dove c’era solo un deserto. Questo induce in un canto di gioia. E ancora possiamo dire che la costruzione è un’opera di incontro. Costruire significa incontrare. Quando l’uomo costruisce lo fa a partire da un numero di elementi architettonici basilari limitati.
La novità sta nel numero infinito di combinazioni di questi elementi di base e questo crea l’unicità. Unicità dell’incontro tra l’uomo e un luogo e unicità dell’incontro fra gli uomini all’interno di questo luogo.
E anche nell’incontro tra la mia vita e gli incidenti dell’esistenza perché la vita è anche costruire nonostante gli incidenti, accettando anche un cambio di angolatura che ci porta ad aprire vie nuove.
Le mie città nascono da incontri, dagli incontri dell’uomo con un angolo della terra - imperatore Adriano.
Quando io mi rapporto con uno spazio mi sto sostanzialmente rapportando con del non-umano e paradossalmente il non umano del luogo (vegetale, minerale) riesce a far vibrare le corde dell’umano e tocca il mio intimo. Ѐ il paradosso di un uomo che si umanizza anche in virtù di quel non umano. Sempre che si accetti di compiere l’esercizio dell’attenzione. “L’attenzione è l’apertura dell’essere umano a ciò che lo circonda, un’attenzione non solo ad extra, ma anche ad intra rivolta verso ciò che è in noi” (Zambrano). Attenzione deriva dal verbo tendere quindi significa slanciarsi verso, avere una direzione, voler procedere verso. Ma questa esperienza dell’abitare luoghi concreti, fisici, palpabili diventa sempre porta verso qualcosa che supera la fisicità del luogo. Quando Giovanni dice: “Il vento soffia dove vuole, ne senti la voce, ma non sai né da dove viene né dove va” ci fa anche capire che, per esempio attraverso lo stormire delle fronde, quel luogo vegetale diventa il luogo di un’esperienza fisica dell’impalpabile. L’esperienza dell’intangibile del vento mi si dà grazie al luogo vegetale che si muove in virtù di quel passaggio. L’impalpabile diventa presenza. (lo stesso si potrebbe dire di un altro impalpabile: la luce). L’esperienza della vita spirituale, ma anche gli affetti, gli amori, i dolori…funzionano come il vento, come la luce. L’uomo fa l’esperienza che qualcosa dell’ordine dello spirituale si sprigiona a partire da ciò che è fisico. Allora la frattura fra il fisico e lo spirituale in certi momenti viene meno e i luoghi diventano dei legami.
In Giovanni 1,14 si legge: “Il mistero di Dio in Cristo è mistero di un Dio, di una Parola che viene ad abitare in mezzo a noi”. “Maestro dove abiti”? e Gesù: “Venite e vedete” e i discepoli fanno un’esperienza. Questa esperienza principale che l’uomo fa dell’abitare si radica in una prima abitazione, che è l’abitazione nel corpo. Il corpo nostra prima abitazione. L’uomo è un corpo abitante e abitato. Il nostro corpo abita innanzitutto nel corpo di una donna, noi veniamo al mondo come abitanti e usciti da quella prima casa incominciamo ad abitare nel mondo esterno, a coabitare con gli altri. E poi l’uomo abita il corpo dell’altro; l’esperienza dell’amore fisico della coppia è l’esperienza dell’abitare realmente le profondità del corpo dell’altro. Questo avviene anche nell’esperienza della fede quando nella comunione il mio corpo diventa l’abitazione del corpo di Dio, e il corpo di Dio che abita nel corpo dell’uomo crea il corpo della chiesa. Noi mangiamo ciò che siamo, noi mangiamo quel corpo che stiamo diventando. Se questo è vero allora l’uomo è il primo luogo per l’altro uomo. Prima di trovare luoghi fisici che lo ospitano, il cucciolo dell’uomo che viene al mondo trova il suo primo luogo in un altro. Per il bambino la figura genitoriale rappresenta il luogo primario, il suo primo orizzonte è lo sguardo della madre che si china sulla culla. Quando poi diventa grande, si stacca dal luogo- corpo- materno e incomincia ad abitare i luoghi fisici dello spazio. E allora ci affidiamo alla sintesi fulminea di S. Agostino: “Amando, noi abitiamo con il cuore” cioè noi abitiamo con il cuore là dove si trovano i nostri affetti e tradotto in un altro modo: dove è il nostro amore, il nostro cuore, là noi abitiamo. Abitare un luogo implica sempre delle scelte e chiede anche di lasciarsi istruire dall’alterità del luogo, lasciarsi educare dagli spazi in cui si abita.
L’uomo come può abitare i luoghi? L’uomo abita la terra con merito perché fa tante cose, ma bisogna aggiungere al merito delle cose che si fanno quella postura poetica dell’abitare che Holderlin e altre personalità del mondo della cultura hanno così sintetizzato: “abitare poeticamente”.
Poeticamente ci rimanda al verbo poiein che significa fare, abitare facendo e facendoci. Poetare significa aiutare noi stessi e gli altri ad abitare la vita. Questa azione dell’abitare poeticamente è per Holderlin l’azione del misurare la distanza tra cielo e terra. Noi abitiamo quando siamo capaci di custodire questa nostra duplice appartenenza alla terra sulla quale appoggiamo i piedi e al cielo verso il quale protendiamo il capo. La grande sfida è vivere in una duplice dimensione: chi impara ad avere una consuetudine buona, armonica con i luoghi fisici può ritrovarsi alla scuola preziosa dove imparare ad abitare amorevolmente, poeticamente se stesso; chi sa abitare se stesso, i suoi spazi interiori è capace di abitare amorevolmente, poeticamente i luoghi esterni. Ma questa è un’arte che si apprende nel tempo, con fatica e con pazienza. Con il coraggio di osare l’originalità di ciascuno.
Trafitto da un raggio di sole
Erri De Luca
Il concorso.. reparto oncologico, tra i malati terminali si sente gridare una giovane donna. Attraverso la cannula dell’intubazione orale, in maniera indistinta la donna continua a ripetere: «Ho vinto il concorso! Ho vinto il concorso!». Non è il tripudio per un prossimo incarico, impossibile da ricoprire. È l’ultima vittoria della sua vita sconfitta. Il concorso: chissà quale, chissà quanto desiderato e meritato. Il concorso, traguardo che inaugura una nuova condizione per chi lo consegue. Per lei no. È la formula del suo addio, l’ottenuto riconoscimento del suo valore. È medaglia appuntata sul petto appena in tempo. In tempo, sì, proprio quando non ce n’è più, quando è scaduto e sgocciola dalle flebo. Ce l’ha fatta, ha vinto il suo concorso. Lo grida da intubata, accorre il personale medico e nel reparto piovono le impensabili congratulazioni. Conosco poesie e preghiere sulla travolgente forza della vita. Una brevissima dice: «Trafitto da un raggio di sole». Il suo concorso vinto, esclamato a gola strozzata, scrive la variante di quel raggio, un verso che non posso dimenticare. Non è stata sconfitta, morendo con un grido di vittoria.
Graziato
di Alessandro D’Avenia
La misura della felicità è la gratitudine. Alla fine di ogni giorno, anche il più difficile, cerco di scegliere qualcosa per cui ringraziare e alla fine di ogni settimana scrivo su un foglio quale è stato il dono più bello, così da avere alla fine dell’anno un «salvadonaio» di una cinquantina di «presenti» che hanno reso unico l’anno «passato». Volevo partire da qui per «riprendere» la rubrica dopo la pausa estiva. La «ripresa» è ben diversa dalla «ripetizione»: riprendere è continuare a compiere e non reiterare. Il ripetere fa scivolare nelle sabbie mobili dell’inerzia, quando si va avanti con la sola energia che resta quando la creatività si esaurisce: il dovere, una prigione da cui si cerca poi di evadere in modi più o meno estrosi e disastrosi. Un lavoro, un matrimonio, uno sport... vissuti solo per dovere soffocano. E dove non c’è più creazione di novità ma solo ripetizione, non c’è gioia. Diverso è «riprendere»: si riprende un film che amiamo anche se lo abbiamo già visto, si riprende un tramonto anche se avevamo ammirato quello del giorno prima, si riprende un’amicizia quando si continua il discorso da dove lo si era lasciato settimane prima... Ciò che si riprende non si ripete, è vivo, ciò che si ripete non si riprende, è morto. E infatti «ripetente» è sinonimo di bocciato e «mi sono ripreso» di salute: facciamo una «ripresa» quando vogliamo immortalare qualcosa da non perdere. Ma che cosa ci fa essere grati per ciò che ritorna senza che sia «ripetuto» ma «ripreso»?
Gratitudine, grazioso, grazia, gratis vengono tutti da un’antica radice che indicava ciò che dà gioia, qualcosa che riceviamo senza essercelo aspettato, e per questo interpretato come dono divino. Atena interviene sovente per versare su Ulisse la charis, grazia, che lo rende bello e luminoso come un dio (ne rimane traccia nel nostro «carisma»). La grazia è questo: un dono elargito senza averlo chiesto o meritato, ma che inaugura in noi un modo di essere più vero, compiuto, luminoso. Una luce che non proviene solo da situazioni positive. Ricordo le parole di una cugina pochi mesi prima di morire, non la vedevo da tempo e, dopo averle raccontato del periodo difficile che attraversavo, lei, con gli occhi di chi vede oltre le apparenze, mi ha detto: «Sei ammaccato, è vero, ma sei molto più bello». Avevo grazia. La grazia quindi non riguarda solo ciò che è piacevole, il dono a volte può costar caro, eppure ci rende più autentici, compiuti, belli. Per me è stata una grazia scoprire la mia chiamata a insegnare da giovanissimo ma lo è stata anche grazie all’insufficienza nella mia prima interrogazione in greco, che è così diventato la mia passione. La grazia non è un cosmetico che nasconde le rughe, ma le fa vedere piene di luce. Nel racconto evangelico, quando Maria riceve l’annuncio, il messaggero divino la chiama «piena di grazia», ma trattandosi di un verbo si potrebbe tradurlo anche «fatta di grazia, riempita di dono». La radice è sempre quella dell’omerico charis. Ne rimane traccia nel nostro «graziato» per chi scampa la morte o in «grazioso», versione per lo più meridionale forse più sopportabile di «carino». In italiano restano poche tracce della potenza salvifica e quotidiana di questo termine, e i «colpi di grazia» non danno la vita ma la morte. La grazia è invece la chiamata a una bellezza compiuta, che riscatta anche le ferite. A Maria veniva annunciata la possibilità di rimanere incinta in modo misterioso e quindi di essere considerata da tutti un’adultera. Sembra paradossale ma quella grazia, essere la madre di Dio, avrebbe comportato un’onta allora meritevole di lapidazione. Per questo non dobbiamo confondere la grazia, il dono inatteso, con qualcosa di banalmente piacevole: è grazia ciò che ci fa avanzare, in modo inaspettato, nel cammino irripetibile che solo noi possiamo fare, anche se si tratta di soffrire. Nel recente film Barbie, la donna di plastica, perfetta e senza difetti, è terrorizzata dal cambiamento: non conosce la grazia dell’essere umani, del crescere, del compiersi. In sostanza teme di soffrire, e invece c’è grazia anche nel dolore, non per il dolore in sé, ma perché, a usarlo bene, contiene il passaggio (inteso sia come apertura, sia come aiuto per far strada più rapidamente) a una forma di vita più piena e bella. L’aragosta quando deve crescere si nasconde, si spoglia della scorza rigida, rimane in carne viva fino a che non si forma una nuova corazza. È un momento di paura, nudità, dolore, ma necessario alla sua vitalità. Il giorno del mio matrimonio un’amica mi ha chiesto di riassumere in una sola parola il mio stato: «Graziato». Stavo ricevendo un dono inatteso, il dono dell’amore che mi ha raggiunto proprio quando mi sentivo a pezzi. Vorrei allora che questo primo ultimo banco dell’anno, sia una vera ripresa e vi invogliasse a fermare, magari su carta, la grazia che riceverete oggi, domani, dopodomani... fosse anche ruvida o piccolissima, perché in ogni grazia si nasconde una via di salvezza, di compimento, di gioia. Per riconoscere una grazia bisogna chiedersi se ci porta a diventare più veri, belli e compiuti. E magari queste righe, per chi è arrivato fin qui, saranno per due o tre la piccola grazia odierna. Io vorrei imparare a tenere gli occhi sempre ben aperti per saper ricevere le mie grazie quotidiane, come afferma senza mezzi termini Cormac McCarthy nel suo ultimo romanzo, Il passeggero: «Nasciamo tutti dotati della facoltà di vedere il miracoloso. Non vederlo è una scelta».
Franco Arminio e Guidalberto Bormolini "Accorgersi di essere vivi"
Dall'incontro tra il poeta e paesologo Franco Arminio e Guidalberto Bormolini, che si è consacrato alla vita religiosa e alla meditazione dopo aver fatto in gioventù il falegname e il liutaio, è sbocciata l'idea di scrivere insieme un libro, Accorgersi di essere vivi, uscito il 27 agosto per Ponte alle Grazie. È un breviario per chi ha perso la via, in cui con uno stile lirico e coinvolgente i due autori ci guidano in un viaggio alla scoperta non tanto del mondo, ma di noi stessi nel mondo. Il ragionare poetico di Arminio si interseca con le riflessioni in prosa di Bormolini, dando vita a un testo denso di spiritualità e poesia, che aiuta a ritrovare il senso perduto della vita. In un mondo frenetico e competitivo ci dimentichiamo di essere vivi.
Non sono un letterato, non sono un accademico. Sono un artigiano. Anche spiritualmente mi sento un artigiano. Mi piace costruire e ricostruire sia materialmente che spiritualmente, ed è il cuore della mia missione. Lavorare a questo “breviario per chi ha perso la via” rientra appieno nella mia missione di cura, cioè di “prendersi a cuore”. Mi piace tantissimo incontrare persone e far incrociare percorsi di persone diverse, scrivere per me è un modo speciale di stare con le persone: tutti voi lettori di cui cerco di immaginare i volti e i desideri profondi sin da quando scrivo, chi lavora nelle redazioni, gli amici che mi ispirano e correggono. Rifuggo ed evito il più possibile la televisione e i social (e me ne fanno di proposte!), perché lì non mi sembra di “incontrare”.
In un’interessante raccolta di colloqui mistici di due donne, rimaste anonime, che mi donò il mio padre e amico spirituale, trovai questa frase: «Accogli tutti coloro che vengono, come inviati da Me, e dona loro un benvenuto regale. […] Accogli benevolmente con amore tutti coloro che giungono. Tu non devi vederlo come un lavoro. Oggi essi possono non aver bisogno di te. Domani forse sì. Io posso inviarti strani visitatori. Fa’ in modo che ognuno desideri tornare. Nessuno deve venire e sentirsi indesiderato. Condividi il tuo Amore, la tua Gioia, la tua felicità, il tuo tempo, il tuo cibo, lietamente con tutti. Tali meraviglie vanno rivelate». Ormai da lunghissimo tempo nell’incontrare persone non guardo più idee e ideologie, dogmi o credenze, censo e cultura. Guardo le persone e questo mi basta. Certe volte mi sono sorpreso – ma ormai dovreste sapere quanto mi affascina esserlo – ad ammirare persone che avevano idee o storie lontanissime dalla mia. Mi sono perfino domandato se, inconsciamente, andassi a cercare di proposito personaggi che mai avrei pensato avrebbero potuto attraversare la mia strada tanta era la distanza dal mio pensiero. Ma in fin dei conti il mio amore per l’Infinito, per il Tutto dovrà pure lentamente giungere ai tutti che “abitano” il Tutto. E non vorrei essere equivocato: li cerco per arricchire me, non perché penso di aver da insegnare loro qualcosa. Senza questa pluralità la mia vita sarebbe tanto impoverita. Se fossi davvero innamorato del Tutto, dovrei anche innamorarmi di tutti, e poi andare ancora oltre!
Un giorno fu chiesto a Isacco il Siro, straordinario autore monastico: «Cos’è un cuore compassionevole?» Lui rispose: «È un cuore che brucia per tutta la creazione: per gli uomini, per gli animali, per i demoni, per ogni creatura. Quando pensa a essi e quando li vede, i suoi occhi versano lacrime. La sua compassione è talmente forte e violenta e la sua costanza tanto grande, che il suo cuore si stringe e non sopporta di udire o di vedere il minimo male o la minima tristezza in seno alla creazione. Per questo egli prega in lacrime, a ogni istante, per gli animali senza ragione, per i nemici della verità e per tutti coloro che gli fanno del male, affinché essi siano conservati e perdonati. Nell’immensa compassione che si leva nel suo cuore, che è senza misura a immagine di Dio, egli prega anche per i serpenti». Non sono così, purtroppo. Ma vorrei esserlo. Un piccolo passo è questo “breviario” col quale prendendomi cura di chi ha perso la via ricordo di continuo anche a me stesso quale è la Via che ho scelto e che amo. Il mio cuore ha un fuoco acceso, uno zelo che letteralmente è “ardore”, per andare incontro agli “erranti”, avendo io stesso molto errato.
Guidalberto Bormolini
Poesia e spiritualità strumenti di un nuovo umanesimo
Spiritualità e poesia: due parole vaghe, un connubio altrettanto vago. Se ne può parlare in tanti modi, se ne può parlare solo in modo confuso, con passi che somigliano a quelli di un cielo in un bosco fitto. Io posso dire di aver sempre tenuto con me la parola poesia. Mi sono interrogato su cosa fosse. L’ho letta, ho provato a farla.
La poesia mi ha salvato la vita o forse me l’ha rovinata, in ogni caso è una presenza indiscutibile nella mia mente e nella mia carne: la poesia che non ha a che fare col corpo è un’ingegneria letteraria che non ho mai amato. Io posso dire di avere avuto poche confidenze con la parola spirito, con la spiritualità. Mi sembrava di viaggiare in altre zone. Poi a un certo punto, un punto che ho intravisto pochi anni fa, questa parola ha cominciato a zampillarmi intorno. Mi è sembrato di capire che la questione del mondo più che economica era teologica. Mi è parso di sentire che l’eclissi del Sacro aveva creato nell’umanità una pericolosa condizione di miseria spirituale. E qui, forse, si è prodotto il tentativo di innestare il Sacro nella mia poesia. Il primo tentativo è stato un libro che si chiama Cedi la strada agli alberi. Poi ne sono venuti altri, poi è arrivato Sacro minore e infine Canti della gratitudine. Siamo nel cuore dell’intreccio, del travaso dallo spirito della poesia alla poesia della spiritualità. Non mi sono posto il problema se credo o non credo in Dio, mi sono posto il problema che il mondo non può andare avanti se persiste e si accentua il divorzio dal divino.
Il materialismo brutale e nichilista in cui siamo immersi non solo accentua le ingiustizie sociali e danneggia la salute del pianeta, ma è anche un’implacabile assicurazione sull’infelicità: le nazioni più avanzate economicamente sono piene di depressione e solitudine. Non è un caso che il responsabile della sanità degli Stati Uniti qualche mese fa ha elaborato un documento in cui si parla di pandemia di solitudine e in cui si invoca la riconnessione sociale come via d’uscita. La questione è che non ci possiamo riconnettere se rimaniamo quello che siamo adesso: animali spaventati, incapaci di affidarci e di credere. Prima della riconnessione è cruciale la rigenerazione dell’umano.
Serve tornare alla vita profonda se vogliamo tornare alla vita con gli altri. In superficie ci sono solo fuga e conflitto. Il bene esiste ancora, ma va scavato e portato alla luce con un lungo esercizio. Il bene non è un esercizio di stile, non è una vernice, ma un fuoco che sale da sotto e bisogna liberare le vie per farlo salire in alto e farlo incontrare col fuoco degli altri. Se vogliamo abitare degnamente il mondo, dobbiamo dare grande spazio alla poesia e alla spiritualità nella nostra vita. E questo gesto non è un gesto riposante, non ci mette in salvo. Ci rende più agili e vasti, ci fa sentire che confiniamo con l’infimo e con l’immenso. Siamo animali che possono farsi delle gentilezze, siamo un niente che affratellandosi a un altro niente diventa qualcosa: la stella della nostra vita è la relazione, tutto il resto è un pericoloso equivoco che ci porta alla rissa perenne dell’io, alla solitudine dell’individuo che vede gli altri individui come ostacoli alla sua realizzazione.
È chiaro che è necessario un radicale ripensamento dell’umano e un suo allargamento agli animali e alle piante: siamo tutti abitanti del piccolo pianeta del respiro, l’unico che per ora conosciamo in giro. La poesia e la spiritualità forse vanno pensate come strumenti di un nuovo umanesimo, non come feticci di cui farci mercanti. Sono strumenti preziosi in questo tempo, proprio perché ci mancano. Magari in un tempo, ulteriore avremo bisogno d’altro. Non riesco a scollarmi da un’idea di provvisorietà quando penso alle cose che incontriamo. Noi con la poesia e con lo spirito possiamo avere solo delle intimità provvisorie. Il resto, per chi ci crede, si trova in paradiso.
Paesaggio
Erri De Luca
«Questo paesaggio è disposto a fare a meno di me». Il verso del poeta Russo Iosif Brodskij stabilisce un punto di osservazione. Quello che ho intorno, luogo e tempo, di cui mi sento parte, continua, continuerà senza di me. La mia presenza, che per abitudine di esserci mi sembra ovvia, non è necessaria. Il paesaggio può fare a meno di me. Ho l’impressione di avere cercato finora di fare in modo che invece il paesaggio sentisse bisogno di me, per giustificarmi la vita. E se non proprio bisogno, almeno riconoscesse che ne faccio parte. Poi viene un momento, seguito da altri, in cui ci si toglie con l’immaginazione dalla cartolina. Ci si accorge da fuori che non manca niente. Il posto a tavola è tolto insieme al nome sulla buca delle lettere. Viene il momento in cui questo pensiero arriva senza essere invitato e allena alla presa di distanza. Mi capita nei punti panoramici, davanti al mare e al suo alto orizzonte, sulla sommità di una montagna. Di fronte a queste vastità è più facile il pensiero affiorato nel verso di Brodskij: non durare a lungo. Per essere efficace deve passare come un vento in faccia. Subito dopo, rientrato nel paesaggio, resto soprappensiero, come chi cerca di ricordare qualcosa sfuggito di mente.
Dio parla al cuore. L’arte della preghiera
di Enzo Bianchi
Da quando ho smesso di essere infante io prego tutti i giorni: ho imparato a pregare sulle ginocchia di mia madre, ho cominciato poi a pregare la preghiera del cristiano del mattino e della sera e dall’adolescenza in poi ho pregato soprattutto con la liturgia della Chiesa e, dunque, con i Salmi come faccio ancora adesso. La mia preghiera è cambiata negli anni, è diventata sempre più contemplativa, ricorro meno al libro e apro il mio cuore a volte arido, a volte turbolento, a volte sofferente, davanti a Cristo, al Dio di Gesù Cristo. Ormai vecchio ho conservato la fede e più ancora ho conservato e accresciuto un grande amore per Gesù Cristo il Signore, e tra molti dubbi avanzo verso l’incontro finale. Prego, ma ho una sola domanda: chiedo misericordia; prego, ma so che pregano tutte le creature, animate e inanimate; prego, ma so che il Signore ha pregato più me di quanto io abbia pregato lui.
Ho scritto molte pagine sulla preghiera, molti libri, e ho cercato di insegnare a pregare a quanti vivevano con me, ma sempre di più la preghiera m’è apparsa un mistero perché ho capito che nella fede cristiana è innanzitutto ascolto di Dio nel nostro intimo, e perché parlare a Dio è temerario e si rischia proprio di parlare molto per non ascoltarlo.
Non ci è naturale dire: «Parla Signore che il tuo servo ascolta!» (cf 1Sam 3,1-18). Ci è più facile dire: «Ascolta Signore che il tuo servo parla» (cf 1Sam 3,1-18).
E poi la preghiera è eloquenza della fede, ma questa a volte si fa debole, poca fede e addirittura mancanza di fede! Allora la preghiera può sembrare un’illusione, un parlare nel vuoto, un esercizio completamente mentale perché nessuno ascolta. Certo, allora, la preghiera resta sempre un monologo, una ricerca di orientamento, un pensare, un’auto chiarificazione che ha un suo valore umano, ma che non mette in relazione l’uomo e il suo Signore.
Tra la preghiera dei credenti in Dio e quella dei non credenti in Dio c’è un confine non chiaramente tracciato... E il fatto che la preghiera sia un fenomeno antropologico presente in tutte le religioni, in tutte le spiritualità e le culture, è significativo: gli umani pregano, hanno questo incredibile bisogno di gridare rivolgendosi a qualcuno, sentono il bisogno dell’invocazione.
Ma attenzione, soprattutto oggi in cui con superficialità si vorrebbe pregare insieme tra appartenenti a religioni diverse: c’è anche una preghiera idolatrica, una preghiera pagana, che non è secondo il Vangelo.
Il Vangelo di Gesù Cristo giudica anche la preghiera e chiede che sia secondo il canone del rapporto tra un Dio padre misericordioso e un figlio confidente. Non può mai essere ciò che vedeva Lucrezio, un “affaticare gli dèi”, non può essere magica, non può essere pretesa o imposizione a Dio dei nostri desideri e della nostra volontà.
La preghiera che i Vangeli riportano, solo insegnata da Gesù, il Padre nostro, è il canone, la regola della preghiera cristiana, un riassunto di tutto il Vangelo. Noi cristiani abbiamo la consapevolezza che quando preghiamo deve venire lo Spirito santo a pregare in noi insegnandoci, unendoci alla preghiera di Cristo e indirizzandoci al Padre: una preghiera che si apre alla comunione della vita divina! Se la preghiera che facciamo è questa allora lo Spirito santo ci rivela la volontà di Dio, ci sussurra nel cuore una parola avvolta nel silenzio che è la voce di Dio fatta voce della nostra coscienza e noi possiamo con confidenza piena dire “Abba!”, pronunciato in un modo che forse non abbiamo mai usato neppure rivolgendoci al nostro padre terreno.
Comprendiamo bene noi cristiani che pregare in modo autentico non coincide con un fare, un recitare preghiere. La preghiera coinvolge l’essere non il fare, non è un’attività tra le altre ma una dimensione, uno spazio in cui penetrare, è una relazione viva che si nutre di scoperte, nuove conoscenze, crescita dell’amore. È significativo che già nei Salmi l’orante quando vuole individuare sé stesso nel pregare arrivi a dire: «Io sono preghiera» (Sal 109,4) e che di Francesco d’Assisi, il somigliantissimo a Cristo, si sia detto che alla fine della vita non pregava ma era diventato preghiera. Solo così il nostro cuore è vicino a Dio. C’è una iniziazione alla preghiera cristiana? A partire dall’Antico Testamento per entrare in relazione con Dio il primo atteggiamento da assumere è quello dell’ascolto! Se il Dio che si rivela a Israele è “un Dio che parla” allora il credente, e di conseguenza il popolo, è colui che ascolta. Ascoltare significa non solo porgere l’orecchio per sentire ma protendere tutta la persona verso colui che parla.
Rendere la preghiera conforme al Vangelo
Ma attenzione, Dio parla nelle nostre profondità, nel cuore dice la Bibbia, là dove sono generati il parlare, il volere e l’operare. La sua voce è silenzio, e perciò va catturata con il silenzio: dev’esserci silenzio esteriore, ma soprattutto deve tacere l’ego sempre loquace e sempre soverchiante. La voce di Dio non si ascolta se non esercitandosi ad ascoltarla, invocandola, desiderandola, chiedendola e allora sarà originata nel cuore come voce della nostra coscienza.
Questa voce sarà innanzitutto quella che ascoltiamo e leggiamo nelle sante Scritture. L’assiduità
nell’ascolto della Parola ci abilita ad ascoltare la parola di Dio per noi qui e ora. Nell’accoglienza interiore della parola di Dio questa cresce con il lettore, come diceva Gregorio Magno, e apre a un’interpretazione infinita. Accade quel che illustra il Salmo come grazia nella preghiera del salmista: Dio ha pronunciato una parola / due ne ho ascoltate: / a Dio appartiene la forza / a te, Signore, la grazia / e tu renderai a ogni uomo / secondo le sue azioni (Sal 62,12-13). E non si dimentichi che dall’ascolto nasce la fede, dalla fede la conoscenza di Dio, dalla conoscenza di Dio l’amore di Dio!
La parola ascoltata, meditata, pregata e contemplata è la preghiera per eccellenza, per la sinagoga e per la Chiesa! E la lettura orante della Parola è capace di plasmare tutta la vita del credente e della comunità cristiana.
Ma allora possiamo noi parlare a Dio? Se si ha l’avvertenza di rendere la preghiera conforme al Vangelo è certamente possibile. Ma si tenga presente che oggi con facilità, troppa facilità, anche nella liturgia ci sono abusi sedicenti creativi, preghiere che sono debitrici di magia, di riti di altre religioni che deificano la natura, preghiere che pretendono guarigioni e si ammantano di miracoli.
Il cristiano sa che può avere fiducia nel rapporto con Dio, che gli può esporre i suoi bisogni e le sue sofferenze, ma sempre affermando: «Sia fatta la volontà del Signore non la mia!». Gesù ce l’ha insegnato: «Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli tanto più il Padre darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiederanno». Il Padre non darà le cose che i figli chiedono, anche se le cose richieste sono buone, ma darà certamente lo Spirito santo, darà forza e consolazione per attraversare le sofferenze e la morte stessa. Il cristiano nella preghiera porta tutta la sua persona, vi porta le relazioni, gli amori che vive, vi porta l’umanità. Beato chi fa silenzio su Dio, e parla invece di colui che ci ha narrato Dio, Gesù Cristo. Beato chi parla a Dio, perché il nostro Dio è un Padre, un amico al quale si può parlare.
Circa il canto
Erri De Luca
Una volta i minatori portavano i canarini nelle gallerie. Non per sottofondo musicale: per indicatore di allarme. Se smettevano il cinguettio c’era fuga di gas. Si vuole che il canto sia libero. Più spesso non lo è. Gli schiavi deportati dall’Africa nelle piantagioni di cotone in America usavano il canto corale per dare ritmo regolare al lavoro e sopportarlo meglio. Nei lutti, nelle nozze, nelle feste, nelle processioni, nelle schiere militari, nelle lotte politiche il canto è strumento che intensifica la condivisione. Da bambino sentivo salire dal cantiere vicino la voce cantante di un operaio. Tra i rumori delle lavorazioni, nel cerchio della polvere s’alzava la strofa musicale esclamativa. Non era allegria, né spensieratezza, ho saputo e capito più tardi, quando è toccato a me. Era sfogo del corpo che sfruttava le corde vocali per dare un ritmo alla respirazione. Il corpo è uno strumento ad accordatura. Mi capita ancora d’intonare qualcosa mentre sto facendo qualcosa di manuale. Considero benefiche le espressioni e le manifestazioni canore, escluse quelle competitive. Nel rumore meccanico della grande officina mi saliva in gola, in sordina e a contrasto, un contrappunto musicale. Avevo l’impressione di mettere un mio ordine in quel marasma di frastuoni. Mi teneva compagnia, non era libero, ma misteriosamente mi affrancava.
La metà invisibile delle cose
Alessandro D'Avenia
Ho quasi un centinaio di copie del Piccolo Principe, in altrettante lingue e dialetti: una per ogni Paese visitato da me o dai miei amici. Volevo poter dire in tutte le lingue che «l’essenziale è invisibile agli occhi», eppure oggi è diventato un luogo comune ridotto a kitsch emotivo. Ma che cosa è l’essenziale e in che maniera è invisibile? Lo mostra quel racconto in cui un pellegrino, uno dei tanti in cammino verso un santuario nel Medioevo, s’inerpica su una strada tra grandi cave di pietra, in una giornata di sole cocente. Vede uomini impegnati a sgrossare le pietre con i loro scalpelli e si ferma a osservarne uno, coperto di sudore e polvere, le braccia ferite dalle schegge. «Che cosa fai?» gli chiede. «Non lo vedi?» risponde l’uomo infastidito, senza alzare il capo: «Mi ammazzo di fatica». Il pellegrino riprende il cammino e incontra un altro spaccapietre, altrettanto stanco, sporco e stizzito. «Che cosa fai?». «Non lo vedi? Lavoro tutto il giorno per far mangiare i miei figli». Il pellegrino continua il viaggio e incontra un terzo scalpellino, malconcio come gli altri, ma sereno. «Che cosa fai?». «Non lo vedi? — risponde l’uomo sorridendo — sto costruendo una cattedrale» e gli indica l’edificio che sta sorgendo in cima alla collina. L’essenziale, invisibile agli occhi del primo, visibile solo parzialmente agli occhi del secondo, diventa chiaro al cuore intelligente del terzo, non come illusione o emozione ma come orizzonte di senso che trasforma la mera fatica in lavoro e vita.
Per questo l’incendio di Notre Dame ci ha ferito, credenti o no: vedendo quelle immagini abbiamo sentito bruciare una parte di noi e non «solo» il legno secolare del tetto di un edificio. Le cattedrali sono sempre state la metà visibile dell’invisibile, lo spazio escogitato dall’uomo per fare abitare il divino sulla terra. Con questo spirito Gaudí concepì la Sagrada Familia: voleva che il futuro collaborasse all’opera grazie ai legami tra artisti e popoli del XIX, XX e XXI secolo. Ci sarà l’Europa solo quando avremo lo spirito con cui si costruivano le cattedrali: non basta una moneta comune tra egoisti a fare un europeo, ma ci vuole un valore comune superiore da realizzare con il meglio del genio e dell’impegno di ogni popolo, così come lo spartito per un’orchestra. Il poeta tedesco Heine, vedendo un’imponente cattedrale medievale, rispose a un amico credente che gli chiedeva perché non se ne costruissero più: «I vostri padri avevano dei dogmi. I credenti d’oggi, solo delle opinioni. E con le opinioni non si costruiscono le cattedrali». La religione ha sempre fornito un ordine simbolico che rimanda a ciò che ci trascende e rende significativa ogni cosa: il mestiere di vivere è lo stesso per tutti, ma chi vede la cattedrale nella pietra che sta lavorando può abitare il limite umano come potenzialità feconda. Le nostre «cattedrali» contemporanee (stadi, ipermercati, parchi divertimenti…), per quanto aggreghino e offrano svago, non riescono a soddisfare la sete di senso, perché non rimandano ad altro se non ad oggetti ed emozioni finiti. La secolarizzazione, piaccia o no, è il deserto dei simboli, nel quale poi inevitabilmente seguiamo i miraggi offerti dai manipolatori del simbolico.
Ma il deserto è la condizione provvisoria di chi aspira a una terra nuova. È assenza, mancanza, smarrimento, necessari a spogliarci da certezze che in realtà ci imprigionano. Il deserto non dà punti di riferimento: è una sfida a trovarli dentro e non fuori di noi. Non a caso il Piccolo Principe è ambientato nel deserto. Il protagonista è un aviatore il cui aereo si è rotto, la sua fede nella tecnica e nel progresso è in panne. Nel deserto torna in balia della vita nuda, senza appigli: «Era questione di vita o di morte, perché avevo acqua da bere soltanto per una settimana». Proprio lì incontra il principe che ha dentro, l’uomo interiore che è «bambino» solo perché ha una voce sottile e non si impone, la parte di noi che vede l’ordine simbolico, il senso da dare all’agire quotidiano, la capacità di trovare la cattedrale nella pietra, il tutto nella parte. Simbolico viene dalla parola symbolon (dal greco: mettere insieme): un disco d’argilla spezzato in due, che permetteva ai possessori di riconoscersi, garanzia di autenticità di un legame. Per questo il credo cristiano si chiama simbolo della fede, per indicare l’ordine di senso in cui le persone più diverse e sparse dappertutto si riconoscono in un legame: sono figli dello stesso Padre. L’ordine simbolico della realtà è quindi ciò che dà significato a ogni cosa grazie a un legame. Senza l’ordine simbolico prevale quello «diabolico» (diabolon: separare, è il contrario di symbolon) la vita diventa un dato muto, che rende impossibile elaborare un lutto, un fallimento, o semplicemente trovare un senso alla ripetizione dei giorni. Il pilota trova nel Principe il «simbolico» perduto: infatti il bambino vuole tornare sulla stella dove ha la sua Rosa, l’essenziale, invisibile agli occhi, ma non per questo irreale. La Rosa è infatti la metà del simbolo che orienta tutti i suoi pensieri e azioni. I personaggi che incontra, dal geografo al re, dal lampionaio all’ubriaco, hanno smarrito la metà invisibile delle cose. Sono «uomini del bisogno»: riducono l’essenziale a oggetti e ruoli «visibili» e, per questo, sono malati, cioè prigionieri della sola evidenza materiale, la loro sete d’infinito è sottomessa al potere delle cose e degli altri. Oggi la cultura del «pienessere» ci spinge a essere continuamente colmati, pieni, soddisfatti, per sentirci amati, mentre per esserlo abbiamo bisogno di riconoscerci la metà visibile di una storia più ampia. L’essenziale è perciò anche visibile agli occhi ma come metà incompiuta, come un volto che racconta la persona: «Cari pittori del ’900, di facce ce n’è una gran varietà. Ma solo di nuovo imparando a leggere l’invisibile nel visibile, restituirete loro la dignità che hanno», scriveva Ungaretti un secolo fa, intuendo che senza il simbolico gli altri diventano «facce» mute, privi di dignità.
L’aviatore stesso è uno di quei personaggi che ha dimenticato la metà invisibile delle cose. Con il suo aereo spera di raggiungere ciò che gli manca, ma quel mezzo non basta. Il piccolo principe è invece «l’uomo del desiderio», l’uomo interiore che trasforma la mancanza in ricerca, traduce il desiderio in pensiero e azione: ogni cosa è la metà visibile della Rosa, l’essenziale invisibile agli occhi ma visibile al cuore. Egli salva «i grandi», uomini senza cuore, perché ha il senso dell’invisibile. Per lui assenza e mancanza sono pieni del significato dato dal legame con la Rosa, il suo symbolon. La perdita del simbolo rende muta la metà invisibile delle cose ed inevitabile si apre il deserto di senso. Educare è proprio costruire il simbolico davanti al pane duro della realtà. Solo imparando ad abitare il deserto, il bambino e l’adolescente costruiscono il soggetto e imparano a organizzare il desiderio, che trasformano in iniziativa e creatività, grazie ai legami stabili con adulti non ossessionati dal produrre l’adulto perfetto. Non è un caso che il principe affermi che il deserto è bello perché «nasconde un pozzo in qualche luogo». Le perdite, le mancanze, le cadute, non «simbolizzate», cioè prive di senso e di legami forti, non vengono eliminate ma diventano (auto)distruttive. La vita interiore ha il compito di «simbolizzare», trovare la metà mancante, per vivere. Ammazzarsi di fatica o costruire una cattedrale si riferiscono alla stessa azione, ma la prima, senza oltre, schiavizza, l’altra invece, avendo un senso, libera.
Quando lessi per la prima volta la fine del Piccolo Principe provai il dolore delle verità scomode ma ineludibili. Per riunirsi alla Rosa si lascia mordere dal serpente proprio nell’anniversario della sua caduta sulla terra: va incontro alla morte perché anche la morte è la metà visibile dell’invisibile, una porta sulla Rosa, non un muro. Grazie al simbolo l’uomo riempie le cose del suo spirito e abbandona il vano tentativo di strappare lo spirito dalle cose. Riempire le cose di spirito significa dar loro un senso che le trascende: la volpe scoprirà il colore del grano perché è quello dei capelli del suo amico biondo, l’aviatore vedrà ridere le stelle perché una è quella abitata dal principe e la sua Rosa. Il Piccolo Principe è il piccolo libro della nostalgia di simboli di una cultura che, rinchiusa in «metà» della realtà, spesso ne perde la «meta»: il lavoro diventa schiavitù, la fragilità colpa, i legami limite, il sesso consumo, l’arte narcisismo, il dolore condanna, la morte muro.
Il letto da rifare oggi è cercare il «rabdomante del simbolico», il piccolo principe che trova il pozzo nel deserto, indica il lato invisibile attraverso quello visibile delle cose e guida i prigionieri del «pienessere» nella terra che non è dopo il deserto, ma dentro: di noi, dove nessuno può strapparcela, una terra interiore in cui ogni pietra è la cattedrale, ogni spina la Rosa. Questo principe interiore è nel silenzio, nella lettura, nella preghiera, nell’amicizia, nel dono di sé, nel dolore, come ha imparato l’aviatore: «Guardate il cielo e domandatevi: la pecora ha mangiato o no il fiore? E vedrete che tutto cambia. Ma i grandi non capiranno mai che questo abbia importanza». In tutte le mie edizioni del libro l’ultima immagine disegnata dall’autore è un deserto sul quale, finalmente, si è accesa una stella.
Prati
Erri De Luca
Su un cartello in montagna è scritto: «Rispettate i prati». Intorno la neve ricopre ogni superficie. Ecco rispettati i prati, sotto protezione dell’inverno e della sua stesura. Così mi viene in mente un pensiero da rivolgere al pianeta intero: invece di reagire alla pressione umana con il riscaldamento globale, provasse con il raffreddamento. La miglior reazione contro un seccatore è ignorarlo freddamente, piuttosto che surriscaldarsi per irritazione. Ghiacci il Mediterraneo, sia piovoso, temperato e fertile il Sahara, l’Africa diventi rifugio del pianeta insieme ad altre aree intorno all’Equatore. Non esista sud e nord, ma solo centro terra. Chi ha strillato all’invasione da parte di profughi allo sbaraglio su relitti, supplicherà asilo alle sponde africane. Auguro loro la massima longevità per poter apprezzare pienamente l’ironia della Storia e della Geografia, che spesso coincidono. Consiglio alla terra di estendere le aree polari, come ha già fatto in altre epoche del suo clima. Non sarà l’innalzamento dei mari a scoraggiare l’umanità costiera, che andrà invece a gravare all’interno. Sarà il ghiaccio a imporre nuove regole di sopravvivenza, costringendo a inventare risorse non provenienti dal saccheggio del suolo. Saliranno in cattedra gli Esquimesi, i Samojedi, scenderanno dal pulpito gli economisti. Per riscaldamento serviranno più abbracci.
L’insalata
Erri De Luca
Una volta ho letto un libro camminando. Era piccolo e stava dentro la passeggiata di un’ora. L’avevo preso in prestito senza chiedere permesso. Sarebbe appropriazione indebita se non l’avessi riportato in giornata al suo posto. Era di Agota Kristov e mi sono appuntato, per non dimenticarla, questa frase: «È diventando assolutamente niente che si può diventare uno scrittore». A proposito del prelievo da uno scaffale di altro proprietario, credo che ogni lettura sia un’appropriazione di parole altrui, durata quanto il tempo impiegato a leggere. Dopo la dimentico facilmente, titolo e nome dell’autore. Non per questo è spreco di tempo. Me lo ha fatto capire il prete anziano di un piccolo centro, raccontandomi di un suo parrocchiano. Ritornato a casa dalla funzione domenicale diceva alla moglie che il prete aveva parlato tanto bene. Alla domanda di lei su cosa avesse detto, non aveva saputo ricordare nulla. Lei gli aveva rimproverato di avere perso tempo se già si era dimenticato. Lui si era giustificato all’incirca così: «Quando il prete parla per me è come l’acqua che lava l’insalata. L’acqua scorre via, non la trovi più, ma dopo l’insalata è pulita». Così è per me per i libri che leggo. Lo scorrere delle pagine scivola via, ma la testa, come l’insalata, è stata rinfrescata
Comunicare è conoscersi dentro
Eugenio Borgna
Nell’interiorità matura la conoscenza di ciò che siamo, delle nostre emozioni e, ancora più intimamente della nostra anima. Questo ascolto di sé è alla radice di ogni relazione
Si comunica col linguaggio delle parole, che è la comunicazione verbale, e col linguaggio del silenzio e della solitudine, degli occhi e degli sguardi, delle lacrime e del sorriso, che è la comunicazione non verbale: le due grandi aree semantiche della comunicazione. Negli svolgimenti tematici del discorso vorrei indicare come queste due diverse modalità di comunicare si snodano in alcune emblematiche condizioni di vita, e come dovremmo di volta in volta comportarci al fine di renderle sempre più dotate di senso, e creatrici di umanità, e di solidarietà, di sensibi-lità, e di gentilezza, di attesa, e di speranza, che si intrecciano le une alle altre. La comunicazione è l’espressione del comunicare, e in vita non è possibile non comunicare, la sola cosa che ci consenta di uscire dalla solitudine; ma è necessario distinguere ancora due diverse forme di comunicazione: quella razionale e astratta, estranea ai contenuti emozionali, e quella animata dalla passione. Lo diceva Giacomo Leopardi: solo se la ragione si converte in passione, diviene strumento di conoscenza, e di comunicazione. La comunicazione razionale è quella che, nella vita quotidiana, si limita a trasmettere cognizioni, e informazioni, con un’arida elencazione delle cose. La comunicazione emozionale è quella che espone le cose con slancio, e con viva partecipazione dialogica. Le stesse cose, esposte con freddezza, o con passione, cambiano di significato, e si imparano con una diversa rapidità, e anche con una diversa partecipazione interiore. Una bellissima poesia di Clemente Rebora ( Tempo) è la premessa, la fonte, delle mie riflessioni sulla comunicazione, e sulle sue metamorfosi, e sono grato a Roberto Cicala, che è l’attuale editore delle più belle opere del grande poeta rosminiano, di avermela proposta. Leggiamola insieme: Apro finestre e porte – ma nulla non esce, non entra nessuno: inerte dentro, fuori l’aria è la pioggia. Gocciole da un filo teso cadono tutte, a una scossa. Apro l’anima e gli occhi – ma sguardo non esce, non entra pensiero: inerte dentro, fuori la vita è la morte. Lacrime da un nervo teso cadono tutte, a una scossa. Quello che fu non è più, ciò che verrà se n’andrà, ma non esce non entra sempre teso il presente – gocciole lacrime a una scossa del tempo. Questa fragile e umbratile riflessione sulla comunicazione interiore sgorga, così, da questa emblematica poesia di Rebora. Ne ho sempre letto le poesie, e i testi religiosi, che si intrecciano le une agli altri nei loro bagliori, e nella loro arcana e ardente spiritualità. I versi, che parlano dell’anima e degli occhi, colgono le radici della comunicazione, di ogni comunicazione, non solo in psichiatria, ma nella vita. Nell’ultima strofa il tempo, che è il titolo della poesia, rinasce nel suo germogliare e nel suo svanire. Nel riflettere sulla coscienza interiore, sull’interiorità, come premessa alla conoscenza e alla comunicazione di quello che noi siamo nei nostri pensieri e nelle nostre emozioni, vorrei ricordare quello che sant’Agostino ha scritto sulla conoscenza di sé, in una ( De vera religione) delle sue grandi opere teologiche e filosofiche. Le sue parole celeberrime sono: «Non uscire da te stesso, rientra in te, nell’interiorità dell’uomo risiede la verità». La mia domanda è questa: ci conosciamo, meditiamo, sappiamo isolarci dalle nostre impressioni immediate, dedichiamo tempo e pazienza indispensabili a conoscere le sorgenti profonde, e non solo quelle superficiali, dei nostri gesti e delle nostre azioni, delle nostre emozioni e dei nostri pensieri? Non c’è bisogno di essere psicologi, e psichiatri, per giungere a conoscere quello che noi siamo nella nostra vita interiore. Ci sono libri che ci aiutano in questo, e che non sono solo di matrice psicologica, ma anche di matrice poetica. Le poesie di Giacomo Leopardi, e anche quelle di Clemente Rebora, sono nutrite di una profonda interiorità e ci aiutano nel conoscere la nostra interiorità. Sì, ci sono attitudini personali nel seguire il cammino misterioso che porta alla conoscenza di sé, ma siamo (tutti) chiamati a conoscere le nostre emozioni, e quelle delle persone che la vita ci fa incon-trare, se vogliamo comunicare con noi stessi e con gli altri. Cose non facili, che si devono nondimeno tenere presenti, se vogliamo dare un senso alla nostra vita e conoscere quello di cui gli altri hanno bisogno, e che non hanno magari il coraggio di chiedere. Siamo circondati da persone, che non conosciamo nella loro fragilità e nella loro delicatezza, e che dovremmo sapere riconoscere. Una straordinaria filosofa francese, Simone Weil, autrice di libri di una indicibile bellezza e di una radicale profondità, morendo a poco più di trent’anni, ha scritto: «Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti. Non essere sordo a queste grida». Quando conosciamo una persona non dovremmo mai dimenticare queste parole.
Motivi di gioia
Alessandro D'Avenia
La vita felice è infatti un equilibrio tra lasciar essere e fare. Come trovarlo?
Ossessionati dal controllo, soffochiamo la vita, che è invece una sinergia di fare e lasciar essere, prima in noi stessi e poi nel mondo, come accade in un concerto. L'accordo di voci e suoni è presente in natura in modo sorprendente, come ha mostrato qualche anno fa Davide Monacchi nel premiato documentario Dusk chorus, tratto dal progetto «Frammenti di estinzione» atto a esplorare acusticamente le più antiche foreste equatoriali, registrando i suoni delle aree a più alta biodiversità.
Chi ascolta (l'ho fatto in una sfera buia con audio immersivo durante la settimana del design a Milano) diventa parte della foresta, grazie alla tecnologia del suono 3D che ha catturato i versi di insetti, uccelli, anfibi, mammiferi (e persino degli alberi). Monacchi ha poi tradotto i suoni in uno spettrogramma acustico dell'ecosistema, dove si possono vedere le bande sonore in cui i diversi animali si collocano. Il dato commovente è un'armonia in cui i versi non si sovrappongono, ma creano accordi: o occupano frequenze differenti o si alternano se usano la stessa, secondo uno spartito invisibile. Purtroppo però quando l'inquinamento acustico umano occupa alcune frequenze, gli animali che le usano sono costretti ad abbandonare l'ecosistema, e alcuni si estinguono: dal concerto si passa allo sconcerto, dall'accordo al disaccordo, dal canto al disincanto. In natura quindi ogni «voce» occupa il suo posto e si armonizza con le altre. Questa sinfonia, a cui saremmo più educati se frequentassimo i suoni naturali (è significativo della nostra nostalgia di pace che tra le playlist più seguite sulle piattaforme ci siano proprio quelle che riproducono questi suoni), è ciò a cui aspiriamo, ma spesso noi stessi la distruggiamo. Infatti se potessimo fare lo spettrogramma del nostro contesto acustico, scopriremmo quanto siamo esclusi o scappiamo dalla nostra banda sonora, o magari occupiamo quella altrui.
La comunicazione di oggi, urlata e saturata da chi ha i mezzi per far più rumore, tende a coprire le voci, soprattutto quella dei giovani, perché la frequenza su cui esercitarla è occupata da chi non dovrebbe star lì.
Scivoliamo così nella univocità (che significa «una sola voce») e monotonia («una sola tonalità») del controllo. Per vivere serve invece un'ecosistema umano corale che permetta a ciascuno di scoprire e usare la propria voce, che è il modo in cui abbiamo scelto di indicare, metaforicamente, proprio l'unicità personale: trovare la propria voce (da cui vocazione) è infatti sinonimo di vita autentica. Ma vocazione significa anche convocazione: coralità, lo strumento è orchestra, il singolo comunità. Siamo fatti perché le voci si accordino nella loro diversità in una sinfonia che non è data dalla loro somma ma da un superamento collaborativo, come narra in modo affascinante Tolkien nel racconto che dà origine al suo mondo, il Silmarillion. Protagonisti dell'origine dell'universo sono degli spiriti che abitano prima del tempo insieme a Eru Ilúvatar, il dio supremo. Eru per l'appunto li con-voca e propone un grande tema musicale, chiedendo di svilupparlo per dare vita a tutte le cose. La bellezza si espande e incarna coralmente finché uno di questi spiriti decide di mettersi in proprio tradendo l'armonia del tema e dell'orchestra: il male è uno sconcerto, un fare che impedisce il lascia che sia. Let it be. Anche a scuola proviamo a fare lo stesso aiutando i ragazzi a trovare la propria voce, e nei giorni di maturità mi è particolarmente evidente.
Ma abbiamo noi ancora un tema musicale da sviluppare? Esiste ancora uno spartito?
Alla fine dell'anno i maturandi mi hanno regalato un'edizione dell'Odissea, la stessa che abbiamo usato per la lettura integrale del poema ad alta voce durante il primo dei cinque anni di superiori, quello vissuto a distanza. Quell'esperienza di lettura in cui ciascuna voce incarnava un personaggio da un punto diverso e disperso della città, ci è rimasta nella memoria come un concerto, quando invece l'armonia era distrutta dal distanziamento. Nella prima pagina del libro di un racconto di tremila anni fa hanno apposto le loro firme, quelle che cominciano a usare per le loro nuove responsabilità. All'interno c'erano poi le loro voci.
Ognuno aveva infatti sottolineato il passo più amato affiancando il proprio nome alle parole di Omero. Così alla mia collezione di Odissee ho aggiunto la più bella, fatta di nomi e voci (versi). Quando la apro ascolto una musica “di classe”: volti e vocazioni, cioè la scuola, un luogo in cui, se non fossimo oberati da burocrazia, prestazioni e impegni che poco hanno a che fare con l'educazione, siamo chiamati a cercare proprio l'equilibrio tra il fare e il lasciar essere, per evitare sia il controllo sia l'indifferenza. E non è forse questo il lavoro della vita? Questo libro, divenuto per loro una sorta di tema musicale da sviluppare, sarà per me un Inno alla gioia, in cui ogni voce, unica, come ogni vocazione, per altezza, timbro, intensità e durata, si è legata ad altre in una convocazione che supera le singolarità e il tempo. E l'amore non è forse far essere «la voce a te dovuta», come il titolo del libro di un poeta innamorato? Quando tornando a casa tardi per il pranzo dopo gli orali di maturità trovo un post-it con su scritto «ti amo» e «potresti mangiare questo», non ascolto il canto quotidiano della vita? Un'armonia di fare e lasciar essere come il giardiniere cura le sue piante?
In musica tutto questo accade grazie al silenzio. Il mio augurio è che possiate (ri-)trovare la vostra voce, unica e necessaria al concerto della vita. Lo sconcerto, il disaccordo e il disincanto in cui a volte precipitiamo non sono la realtà, ma un tradimento della voce a noi dovuta e di quelle a cui, per ecosistema, siamo legati. La vita aspira e tende infatti al coro delle foreste vergini e al concerto sui tetti di una rumorosa città.
Ad Amare non si sbaglia mai..
Paolo Ricca
La bellezza è da amare perché è un riflesso della bellezza di Dio. L’amore nelle sue tante forme è da amare perché è ciò che di più bello c’è nella nostra vita, ed è anch’esso un segno di Dio che è amore. L’arte è da amare perché è un modo nobile per cercare di penetrare nell’enigma della vita e del mondo, è anche un modo per rendere loro omaggio e per festeggiarli: in fondo l’arte è celebrazione, quindi una forma di preghiera. La vita è da amare, ma non solo la nostra, anche quella degli animali, dei fiori, delle piante, del colori, dell’acqua, dell’aria, del vento, della terra e del fuoco, di tutte le creature evocate da Francesco d’Assisi nel suo stupendo Cantico, perché la vita è bella, è Dio che l’ha inventata, voluta, suscitata e resa possibile. La natura è da amare sia perché è splendida (benché anch’essa attraversata, come la nostra esistenza, da un «gemito» e da un «travaglio»: Romani 8, 22), sia perché è opera «delle mani» (Salmo 19, 1) e «delle dita» (Salmo 8, 3) di Dio, ed è il teatro della sua gloria. Insomma: non bisogna aver paura di amare. Direi anzi: ad amare non si sbaglia mai. Purché si ami in Dio. In Dio possiamo amare tutto e tutti, non perché il nostro cuore sia capace di tanto, ma perché Dio rende tutto amabile.
Ancora imparo
José Tolentino Mendonça
Uno degli autoritratti più commoventi, e al tempo stesso più riusciti, è quello realizzato dal pittore Francisco Goya (1746-1828). Si tratta di uno schizzo su un minuscolo foglio di carta, tracciato a matita negli ultimi anni di vita, quasi come un testamento. Per decenni è rimasto praticamente inosservato, dal momento che di Goya non mancano le opere monumentali e memorabili. A poco a poco, però, quel piccolo disegno è divenuto una chiave non solo per entrare nella storiografia dell’artista ma anche per penetrare nella sua anima. Vediamo in quell’immagine la fragilità di un anziano, che cammina appoggiandosi a due bastoni, come se per l’ultima volta stesse provando dei passi esitanti come lo furono i primi, accennati nella sua balbettante e remota infanzia. Egli porta una chioma candida e una lunga barba che ci raccontano, senza parole, inverni interi di neve. Il segreto, però, è quello del suo sguardo indimenticabile, dove si indovina certamente la fatica, ma anche un’energia interiore capace di vincere la stanchezza: una curiosità incrollabile, che resta sorprendentemente accesa; un’apertura a continuare il cammino nella scoperta e nella meraviglia. Nell’angolo in alto del disegno si legge infatti: «Aun aprendo» (Ancora imparo).
Accarezzare la fragilità dell'altro
Puoi solo accarezzare questa fragilità che ti angoscia – la fragilità dell’altro, le cui certezze oscillano di fronte ai tuoi occhi lucidi.
Accarezzare l’altro, mille volte al giorno, col pensiero e talvolta con dita leggere – l’unica certezza che rimane.
La carezza è l’alleggerimento del gesto, la sua trasparenza, il contatto con l’altro che non vuole possederlo né dominarlo né respingerlo né trattenerlo né blandirlo né penetrarlo.
La carezza è il gesto soave dello sfiorare, consolazione e pietas, piena identificazione all’altro, ambasciata fisica d’affetto. La carezza è eloquente in sé, non deve aggiungere altro, e non è nemmeno travisabile. È un gesto perfetto, in bilico tra il battere e il levare, senza essere né l’uno né l’altro.
Anche il bacio è una carezza, ma è già più definito, grave, ammiccante – allude ad altro. Un bacio può essere stampato, una carezza no. Nella sua apparente fuggevolezza è uno scorrere rispettoso e delicato sul corpo dell’altro, un delimitarne la forma, ma con un afflato contemplativo, lenitivo, per nulla invasivo.
La carezza sul volto: è accedere soavemente alla fragile esposizione dell’altro, alla sua nudità. È dirgli: io sono qui per te. Gli occhi, la nuca, la fronte, le guance, il naso, il mento – ogni luogo del volto richiama una forma propria di carezza. Un adagiarsi del gesto alla mutevolezza espressiva. Un colloquio muto di gestualità emotiva.
Si accarezza anche con le parole, con gli occhi, con lo sguardo, con l’ascolto, con una vicinanza non assillante, un essere prossimo, in zona, un sapere da parte dell’altro che ci sei.
Si accarezza col pensiero – quando si è lontani, ma non lo si è.
La carezza è carezza della fragilità ma anche il tentativo di raccoglierla in una sfera affettiva sicura come un porto – la mia mano contiene la tua fragilità, l’accoglie, la culla, la sostiene, ma non esige altrettanto dalla tua mano.
Perché la carezza è un gesto gratuito, un dono che esula dalle logiche di scambio, un’effusione libera e unilaterale. Qui non si è accarezzati, qui si accarezza senza aspettarsi nulla in cambio.
È la pelle dell’altro che si fa invisibile, la tua mano che si fa invisibile.
La carezza, da ultimo, non si fa dire. O se qualcuno la sa dire, è perché parla il linguaggio della poesia.
E la poesia, si sa, è una carezza sul mondo. È l’unica forma di linguaggio che lascia che il mondo sia. Senza avocarlo a sé.
Perchè aiutare gli altri?
Piero Stefani
Non è scontato dare risposta a questa che sino a qualche tempo fa sarebbe parsa una domanda puramente retorica. Oggi, in particolare, è la spinta migratoria che costituisce il contesto «nuovo» in cui interrogativi scontati si ripropongono in termini drammatici, laddove il «come» arriva a mettere in crisi il «perché». Il peso del «come» è grande. Per essere in grado di aiutare gli altri - afferma Piero Stefani - occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche. In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Dobbiamo quindi rinunciare?
No, occorre innanzitutto non lasciare che l'accidia personale e collettiva così come il sentimento della paura o dell'incertezza del futuro abbiano il sopravvento. E, soprattutto, occorre porre come primo imperativo, antidoto d'ogni atteggiamento rinunciatario, quello di cercare di capire.
Per chi avverte nel proprio animo la spinta ad aiutare altre persone, un problema urgente, e spesso delicato e impegnativo, concerne il come farlo.
Quando, nella concretezza delle proprie esistenze, si tocca questo tasto, si comprende senza difficoltà che le buoni intenzioni tante volte non bastano. Ciò vale sia per la dimensione individuale sia per quella collettiva. Di frequente si è costretti a registrare impreviste ricadute negative delle azioni intraprese. Più volte, per scongiurare siffatti esiti, si ricorre a esperti del «come». In questi ambiti acquistano sempre più spazio le competenze tecnico-professionali.
A essere chiamata in causa è praticamente tutta la sfera delle scienze umane colte nel loro versante pratico. Economisti, sociologi, psicoanalisti, psicologi, pedagogisti, consulenti familiari sono le prime, ma non le sole, esemplificazioni che balzano alla mente. Anche sul versante spirituale, per affrontare simili snodi, ci si rivolge a determinate competenze, dalle più tradizionali, come il prete o il confessore, a quelle ispirate ad altre tradizioni religiose, parareligiose o sapienziali. In questi casi il bisogno di aiutare gli altri si intreccia, non raramente, con il sostegno che si cerca per se stessi.
Gli esiti non sono assicurati, a volte si fanno progressi, altre volte si patiscono invece delusioni tanto cocenti da far sì che il fallimento del «come» conduca fino a mettere in discussione il «perché» occorra impegnarsi. La frase colloquiale che suggella questo esito è: «Non c'è più nulla da fare».
L'esperienza attuale ci dice che la serietà della questione del «come» non deve far trascurare il problema del «perché». Non va infatti dato per scontato che prestare aiuto sia una caratteristica tipica della condizione umana. Essa non è presente in ogni circostanza nell'animo di tutti. Risulta quindi urgente trovare risposte alla radicale domanda: «Perché mai dobbiamo aiutare gli altri?».
In realtà, andare alla ricerca di solidi fondamenti per risolvere la questione significherebbe affrontare l'intera sfera della ricerca etica, un compito che va ben al di là della serie di riflessioni qui proposte. Senza alcuna pretesa di conseguire la completezza, ci si limiterà perciò ad avanzare alcune delle molte motivazioni che spingono ad aiutare gli altri.
Secondo una prima approssimazione è dato individuare cinque motivazioni di fondo che inducono a prestare aiuto agli altri. Le elenchiamo senza introdurre alcun ordine gerarchico. Va comunque precisato che esse, pur non escludendo l'aspetto collettivo, tengono soprattutto conto della componente individuale: occorre aiutare gli altri perché conviene; per un moto di compassione o solidarietà presente nell'animo umano; perché è comandato; per la radicale e comune non-autosufficienza della condizione umana; per non espandere il male presente nel mondo.
Al pari di ogni altra schematizzazione, anche quella qui proposta è in parte fallace; essa tende infatti a introdurre confini netti là dove, non di rado, ci sono incroci e sovrapposizioni.
II «proprio interesse»
Vi è un primo modo di declinare il problema che potremmo definire, in senso lato, economico e un secondo classificabile come relazionale (e in questo senso prossimo all'etimo della parola: «con-venire»).
Nell'ambito economico non è dato, per definizione, di prescindere dall'utile. La via da perseguire è mostrare concretamente che il conseguimento del proprio vantaggio implica l'incremento anche di quello altrui. Le formulazioni più tipiche di questo principio si ritrovano nell'ambito dell'economia politica classica. Scrive Antonio Genovesi: «Fatigate per il vostro interesse, niuno uomo potrebbe operare altrimenti che per la sua felicità, sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l'altrui miseria e, se potete e quando potete, studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse tanto più, purché non si sia pazzi, si debb'esser virtuosi. È legge dell'universo che non si può far la nostra felicità senza fare quella altrui».[1]
Nell'ambito dell'economia il primo fattore che muove a operare è la «propria felicità», il «proprio interesse», il «proprio profitto», il «proprio guadagno». Non può essere che così. La questione è far sì che il proprio tornaconto sia nelle condizioni di procurare vantaggi anche agli altri. L'economia liberale classica era fiduciosa che, per logica interna, nella sfera della produzione e dello scambio non vigesse la regola dell'homo homini lupus.
Secondo un celebre detto di Adam Smith: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione che essi hanno per il loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo e ad essi parliamo dei loro vantaggi e non delle nostre necessità»;[2] ma facendo i loro interessi i fornitori fanno anche quelli degli acquirenti e viceversa.
Nei due secoli successivi l'ottimistica fiducia tipica della visione economica liberale è largamente saltata; tuttavia resta fermo il fatto che l'ambito economico non è retto dal puro altruismo. Ovviamente è ben possibile, anzi doveroso, porre in discussione la logica liberale pura. È dato impegnarsi per un'«economia civile» e ancor più radicalmente per un'«economia di comunione» [3] ma, «per la contraddizion che nol consente», non è lecito, in campo economico, parlare in termini di pura gratuità e generosità e di assenza di ogni utile, e ciò proprio a motivo del conseguimento di un comune vantaggio.
Tenendo conto di quanto si è appena detto, nasce l'interrogativo del perché spesso non ci si conformi alla legge universale in base alla quale non è dato raggiungere la propria felicità senza fare anche quella altrui. In simili circostanze, argomentare a favore del vantaggio reciproco risulta l'operazione più efficace.
Scrisse David Hume: «Il tuo grano è maturo oggi il mio lo sarà domani. Sarebbe utile per entrambi se io oggi lavorassi per te e tu domani dessi una mano a me. Ma io non provo alcun particolare sentimento di benevolenza nei tuoi confronti e so che neppure tu lo provi per me. Perciò io oggi non lavorerò per te perché non ho alcuna garanzia che tu domani mostrerai gratitudine nei miei confronti. Così ti lascio lavorare da solo oggi e tu ti comporterai allo stesso modo domani. Ma sopravviene il maltempo e così entrambi finiamo per perdere i nostri raccolti per mancanza di fiducia reciproca e di garanzie».[4]
Anche in questo caso l'aiuto dovrebbe avvenire non a motivo di una reciproca benevolenza ma a causa di una palese convenienza. In definitiva, pure se il vicino mi è antipatico traggo vantaggio dall'aiutarlo.
Sono felice se tu sei felice
Intensificando la dimensione dell'utile si può giungere alla posizione espressa nel detto corrente (ma forse oggi un po' meno frequente di ieri): «Fare del bene ti fa bene». Visione attualmente proposta in forma molto schietta da studiosi come la statunitense Barbara Lee Fredrickson (esponente di punta della «psicologia positiva»), secondo la quale essere altruisti rafforza i legami sociali e costruisce la capacità di esprimere amore e sollecitudine, in tal modo la reciproca influenza tra benessere individuale e collettivo consente di raggiungere la felicità e una soddisfazione autentica. Quando aiutiamo gli altri si è felici perché si sperimentano di continuo buone sensazioni fisiche e spirituali.[5]
Con maggiore spessore culturale, un orientamento simile era già stato proposto nel XIX secolo da John Stuart Mill: «Sono felici solamente quelli che si pongono obiettivi diversi dalla loro felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell'umanità, perfino qualche arte, o occupazione perseguiti non come mezzi ma come fini ideali in se stessi. Aspirando in tal modo a qualche altra cosa trovano la felicità lungo la strada».[6]
Qui il discorso si raffina, si presuppone infatti che la rinuncia cosciente al conseguimento diretto della propria felicità sia la via migliore per raggiungerla. L'orizzonte rimane comunque quello espresso dalla «regola aurea» dell'utilitarismo stando alla quale il bene coincide con la massima felicità del maggior numero di persone possibili.
Il punto debole della prospettiva sta nel fatto che l'istanza, per realizzarsi appieno, implicherebbe la presenza di una sostanziale parità tra le componenti di una società contraddistinta nella realtà da forti disuguaglianze.
Per conseguire un'utilità comune occorre articolare in modo positivo i rapporti tra uguaglianza e diversità. Tuttavia, se l'utile diviene egemonico, risulta quasi inevitabile che il trattamento riservato alle componenti più deboli della società perda,di consistenza.
La prospettiva emergeva con chiarezza già nei «sacri principi» dell'89. Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino recita: «Gli uomini nascono e rimangono uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull'utilità comune». Da questa frase è obbligo concludere che l'utile sociale è legato a filo doppio alla disuguaglianza.
Nonostante la loro ispirazione liberale, alle spalle della sfera dei diritti elaborata nel corso della Rivoluzione francese continuava a stagliarsi l'ombra lunga dell'apologo organicistico attribuito a Menenio Agrippa: la società è come un corpo, ogni membro ha una funzione differente da quella degli altri; alcuni sono però indispensabili, altri non strettamente necessari: si può vivere senza una mano, ma non senza cuore o polmoni.
Rispetto al corpo l'unico ambito in cui è dato parlare a pieno titolo di uguaglianza è il fatto che tutte le membra fanno parte di esso. In senso stretto non esisterebbero perciò diritti individuali: è il corpo nel suo insieme che fa sì che tu sia o piede o mano o testa. Per questa ragione il modello antico non è riproponibile alla lettera, esso infatti, nella moderna visione liberale, viene sottoposto a profonda revisione riconducibile a questi termini: ognuno è titolare di diritti e le diversità si giustificano solo in base all'utilità comune. Quest'ultima però rischia di diventare semplicemente l'espressione delle componenti più forti della società che tendono a prendersi cura degli altri soltanto nella misura in cui questa prassi collima con lo sviluppo dei propri interessi.
Tutti nella stessa barca: ovvero le relazioni
L'espressione colloquiale per indicare questa posizione sta nell'affermare: «Siamo tutti nella stessa barca». Nella sua forma più alta il senso della relazione si esprime nel detto secondo cui aiutando gli altri aiuti te stesso e viceversa. In termini complessivi l'elaborazione di questo principio evidenzia che relazione e alterità sono tra loro inversamente proporzionali.
L'«altro» non è una persona che si presenta all'inizio come separata per essere ricondotta progressivamente alla sfera della relazione: fin da principio nessuno è semplicemente un estraneo. Il culmine di questa visione è raggiunto nelle culture che presentano la relazione come il tessuto costitutivo della realtà. Tra esse, per quanto riguarda il risvolto etico, le elaborazioni più pregnanti si trovano nel buddhismo.
A partire da una concezione della realtà relazionale un antico detto sostiene che: «badando a se stessi si bada agli altri; badando agli altri si bada a se stessi (...) E come badando agli altri si bada a se stessi? Con la tolleranza, la non-violenza, l'amicizia, l'indulgenza» (Samyuttanikaya).[7]
Qui il modo di dire «ti fa bene fare del bene» acquista una tale profondità da essere sradicato dal terreno dell'utile per venir direttamente ripiantato in quello ontologico-relazionale (dato e non concesso che il termine «ontologia» sia applicabile al buddhismo). Nella Samyuttanikaya la coincidenza tra il prendersi cura degli altri e di se stessi è esemplificata attraverso l'immagine suggestiva degli acrobati che, allorché formano una piramide umana, si trovano oggettivamente nelle condizioni di far coincidere la propria tutela con quella degli altri e viceversa.
Il detto proverbiale che allude alla barca ha sullo sfondo l'idea, più o meno accentuata, del pericolo: ad accomunarci è la presenza di una minaccia collettiva. Nell'immagine della piramide umana l'idea di un possibile crollo non è evidentemente assente, tuttavia essa non è neppure costitutiva. In questo caso il ruolo decisivo spetta alla relazione. Per costituire un'unica struttura tutti gli acrobati, fin dal principio, si trovano in un rapporto reciproco. Nell'immagine corrente, la barca è un contenitore (fuor di metafora, una situazione accomunante), nel caso della piramide umana invece sono le relazioni stesse a costituire l'insieme. Gli acrobati, quindi, simboleggiano la condizione umana in quanto tale e non già una particolare situazione in cui ci si viene a trovare.
«Rispetto per la vita»
Nella civiltà occidentale sono stati elaborati vari modi per affrontare il tema delle relazioni. Da esse, di solito, non derivano però in modo diretto comportamenti etici rivolti a prestare un aiuto sia agli altri sia a se stessi. Un'esemplificazione particolarmente significativa di questa prospettiva avviene se si guarda all'approccio evolutivo assunto in senso biologico.
Anche prescindendo dal riferirsi a questa o a quest'altra teoria, è dato concludere che tutte le visioni evolutive individuano un legame molto stretto tra i viventi, cosicché di fronte a ciascuno di loro è obbligo concludere che se non ci fosse lui non ci saremmo neppure noi.
Tuttavia questa constatazione descrittiva di per sé non consente di trarre conclusioni etiche univoche: tra XIX e XX secolo si affacciarono sulla scena sia il darwinismo sociale che trasferiva nelle società umane il criterio della struggle for the life, sia visioni che coniugavano in senso positivo e comprensivo l'etica della vita. Tra esse la più celebre è probabilmente quella intuita da Albert Schweitzer nel corso di uno dei suoi soggiorni africani.
«Risalivamo lentamente il fiume (...) cercando con fatica – era la stagione secca – i canali in mezzo ai banchi di sabbia. Immerso in profonda meditazione sedevo sul ponte della barca, sforzandomi di arrivare al concetto elementare e universale di etica, che non ero riuscito a trovare in nessuna filosofia. (...) Poi il terzo giorno, al tramonto, proprio nel momento in cui ci stavamo facendo strada tra una mandria di ippopotami, balenò nella mia mente, quando meno me lo aspettavo, la frase: "Rispetto per la vita". Il cancello di ferro aveva ceduto; si poteva vedere il sentiero del bosco. Ecco che avevo trovato il modo per arrivare al concetto in cui sono contenute insieme l'affermazione del mondo e della vita e l'etica. Ora sapevo che l'affermazione etica del mondo e della vita, come pure gli ideali di civiltà, sono fondati nel pensiero».[8]
Il discorso di Schweitzer non è rivolto in modo diretto all'aiuto da offrire agli altri; tuttavia è evidente che il fatto stesso che questi pensieri siano stati per così dire innescati dalla vista di una mandria di ippopotami attesta che il legame tra tutti i viventi è qui assunto come un vero e proprio fondamento; dal canto suo il rispetto della vita, lungi dall'essere inteso come un passivo non intervento, obbliga a fornire un aiuto attivo tutte le volte che ce n'è bisogno.
Compassione e saggezza
«Umana cosa è l'aver compassione agli afflitti» si legge nella prima riga del Decameron. Nell'animo umano compare a volte un forte senso di compassione o di human sympathy nei confronti degli altri. Per quanto in italiano i due termini di «compassione» e «simpatia» abbiano assunto significati fortemente diversi, il loro etimo è, rispettivamente in base al latino e al greco, lo stesso. Esso indica un far proprio il patire e il sentire (nel senso di pathos) altrui.
L'espressione inglese human sympathy si conforma appunto a questo atteggiamento di com-passione attiva. Un problema a questo riguardo è se si tratti di un moto che balena all'improvviso dentro di noi o se, al contrario, sia una presenza costante.
Il buddhismo e il ruolo in esso affidato alla karuna ci prospettano una visione complessiva in cui misericordia, compassione, pietà ed empatia (per cercare una serie di termini che tendono a esprimere i sensi contenuti nel termine karuna) vanno congiunte in modo integrale con la prajna («saggezza»). Non si dà saggezza senza compassione e viceversa.
Ciò fa sì che karuna abbia un carattere universale che trova una qualche corrispondenza in noi tutte le volte in cui proviamo una grande, profonda compassione per la condizione umana in quanto tale (e quindi anche per noi stessi). Ciò non comporta affatto astenersi dall'azione; tuttavia essa è una dimensione profondamente diversa rispetto al moto improvviso che a volte ci spinge a soccorrere gli altri.
Nella maggior parte dei casi questo stato d'animo non dipende da una visione complessiva della realtà, esso scaturisce da sé di fronte a situazioni specifiche. Anche nella Bibbia non mancano episodi che si rifanno a questa dinamica. Per esemplificarla ci limitiamo a solo quattro esempi nei quali il senso di compassione, innescato da un precedente atto di vedere, conduce all'azione.
Iniziamo da un episodio antico, quello in cui la figlia del faraone salva il piccolo Mosè chiuso in un cestino che galleggia tra i canneti del Nilo.[9] Il libro dell'Esodo in questa scena riserva un ruolo decisivo al sentimento umano. La figlia del faraone vede il cestello fra i giunchi e manda la sua schiava a prenderlo. Vi è un primo atto legato al vedere, probabilmente dovuto solo a un moto di curiosità.
Subito dopo si muta però registro: «L'aprì e vide il bambino: eccolo, il piccolo piangeva. Ne ebbe compassione e disse: "È un bambino degli ebrei"» (Es 2,6; trad CEI 2008). In effetti il verbo ebraico impiegato in questa occasione (chamal) andrebbe reso meglio con «si commosse». Il pianto della piccola creatura induce alla commozione l'animo adulto. Non si trattò di un puro sentimento passeggero, quel sentimento condusse infatti a prendersi cura di un bambino appartenente a un gruppo perseguitato. Il pianto infantile suscita una risposta attiva.
La successione tra vedere e aver compassione (verbo splagchnizomai, che allude alla componente «viscerale» presente nel linguaggio biblico) compare anche in tre brani presenti solo nel Vangelo di Luca. Il primo è legato a un miracolo. Gesù sta per entrare a Nain. Presso la porta della città scorge un corteo funebre che accompagnava al sepolcro il figlio unico di una madre vedova: «Vedendola il Signore fu preso da grande compassione (esplagchisthe) per lei e le disse: "Non piangere"» (Lc 7,13).
Compassione e commozione muovono Gesù all'azione e lo inducono a richiamare in vita il fanciullo. In questa circostanza il Signore agisce in virtù di un moto interno; nessuno gli rivolse una richiesta, né la vedova compì alcun atto di fede in Gesù. L'azione misericordiosa è unilaterale, essa manifesta una profonda asimmetria tra chi è nelle condizioni di aiutare e chi può essere solo aiutato e qui non si tratta del defunto che, evidentemente, si trovava già in un «mondo altro», quanto di sua madre; è di lei che il Signore ebbe compassione.
Un discorso per più versi analogo è applicabile anche alla parabola del padre misericordioso. Il figlio minore dopo aver dissipato l'eredità torna verso casa. In tutto il tempo del suo smarrimento il padre non l'aveva fatto cercare. Sulla via del ritorno, «quando era ancora lontano suo padre lo vide, ebbe compassione (esplagchisthe), gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
In alcuni commenti si immagina il padre collocato sulla terrazza nell'atto di scrutare senza posa l'orizzonte lontano. Non è necessario ipotizzarlo. Il vedere può essere stato anche improvviso. Il gesto misericordioso di correre incontro al figlio perduto al fine di ritrovarlo nell'abbraccio e nel bacio non era programmato, scaturisce repentino dalla visione.
La prossimità: frutto di una relazione
L'ultimo esempio è forse il più significativo nel caso in cui si confronti il punto d'arrivo con quello di partenza. Si tratta della parabola del buon samaritano (Lc 10, 29-36). Di essa conviene sottolineare un aspetto particolare. Il discorso prende avvio da una discussione sui due precetti dell'amore di Dio e del prossimo (Dt 6,4-5; Lv 19,18); rispetto a quest'ultimo comandamento, la parabola estende l'orizzonte mettendo al centro la figura di un uomo (anthropos) che scendeva da Gerusalemme a Gerico.
Egli non è qualificato in nessun altro modo che in virtù del proprio bisogno. Le componenti identitarie sono presenti dalla parte di coloro che sono chiamati a prestar aiuto (sacerdote, levita, samaritano), non da quella di chi giace mezzo morto ai bordi della strada: egli è semplicemente un uomo.
Il sacerdote, il levita e il samaritano sono nelle condizioni di decidere se diventare prossimo allo sventurato; di contro, al ferito non è dato di scegliere nulla. Per lui chi lo soccorre diviene il suo prossimo, mentre gli altri restano degli estranei. Alla fine della parabola Gesù domanda: «"Chi di questi tre ti sembra che sia stato prossimo a colui che è caduto nelle mani dei briganti?". Quello rispose: "Colui che gli ha fatto misericordia (eleos)"» (Luca 10,36-37).
In questo caso, perciò, occorre affermare non tanto che ogni persona umana è mio prossimo quanto che ognuno può diventarlo se agisco nei suoi confronti all'insegna di una fattiva misericordia. La prossimità è il frutto di una relazione che trasforma l'estraneo in vicino.
Vi è però un aspetto legato all'universalità della motivazione che spinge ad agire. La discussione parte dal precetto e ne esemplifica la portata chiamando in causa un modo di prestare aiuto che non si misura affatto con il comandamento. Data l'ambientazione, bisogna presupporre la conoscenza del precetto del Levitico anche da parte del samaritano (il Pentateuco faceva parte pure della sua tradizione religiosa); tuttavia, egli agisce a motivo dell'estroversione delle proprie viscere e non già per mettere in pratica il comandamento.
Il suo aiuto è mosso da questa motivazione: «Passandogli accanto vide e ne ebbe misericordia (esplagchisthe)» (Lc 10,33). All'universalità del soggetto a cui ci si rivolge («un uomo») corrisponde quella del motivo che induce a operare. Si parte discutendo di un precetto biblico, ma si agisce sospinti da un moto di compassione commossa potenzialmente presente nell'animo di tutti, ma fu solo il samaritano a darvi ascolto.[10]
Rispetto all'uomo privo di identità che giace lungo la strada quanto è richiesto è di passare da un'iniziale estraneità alla costruzione di una prossimità frutto dell'ascolto di viscere estroflesse. Ogni essere umano da estraneo può diventare mio prossimo se segue la voce del frammento di misericordia presente in lui; quanto è decisivo è darvi ascolto e non «passar oltre» come il sacerdote e il levita.[11] Qualcosa di simile successe, per esempio, anche a Henri Dunant quando, nel 1859, arrivò sul campo di battaglia di Solferino.
Di fronte allo spettacolo orrendo – visto non solo da lui ma anche da molti altri – dei feriti abbandonati agonizzanti sul campo, gli sorse l'idea di creare la Croce rossa.[12] Cosa lo spinse a fondare un'organizzazione destinata a occuparsi di tutti i feriti sui campi di battaglia e altrove? Se volessimo impiegare l'immagine evangelica, la risposta sarebbe: egli, a differenza di altri, diede ascolto alla voce delle proprie viscere. Ciò gli consentì di emergere dalla comune indifferenza che attanaglia i più.
«Io sono il Signore Dio tuo»
Nelle considerazioni ora proposte dedicate alla parabola del samaritano, si è evidenziato il passaggio da una discussione legata a un comandamento a un'azione innescata da una compassione commossa. Ora è opportuno compiere il cammino inverso e considerare l'esistenza di un comportamento comandato. Quando si prende in considerazione quest'ambito sorge subito il problema dell'autorità legittimata a comandare.
Per ricorrere a categorie consuete, essa può essere religiosa o civile. Tutti e due gli ambiti sono ricchi di varianti. Nelle nostre considerazioni esemplificative ci concentreremo da un lato su alcuni precetti biblici (senza prendere in considerazione i loro sviluppi presenti nella tradizione ecclesiale) e dall'altro sui contenuti di alcuni articoli costituzionali o legati ai diritti umani (senza occuparsi di leggi positive).
Scegliamo il punto di partenza per molti versi più ovvio; scavando in esso troveremo però aspetti meno scontati, fermo restando che, sul piano della prassi, anche il brano biblico di partenza è già in se stesso assai impegnativo: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,18); «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra non lo opprimerete. Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Lv 19,33-34). In entrambi i casi, la frase è conclusa con un riferimento al Signore posto a fondamento del precetto: non ci sono dubbi sull'autorità a cui spetta di comandare.
«Lo amerai come te stesso (`ahavta lo kamokha)» qui (come in Lv 19,18 in relazione al prossimo) il verbo `ahav, «amare», regge il dativo e non già, come di consueto, l'accusativo. Una traduzione che volesse mantenere la costruzione ebraica potrebbe optare per un «porta amore a...».
Questa resa chiarirebbe che si tratta di una dimensione operativa – la si può comandare appunto per questo motivo – e non già di un appello ai sentimenti. Il suo senso è dunque il seguente: agisci in modo amorevole nei confronti dello straniero.[13] Il comandamento ti ordina di fare a prescindere dal tuo stato d'animo nei confronti della persona che sei chiamato ad amare e aiutare.
Qui non entra in gioco alcuna compassione commossa, si è semplicemente tenuti ad agire in quel modo in ragione dell'imperatività del precetto rivelato dal Signore. Così nella forma presente nel testo biblico. In ogni caso l'appello a un principio fondativo trascendente smorza il ruolo affidato alla soggettività.
La dinamica risulta con particolare evidenza nel caso del comandamento rivolto a favore del nemico. All'inizio del percorso non c'è alcuna istanza riconciliativa, non si ordina di trasformare il sentimento d'avversione in amicizia, semplicemente si comanda un'azione benefica nei riguardi di chi ci è avverso: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico e il suo asino dispersi glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso; mettiti con lui a scioglierlo dal carico» (Es 23,4-5; trad. CEI 2008).
La seconda parte della traduzione non appare corretta allorché introduce un «non» (assente in ebraico) che regge un comando («non abbandonarlo a se stesso»). Si tratta peraltro di una resa frequente di un passo oggettivamente difficile da tradurre. E importante precisare sia che «nemico» andrebbe reso, alla lettera, con «colui che ti odia» sia individuare la presenza del comando solo nella parte conclusiva della frase (alla lettera «sciogli, sciogli con lui»); la proposizione precedente esprime invece la scelta iniziale, opposta al soccorso, compiuta da colui che vede la bestia a terra.
La frase andrebbe resa su per giù così: «Quando vedi l'asino di colui che ti odia accasciarsi sotto il carico e desisti dal scioglierlo [asino]» proprio allora «sciogli, sciogli con lui [colui che ti odia]».[14]
In conclusione, ci sono due stati d'animo soggettivi di partenza: da una parte l'odio nei tuoi confronti e dall'altro la tendenza a non prestare aiuto; il comando s'innesta in questo plesso di stati d'animo e ordina un'azione positiva a favore di chi prova avversione nei tuoi confronti.
«In spirito di fraternità»
L'oggettività del comando che scavalca gli stati d'animo è ardua da mettere in pratica. Ciò è confermato indirettamente anche dalla Bibbia che in un passo parallelo (Dt 22,1-4) applica al fratello quanto il libro dell'Esodo riferiva al nemico. Nel Vangelo si torna a parlare di nemici. Molti fattori inducono a ritenere che l'amore evocato nei loro confronti debba collocarsi ancora sul piano operativo; bisogna cioè compiere azioni positive nei loro riguardi al fine di non essere presi nella spirale dell'avversione e del rancore.
Il modello citato, quello del Padre celeste, che fa sorgere il suo sole e fa piovere su buoni e cattivi, su giusti e ingiusti, è anch'esso operativo (Mt 5,43-48). Il Padre agisce a favore di tutti, senza che ciò annulli le qualifiche antietiche riservate agli esseri umani. In termini più orientati verso una futura discriminazione, il pensiero torna anche nella Lettera ai romani: «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina (...) Al contrario "se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo" (Pr 25,21-22). Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,19-21).
Quando il comando è basato su un'autorità la sua efficacia dipende in larga misura da quanto essa sia riconosciuta. Se la fede in Dio illanguidisce, l'appello all'autorità divina perde efficacia. Lo stesso vale a maggior ragione se non si accredita più al potere divino la capacità di punire. Peraltro la presenza o l'assenza di una componente coercitiva ha una funzione rilevante anche in campo civile.
Per illustrare quest'ambito sono sufficienti pochi riferimenti. Dato l'attuale contesto politico e sociale del nostro paese, il primo esempio da proporre è quasi obbligatoriamente il principio di solidarietà presente nella Costituzione: «La Repubblica richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2).
Il principio costituzionale è, per definizione, generale e la sua realizzazione è affidata a leggi positive garantite anche dalla presenza di una componente sanzionatoria. Lo scenario diviene perciò più decisamente connotato o dal rispetto o dalla violazione. Rimane il fatto che anche in sede puramente costituzionale ci si muove nell'orizzonte di un'imperatività basata sull'autorità.
Considerazioni in gran parte simili alle precedenti valgano per la Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata a Parigi il 10 dicembre 1948. Il suo primo articolo recita: «Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità». A distanza di oltre un secolo e mezzo, e avendo alle spalle due guerre mondiali, le parole ora citate rievocano i diritti cardine della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità.
Li dispongono però in una successione diversa: due sono collocati sulla tavola dei diritti, uno su quella dei doveri. È una differenza significativa. La fraternità non è un dato di partenza indiscutibile. Non ogni essere umano è mio fratello, ma ogni persona può diventare fratello o sorella se ci si relaziona reciprocamente «in spirito di fraternità». È una dinamica che richiama quanto avviene nel caso dell'amicizia: l'essere amici è una conquista comune.
La più condivisa formulazione dei diritti umani si apre prospettando l'esistenza di un'obbligazione. Libertà e uguaglianza sono situate sì nella sfera dei diritti, ma sono anche collegate a un termine, «dignità», reso necessario dall'avere assistito, nel corso della prima metà del Novecento, a forme senza precedenti di degradazione attuate dall'uomo nei confronti dei propri simili.
L'obbligazione si fonda sulla coscienza, parola innovativa rispetto alle precedenti dichiarazioni dei diritti. Come indicano i dibattiti svoltisi in sede ONU in vista della stesura del documento, qui per coscienza non s'intende la voce interiore che rende manifesta l'esistenza di una legge divina; il termine attesta piuttosto la presenza nelle persone di un «sentimento che altri uomini esistono».[15]
Il dare ascolto all'apertura antropologica verso l'altro dovrebbe portare ad agire in spirito di fratellanza. Accanto alla ragione è quindi chiamato in causa il sentimento, il quale, però, lungi dall'indossare i panni molli della spontaneità, è rivestito da quelli più degni e impegnativi dell'obbligazione. Il principio perciò è enunciato perché la sua stessa formulazione spinga ad agire in un determinato modo. Anche qui dunque si apre l'alternativa legata al rispetto o alla violazione.
La radicale-comune povertà
Ogni essere vivente che viene alla luce non ha scelto di nascere. L'affermazione non patisce smentita. Essa resta salda tanto nel caso di un concepimento naturale quanto di uno conseguito attraverso metodi più o meno accentuatamente artificiali. La nascita precede ogni volizione del soggetto. Questa radicale dipendenza ontologica si prolunga nel fatto che al momento della sua uscita dall'utero materno (per limitarci alla sfera dei mammiferi) ogni essere vivente è radicalmente non autosufficiente.
Il venir abbandonato a se stesso comporterebbe una sicura morte. L'aiutare gli altri è dunque componente costitutiva dell'esistenza di ciascuno. Ognuno, guardando a se stesso, è obbligato a concludere che se è tuttora in vita lo deve al fatto di essere stato aiutato. Soccorrere gli altri è quindi definibile come una specie di «regola d'oro» affermativa («Tutto quello che gli uomini volete facciano a voi, anche voi fatelo a loro» Mt 7,12) radicata nell'esistenza stessa. Dato e non concesso che si possa trascrivere liberamente in questi termini, il detto evangelico che ammonisce di ritornare come bambini (Mt 18,1-4) comporta la riconquista della struttura base dell'esistenza che pone al centro la relazione di aiuto.
La radicale comune povertà della condizione umana è la fonte primaria della solidarietà tra le creature. Papa Francesco, nella prefazione al libro del card. G.L. Mulller Povera per i poveri, scrive: «Non possiamo però dimenticare che non esistono solo le povertà legate all'economia. È lo stesso Gesù a ricordarcelo, ammonendoci che la nostra vita non dipende solo "dai nostri beni" (cf. Lc 12,15).
Originariamente l'uomo è povero, è bisognoso e indigente. Quando nasciamo, per vivere abbiamo bisogno delle cure dei nostri genitori, e così in ogni epoca e tappa della vita ciascuno di noi non riuscirà mai a liberarsi totalmente del bisogno e dell'aiuto altrui, non riuscirà mai a strappare da sé il limite dell'impotenza davanti a qualcuno o qualcosa. Anche questa è una condizione che caratterizza il nostro essere "creature": non ci siamo fatti da noi stessi e da soli non possiamo darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il leale riconoscimento di questa verità ci invita a rimanere umili e a praticare con coraggio la solidarietà, come una virtù indispensabile allo stesso vivere».[16]
Sostenere che gli esseri umani nascono liberi e uguali è una visione astratta o, se si vuole, un'affermazione di principio. Quando si viene alla luce non si è infatti né liberi, né uguali. Nella concretezza dell'esistenza è invece affermabile quanto le dichiarazioni dei diritti e dei doveri di solito non esplicitano: tutti gli esseri umani nascono bisognosi di essere aiutati, perciò l'obbligo di prestarsi reciprocamente aiuto è legge primaria della convivenza umana.
Non dare al male l'ultima parola
Guardando alle esistenze individuali, a quella collettiva, o, ancora più ampiamente, alla storia umana nel suo insieme, non sono pochi coloro che concludono che il tasso di male presente nel mondo è tale e tanto da non poter essere in alcun modo sanato. Si tratta della categoria di persone colloquialmente etichettate come pessimiste. Se portata all'eccesso, la loro posizione si riveste dei panni di una sfiducia radicale negli esseri umani che porta all'inazione propria di chi dichiara che ormai non c'è più nulla da fare.
In realtà, la conclusione, apparentemente coerente e lineare, è ingannevole e contraddittoria. Lo è nella misura in cui toglie al male le stimmate dell'inaccettabilità. Se il negativo entra nell'ambito delle cose che ineluttabilmente capitano, esso diviene, di fatto, normalizzato. In tal caso perde mordente la più concreta definizione di male che lo qualifica come una realtà che è ma che non dovrebbe essere.
«Una realtà che è» è una constatazione, il «non dovrebbe essere» è un giudizio di valore che spinge a prestare aiuto all'altro anche se si è consapevoli tanto della parzialità delle proprie azioni quanto della vastità umanamente irrimediabile del male presente nel mondo. Se collocata nell'ambito che le compete, è proprio l'inaccettabilità del male a ingenerare un senso di solidarietà con chi dal male è colpito.
Per ricorrere a un'espressione alquanto semplificata, si potrebbe sostenere che l'autentico pessimista è una persona attiva ma non soddisfatta. Egli non fa il bene perché gli fa bene, vale a dire non lo compie per sentirsi meglio; al contrario lo attua nella consapevolezza dell'insufficienza del proprio intervento. Se è persona di fede coniugherà questo suo agire con la fiducia (invero spesso messa alla prova) che la salvezza è da Dio e non dagli uomini.
Nei confronti di quell'«altro» costituito dalla terra, questa posizione è stata ben espressa in una dichiarazione di intenti di uno dei padri della coltivazione biologica in Italia, l'uomo di fede Gino Girolomoni: «Io non penso che l'agricoltura biologica salverà il mondo, ma la pratico per non stare dalla parte di chi il mondo lo distrugge».[17]
La scelta di fondo è esattamente quella di non stare dalla parte di chi compie il male; ciò comporta che nel frammento che ci compete ci si senta chiamati a curare le ferite di chi è colpito dal negativo, un atteggiamento che riguarda le persone, gli animali, la terra e le cose, e i prodotti artistici. Nel caso dei manufatti quest'atto rientra sotto la categoria del restauro, mentre quando si tratta di persone il conseguimento più alto è espresso dal termine «consolazione», un atto che non annulla quanto è stato, ma che si impegna a far sì che al negativo non spetti l'ultima parola.
Perché aiutare è difficile
Riprendiamo in conclusione l'argomento da cui siamo partiti. Il peso del «come» è grande. Per essere in grado d'aiutare gli altri occorre avere profondità spirituale, qualità etiche, senso dell'empatia, competenze politiche, sociologiche, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, tecniche e godere, molto spesso, di adeguate risorse economiche.
In società complesse e in un mondo globalizzato l'insieme dei fattori prima elencati viene chiamato sempre più in causa anche nel caso di semplici rapporti interpersonali. Basti pensare al ruolo riservato alla conoscenza delle leggi e delle procedure burocratiche spesso ignote ai più deboli, oppure alla profonda situazione di disagio che colpisce persone sprovviste di determinate abilità (il ruolo un tempo svolto dal non saper leggere e scrivere trova oggi un parallelo nell'essere privi di abilità informatiche ormai necessarie per lo svolgimento di moltissime pratiche amministrative e finanziarie).
Assunta nel suo complesso la sfera del «come» mina sempre più l'immediatezza dell'aiuto diretto a favore degli altri. Per sapere non basta volere. Non stupisce perciò che in più casi si asserisca che l'aiuto maggiore che si può dare è quello di fare un passo indietro e di lasciar fare a chi ha le competenze adeguate.
È solo apparentemente banale dichiarare che oggi la prima azione che il samaritano avrebbe compiuto lungo la strada che da Gerusalemme scende a Gerico sarebbe stata quella di chiamare il 118! Si tratta di atto tanto efficace quanto dotato di scarso coinvolgimento personale che probabilmente anche il sacerdote e il levita avrebbero compiuto. Va da sé che non è proponibile prescindere dalla sfera delle competenze, ma è altrettanto certo che esse tendono, più o meno sottilmente, a far impallidire l'ambito che spetta al coinvolgimento etico personale e a rendere sempre più raro l'incontro profondo tra le persone basato sulla componente spirituale.[18]
Su tutte le motivazioni da noi prese in considerazione pesano delle controindicazioni. La dimensione economica legata all'utile e al vantaggioso è esposta all'incertezza della previsione. Ogni investimento, anche nel senso lato del termine, si proietta nel futuro e quindi ha a che fare con un ambito per definizione incerto.
Anche quando ci si muove sul piano dell'aiuto bisogna tener conto che alcune azioni sono soggette a mutamenti di segno in ragione di avvenimenti imprevisti. In questo campo l'eterogenesi dei fini è più che mai all'ordine del giorno. Ogni progetto è esposto a un rischio non preso in considerazione. Rispetto alla compassione grava tanto il suo essere di frequente legata all'oscillazione degli stati d'animo in cui ci si trova quanto la difficoltà d'affrontare il peso della reiterazione: se il samaritano avesse percorso quotidianamente quella strada e tutte le volte avesse incontrato un uomo ferito non si sarebbe comportato nella maniera descritta dalla parabola.
L'esistenza di un comando va incontro a tutti i disagi legati a un'imperatività eteronoma che si presenta poco coinvolgente, se non è fatta interiormente propria, e fredda e distaccata se eseguita solo per il timore delle conseguenze derivate dalla trasgressione.
Il senso di povertà proprio della non autosufficienza umana è turbato dai momenti in cui gli individui, le società e le nazioni si sentono forti e destinati a dominare; ne consegue che per essi lo sfruttamento risulta una realtà ben più attestata dell'aiuto.
Cercare di capire
L'inaccettabilità del male è esposta al rischio di scivolare, a poco a poco, nella rassegnazione o ancor più precisamente nell'accidia, parola di uso ormai raro, ma imparentata con il termine frequentissimo d'indifferenza. Quanto la distingue da quest'ultima è soprattutto il fatto che l'indifferenza riguarda in genere gli altri, mentre l'accidia coinvolge anche se stessi.
Che nell'etimo di «accidia» l'«a» iniziale sia un alfa privativo appare scontato. L'attenzione va quindi riservata all'altra parte del sostantivo: alle sue spalle c'è kedos «cura», «sollecitudine», «pensiero» ma anche «affanno». L'accidia è l' alter ego cupo e spento della spensieratezza. C'è chi non si cura di sé e degli altri perché vive con leggerezza senza lasciarsi turbare né dal proprio domani, né dal doloroso oggi altrui.
Di contro, c'è chi vive alla giornata con spossata stanchezza perché la sua triste condizione gli appare un muro invalicabile privo di futuro; la sua indifferenza alla vita è un fuoco spento che nessun aiuto altrui può ormai riaccendere.
Più del malinconico, l'accidioso ha perduto il gusto della vita; per l'uno e per l'altro ciò è avvenuto senza un motivo preciso. Chi è preda dell'accidia è avvolto da una cupezza rancorosa contro tutto e tutti, a iniziare da se stesso. L'accidia è la declinazione in chiave morale di una depressione valutata all'insegna del vizio e non già della malattia. In ciò sta forse la ragione per la quale oggi la depressione riempie la scena, mentre l'accidia è rintanata dietro le quinte.
Un fattore che si presenta come un ostacolo, oggi forse il più rilevante, rispetto all'aiuto da prestare agli altri è costituito dalla paura. Stato d'animo complesso ma, nella sostanza, in larga misura riconducibile all'attesa, conscia o inconscia, di un danno che altri ci possono arrecare. In effetti ciò riguarda a volte anche noi stessi.
Abbiamo paura dei nostri sentimenti e dei nostri desideri, di quello che potremmo compiere, sperimentiamo la sensazione di non avere risorse sufficienti per affrontare l'ostacolo con cui ci si deve confrontare (banalmente: «Ho paura di non farcela») e così via. In relazione agli altri si paventa un danno che un'entità, di frequente non ben conosciuta, potrebbe arrecare a noi stessi, ai nostri cari, alle nostre risorse, ai nostri beni, al nostro stile di vita, alle nostre fonti di reddito, alla nostra tranquillità e via dicendo.
Anche questa volta l'area di riferimento può essere individuale, relativa a un gruppo ristretto o ampia fino a comprendere intere nazioni. Una delle condizioni indispensabili per aiutare gli altri perciò è di vincere la paura, operazione non semplice in quanto coinvolge nel profondo individui e collettività. Essa poi diviene ancora più ardua in un tempo come il nostro dominato dall'incertezza nei confronti del futuro.
In ogni caso una delle risorse più efficaci per contrastare la paura è vivere sulla scorta di quello che Hannah Arendt considerava il massimo imperativo etico: cercare di capire. Non basta, ma è comunque un passo in avanti di notevole spessore.
* L'articolo riprende e sviluppa i temi presentati in una conferenza tenuta presso la parrocchia San Camillo De Lellis di Chieti il 20.11.2018.
NOTE
1 A. GENOVESI, Autobiografia, lettere e altri scritti: Opere scelte, a cura di G. SAVARESE, Feltrinelli, Milano 1963, 449.
2 Cf. A. SMITH, The Theory of Moral Sentiments, A. Millar, in the Strand, and A. Kincaid and J. Bell, in Edinburgh, 1759 (trad. it. Teoria dei sentimenti morali, BUR, Milano 1995).'
3 Cf. L. BRUNI, S. ZAMAGNI, L'economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004.
4 D. HUME, A Treatise of human nature: being an attempt to introduce the experimental method of reasoning finto moral subjects, 3: Of morals, Thomas Longman, at the Ship, London 1740 (trad. it. Trattato sulla natura umana, introduzione, traduzione e note di P. GUGLIELMONI, Bompiani, Milano 2001).
Cf. B.L. FREDRICKSON, Positivity. Groundbreaking research reveals how to embrace the hidden strength of positive emotions, overcome negativity, and thrive, Crown, New York 2009.
6 J.S. Utilitarianism, Longman, Green, Longman, Roberts, and Green, Londra 1864 (trad. it L'utilitarismo, Sugarco, Milano 1992, qui 33).
7 Cf. P. STEFANI, «Religioni-società: lo spirito dei diritti», in Regno-att. 22,2005,735; V. TALAMO (a cura di), Samyuttanikaya. Discorsi a gruppi, Ubaldini, Roma 1998.
8 A. SCHWEITZER, Rispetto per la vita, Edizioni di Comunità, Milano 21965, 325.
9 P. STEFANI, «Il pianto di Mosè. È per rinascere che siamo nati», in Regno-att. 22,2018,693.
10 Forse può avere qualche significato constatare che il dottore della Legge, nella sua risposta conclusiva, usa eleos senza richiamarsi a splagchnizomai.
11 Cf. T. RADCLIFF'E, «Non passare oltre» in Non passare oltre. I cristiani e la vita pubblica in Italia e in Europa, EDB, Bologna 2003, 137.
12 Cf. F. GIAMPICCOLI, Henri Dunant. Il fondatore della Croce Rossa, Claudiana, Torino 2009.
13 Cf. P. STEFANI, «Ama l'immigrato. È come te stesso», in Regno-att. 10,2015,705.
14 Sia pure in un italiano involuto, il punto è stato colto dalla seicentesca traduzione italiana del Diodati: «Se tu vedi l'asino di colui che ti odia giacer sotto il suo carico, mentre tu ti rimani di aiutarlo a farglielo andare oltre, del tutto fa' con lui sì che possa andare oltre». Su questa linea si attesta anche la King James: «If thou see the ass of him that hateth thee lying under his burden, and wouldest forbear to help him, thou shalt surely help with hinv›.
15 Cf. P.C. BORI, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova 1995, 90.93-97.
16 FRANCESCO, «Prefazione» a G. MULLER, Povera per i poveri. La missione della Chiesa, a cura di P. Azzaro, LEV – Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2014, 8s.
17 M. ORLANDI, La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni, padre del biologico, EMI, Bologna 2014, 123: cf. Regno-att. 20,2014,725.
18 Il tema della deresponsabilizzazione personale a fronte delle crescenti competenze sociali è stato affrontato più volte, da par suo, da Ivan Illich: cf. per esempio I. Tuffai, Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità, Quodlibet, Macerata 2008; cf. Regno-att., 20,2008,683.
(FONTE: Il Regno 2/2019, pp. 51-60)
Trascendenza
Paolo Zini
Nel pensiero occidentale il termine trascendenza gode di un autentico rilievo sintomatico, per la plurivocità di semantizzazioni che ha saputo condensare, quasi ricapitolandovi i tornanti fondamentali di un’articolata storia della teoresi e del costume.
I referenti privilegiati del termine hanno visto succedersi l’oltremondanità noetico-metafisica nella filosofia classica, il principio soteriologico e il destino escatologico della storia nella filosofia medioevale, i canoni regolativi dell’impresa civile e politica nell’umanesimo, l’inviolabilità della dignità soggettiva nella modernità illuministica e l’ideale della realizzazione del sé nella postmodernità.
A dispetto dell’eccesso di schematizzazione che pare implicato in tale sequenza, le figure di trascendenza che vi si profilano tracciano una parabola che, per il suo valore euristico, potrebbe essere di qualche utilità considerare.
L’abrasività degli aforismi nietzschiani - che restituiscono lo sviluppo del pensiero occidentale attraverso i canoni investigativi di una rigorosa eziopatogenesi - non esita a identificare nel platonismo un’ossessione per la trascendenza, origine ultima di quel vilipendio etico-religioso della vita che avrebbe trovato in secoli di filosofia la propria legittimazione teorica.
Il carattere discutibile dell’ermeneutica nietzschiana non può impedire di riconoscervi un’intuizione pertinente, circa la solidità del vincolo che annoda, nella filosofia occidentale, i destini dell’umano alle forme di identificazione e di ossequio alla trascendenza.
Con Platone – di nuovo il convincimento di Nietzsche qui è irrefutabile - l’istanza metafisica non diviene semplicemente prescrittiva relativamente ad una particolare deontologia della conoscenza, ma giunge ad ispirare una vera e propria assiologia epistemologica, che sancisce per quindici secoli la primazialità cognitiva del sapere circa la trascendenza delle cause ultime.
Il convenire dell’apertura dell’intelligenza umana e dell’intelligibilità ultima del reale definisce un segmento di consostanzialità ontologica e gnoseologica che decide la singolarità personale e discrimina la dignità della sua vocazione storica; sono istruttive al riguardo le parole solenni di Socrate nel Fedone: “Qualcuno, ponendo intorno alla terra un vortice, suppone che la terra resti ferma per effetto del movimento del cielo, mentre altri le pone di sotto l’aria come sostegno, come se la terra fosse una madia piatta. Ma quella forza per la quale terra, aria e cielo ora hanno la migliore posizione che potessero avere, questo né cercano, né credono che abbia una potenza divina, ma credono di aver trovato un Atlante più potente, più immortale e più capace di tenere l’universo, e non credono affatto che il bene e il conveniente siano ciò che veramente lega e tiene insieme. Io mi sarei fatto col più grande piacere discepolo di chiunque, per poter apprendere quale sia questa causa; ma, poiché rimasi privo di essa e non mi fu possibile scoprirla da me né apprenderla da altri, ebbene, vuoi che ti esponga, o Cebete, la seconda navigazione che intrapresi per andare alla ricerca di questa causa?” (Platone, 2001, 99d).
Con l’avvento del cristianesimo l’identificazione greca della trascendenza ed i suoi riflessi sull’autoidentificazione dell’umano conoscono una trascrizione soteriologica di impatto culturale e civile decisivo. Principio gnoseologico risolutivo per la competenza dell’umano circa la contraddizione storica dell’esistere è la Rivelazione, alla cui luce l’uomo conosce la misura della propria precarietà cognitiva ma pure le ragioni del proprio riscatto e della propria speranza. Alla bios theoretikos della tradizione greca, quale forma dell’esistere dell’umano riuscito, subentra la fede, quale abito intellettuale e volitivo acceso dall’obbedienza all’anticipazione pasquale del destino escatologico della storia. Corrispondentemente, alla trascendenza greca del logos, che eroga consistenza ontologica al cosmo e supera il carattere aporetico della contingenza storica dell’ente, subentra la trascendenza del Verbo, che vince le tenebre dell’ignoranza e della morte e inaugura l’attesa del giudizio escatologico che compirà la trasfigurazione trinitaria della storia. L’identificazione cristiana della trascendenza diventa principio di rideterminazione teologale dell’esistenza all’intersezione di un dono e di un compito che rivelano alla libertà la sua provenienza ed il suo destino.
Ben documentano la potenza della riqualificazione soteriologica della storia da parte dell’evento cristiano le parole di un’opera di Anselmo d’Aosta che così illustra la verità dell’esistere alla luce della fede: “Quale condotta più misericordiosa si può infatti riconoscere di quella del Padre, il quale, al peccatore condannato ai tormenti eterni e privo di quanto potrebbe salvarlo, dice: «Prendi il mio Unigenito e offrilo per te», e il Figlio da parte sua: «Prendi me e redimi te»? Questo dicono in qualche modo, quando ci chiamano e ci attirano alla fede cristiana” (Anselmo d’Aosta, 2007, II.20).
La Stimmung rinascimentale, accreditata da una singolare incisività culturale, revoca alcune fondamentali premesse cristiane della civiltà medioevale; l’osservatorio che consente di registrare la radicalità del cambiamento è quello della disciplina della convivenza civile in ordine alla quale il machiavellismo politico può essere icasticamente riconosciuto come laboratorio di una risemantizzazione della nozione di trascendenza. Il realismo del Principe descritto da Machiavelli, obliterando le giustificazioni metafisiche ed oltremondane del patto civile e della sua tutela istituzionale, svela - attraverso l’autoreferenzialità della ragione politica e il culto antiprovvidenzialistico dell’occasione che tesaurizza l’eccentricità della fortuna - l’assolutizzazione dell’orizzonte mondano quale pertinenza antropologica. In tale orizzonte rigorosamente storico ha un ruolo fondamentale l’eminenza antropologica, che si legittima per riferimento alla trascendenza non più della ragione metafisica dei fini, ma dell’astuzia opportunistica dei mezzi.
La soggettività nata dall’Umanesimo non considera dimidiato il proprio pregio per l’estraneità alle coordinate protologiche ed escatologiche che nella rivelazione cristiana la vedevano eletta a senso del cosmo meritevole il Sacrificio di Dio e la definitività di un destino eterno, piuttosto avverte l’ebbrezza della propria vocazione al dominio storico entro il quale celebra la sua assolutezza. La misura angusta ed immanente di una mondanità che trae da sé le forme della propria disciplina emerge con chiarezza inequivoca dalla deontologia politica del Principe di Machiavelli: “Resta ora a vedere quali devono essere i modi e governi d’un Principe con li sudditi e con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito scrivendone ancor io, non essere tenuto presuntuoso, partendomi massime, nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri. Ma, essendo l'intento mio scriver cosa utile a chi l’intende, m’è parso più conveniente andar dietro alla verità effettuale della cosa, che all’immaginazione di essa: e molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverria vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverria fare, impara piuttosto la rovina che la preservazione sua” (Niccolò Machiavelli, 1858, XV).
Con la modernità illuminista il senso della trascendenza soggettiva, che l’Umanesimo insieme assegna ed affranca dal corso naturale degli eventi per inaugurare nella storia il protagonismo civile, si palesa come coscienza dell’autonomia della ragione e del potere di autodeterminazione della libertà. Il progetto kantiano è, da questo punto di vista, emblematico: la dignità dell’uomo non risiede nella capacità della sua intelligenza di riconoscere ultimativamente il principio trascendente del logos intrinseco alla realtà quale fonte di disciplina morale; piuttosto, il rigoroso ed esclusivo convenire di ragione e libertà nell’autonomia soggettiva subordina, al progetto della solitaria edificazione di sé, senso e valore dell’impresa civile e della sua eventuale referenza religiosa. È la trascendenza della differenza razionale dell’umano, identificata con il suo importo critico, rispetto ad ogni indigenza materiale, ad ogni prescrizione civile e ad ogni sentimento religioso, il fondamento di ogni prescrizione e legittimazione di senso. Le parole di Kant relative allo spirito illuministico sono molto precise: “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell'illuminismo. Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall'altrui guida (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, se sono in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. […] Quindi solo pochi sono riusciti, lavorando sul proprio spirito a districarsi dalla minorità camminando, al contempo, con passo sicuro. […] A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi” (Kant, 1783).
Con la temperie postilluminista, nella quale viviamo, l’estenuazione del rilievo socioculturale della trascendenza oltremondana conosce, forse a dispetto di numerose apparenze contrarie, la sua radicalizzazione. Non devono infatti ingannare il cosiddetto sacro di ritorno o la sovradeterminazione rituale e pseudoreligiosa dell’esistere cui si dirigono nostalgie individuali e collettive della società dei consumi. Oggetto di sacralizzazione pare infatti essere un ideale del sé caratterizzato da un’omeostasi assoluta, raggiunta attraverso la soddisfazione consumistica dei bisogni e l’esorcizzazione tecnica, mediatica e medica della sofferenza.
La fortunata espressione di Charles Taylor, che caratterizza il nostro tempo come età secolare, rimarca la filigrana immanentistica della figura di trascendenza cui l’uomo postilluminista riserva il proprio culto, annodandovi le costellazioni di significati deputate ad orientare l’esistere.
A caratterizzare, di riflesso, il tipo umano rappresentativo delle convivenze occidentali della contemporaneità, secondo Taylor, sarebbe l’identità schermata, esito di un processo di natura antropocentrica e solipsistica innescato dal senso di superiorità del soggetto sul mondo, dall’intensità di un nuovo rapporto della soggettività con se stessa e da una radicale reversibilità imposta dalla sua libertà ad ogni forma di vincolo con altri: “Quali erano (e sono) i vantaggi di questa identità schermata, antropocentrica? Le sue attrattive sono piuttosto ovvie, almeno per noi. Un senso di potere, di idoneità, derivante dalla capacità di dare ordine al proprio mondo e a se stessi. E, nella misura in cui tale potere era legato alla ragione e alla scienza, anche il senso di aver fatto grandi progressi in termini di conoscenza e comprensione. Oltre al potere e alla ragione, questo antropocentrismo presentava però anche un altro vantaggio notevole: un senso d’invulnerabilità. Vivendo in un mondo disincantato, il sé schermato non è più aperto, esposto a un mondo di spiriti e forze che attraversano il confine della mente e negano, perciò l’idea stessa dell’esistenza di un confine certo. Le paure, le ansie, persino i terrori che caratterizzano il sé poroso sono ormai alle spalle. Questo senso di padronanza di sé, di uno spazio mentale interiore sicuro, risulta ancora più forte, se oltre al disincanto del mondo abbiamo anche intrapreso la svolta antropocentrica e non facciamo più affidamento sul potere di Dio” (Taylor, 2009, p. 383).
Il prezzo però dell’identità schermata, retaggio di una trascrizione immanentistica di ogni trascendenza e di ogni differenza, pare sortire effetti autistici, che l’indagine di Taylor rimarca in modo tagliente: “L’identità schermata è profondamente ancorata nel nostro ordine sociale, nel nostro radicamento nel tempo secolare, nelle discipline distaccate di cui ci siamo fatti carico. Questo ancoraggio garantisce la nostra invulnerabilità, ma può essere vissuto anche come un limite, persino come una prigione, che ci rende ciechi o insensibili a tutto ciò che si trova al di là di tale mondo umano ben ordinato e ai suoi progetti razionali in senso strumentale. Può così facilmente diffondersi l’idea che ci manchi qualcosa, che le nostre vite siano tagliate fuori da qualcosa, come se vivessimo dietro uno specchio” (Taylor, 2009, p. 384).
Se la parabola tracciata nomina le figure di trascendenza divenute ispiratrici dei processi di costituzione e giustificazione degli assetti epistemologici, politici e civili del costume oggi dominanti, va nondimeno riconosciuto che numerose voci continuano a richiamare l’importanza di una diversa elaborazione del vincolo della coscienza all’ulteriorità oltremondana come condizione impreteribile di esercizio nobile della libertà.
Nel panorama culturale contemporaneo non mancano poi diagnosi che attribuiscono il disorientamento postmoderno e il tratto depressivo del suo approccio all’esistere proprio all’immanentizzazione soggettivistica di ogni trascendenza: “La nostra civiltà è la prima che si crede immortale, mentre forse è semplicemente la prima alla quale manchi un consapevole sentimento di limitazione. […] Eppure, fagocitando ogni rispetto del limite assieme a quello per dio e per la morte, la nostra civiltà sembra quasi aver seguito un cammino opposto e regressivo. […] La sua laicizzazione non è stata solo adeguamento a nuove regole esterne, ma metamorfosi interiore e trasmutazione dell’anima in luogo così complesso da farsi sempre più difficilmente esprimibile. Se dio è stato rimosso dai cieli e incorporato sotto forma di aspirazioni come lui infinite, anche la morte, allontanata dagli occhi, si riaffaccia all’interno dei soggetti travestita da depressione non razionalmente motivabile. Il nucleo di tale ripiegamento dello slancio vitale è una colpa assoluta, priva di motivi visibili, cui corrisponde un vissuto di insufficiente giustificazione dell’esistere” (Zoja, 2004, pp. 209-210).
I riflessi preoccupanti della seduzione immanentistica tipicamente occidentale suggeriscono forse di prestare attenzione a quegli autori impegnati a stigmatizzare la ridefinizione antropocentrica della trascendenza che la libertà finita vorrebbe ridurre a riflesso del proprio narcisismo.
Tra questi autori si segnala Levinas, la cui proposta speculativa è una rigorosa declinazione dell’assunto circa il carattere antropologicamente genetico della Trascendenza come Alterità e dell’Alterità come Trascendenza.
“Al di là della fame che si può saziare, della sete che si può calmare e dei sensi che si possono appagare, esiste l’Altro, assolutamente altro, che si desidera oltre queste soddisfazioni, senza che il corpo conosca alcun gesto per appagare il Desiderio, senza che sia possibile inventare una nuova carezza. Desiderio insaziabile, non perché corrisponda a una fame infinita, ma perché non reclama alcun nutrimento. Desiderio senza soddisfazione, che, proprio per questo, prende atto dell’alterità dell’Altro (Altrui) e la colloca in quella dimensione di altezza e di ideale che appunto da lui è aperta nell’essere” (Levinas, 1989, p. 42).
Levinas ritiene sia compito urgente della filosofia ripensare il realismo della libertà riconoscendovi tanto un’insuperabile serietà storica quanto un’indigenza radicale che interdice all’umano ogni illusione autarchica e prometeica. Forse la provocazione di Levinas potrebbe sostenere una riformulazione dell’interrogativo circa l’origine trascendente del senso che nutre la libertà autorizzandone l’esercizio ed animando la reciprocità della dedizione interumana. Tale interrogativo potrebbe essere posto in ossequio ai guadagni dell’umanesimo e della modernità circa il valore dell’emancipazione civile, dell’autonomia della ragione, della fecondità culturale della libertà; non da tale ossequio viene infatti la necessità di una liquidazione della trascendenza che invece esibisce la persuasività della propria assolutezza mentre assicura tutela all’umano divenuto consapevole del prezzo e del pregio del cimento della propria libertà.
Nessuna coscienza soggettiva potrebbe essere definitivamente all’altezza delle severe esigenze del proprio compito quando patisse senza possibilità d’appello il giudizio della disperante potenza erosiva del tempo; sono sempre gli indizi e i simboli storici della trascendenza del senso e del senso della trascendenza ad erogare alla libertà insieme alle ragioni della propria speranza la coscienza della propria serietà e dignità.
Bibliografia
Anselmo d’Aosta (A. Orazzo ed.), Perché un Dio Uomo? Lettera sull’incarnazione del Verbo, Città Nuova, Roma 2007.
I. Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo, 1783, reperibile on-line al sito <http://bfp.sp.unipi.it/classici/illu.html> (visitato il 29.12.2011).
E. Levinas, La filosofia e l’idea dell’infinito, in E. Levinas - A. Peperzak (F. Ciaramelli ed.), Etica come filosofia prima, Guerini e Associati, Milano 1989, 31-46.
N. Machiavelli, Il Principe, in Id., Opere complete, II voll., Libreria di Francesco San Vito, Milano 1858.
Platone (G. Reale ed.), Fedone (Il pensiero filosofico), La Scuola, Brescia 200119.
Ch. Taylor (P. Costa ed.), L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009
L. Zoja, Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, Moretti & Vitali, Bergamo 20042.
Saper perdonare
Carlo Molari
A mano a mano che l'unificazione dell'umanità procede, è sempre più necessario che gli uomini imparino a perdonarsi, che smettano cioè quegli atteggiamenti di rappresaglia o di rivalsa che sono tipici dello stile infantile, e che fino ad oggi hanno caratterizzato anche i rapporti tra i popoli.
Diversi equivoci sono in circolazione a proposito del perdono. Vorrei chiarirne qualcuno. In primo luogo perdonare non significa scusare o trovare attenuanti all'azione di un altro. Chi ha scuse valide non deve essere perdonato. Il perdono riguarda proprio chi ha sbagliato coscientemente.
Inoltre perdonare non significa dimenticare gli errori di un altro o non aver più la voglia di reagire nei suoi confronti. Il perdono che nasce dalla dimenticanza o dalla stanchezza è un ripiego.
Perdonare, non è un premio al pentimento del delinquente. Il perdono che viene dato solo a chi si pente è ancora molto condizionato e imperfetto.
Il perdono non è una legge che vale solo per il rapporto tra gli individui. Anche i popoli, anche i gruppi sociali, anche le famiglie devono essere capaci di perdonarsi.
Questi equivoci dipendono dall'idea poco chiara che si ha del perdono.
Il perdono è un atto di misericordia, è cioè un atto di amore gratuito, una offerta di vita che consente a chi ha sbagliato di cominciare a cambiare.
Il perdono perciò deve essere offerto a tutti coloro che sono malvagi perché non lo siano più nel futuro.
Il peccatore infatti non è in grado di uscire da solo dal suo male. Solo l'amore gratuito di chi gli sta accanto può permettergli di cambiare vita.
Il perdono non si oppone quindi alle misure di sicurezza per impedire a chi ha compiuto un male grave di ripeterlo nuovamente. Ma si oppone alla volontà vendicativa che spesso accompagna queste decisioni. È desiderio di conversione non volontà di riparazione.
Oggi lo stile del perdono non è ancora molto diffuso. Perdonare non è diventato ancora una caratteristica della comunità umana. È uno di quei salti qualitativi dello spirito che oggi condizionano il cammino del progresso umano.
Per questo è urgente che chi sa perdonare eserciti continuamente la sua capacità e diventi testimone di perdono in tutte le circostanze. Quando uno stile di vita, infatti, è introdotto dalla testimonianza continua di un gruppo, esso può dilagare nella società intera.
Chi sa perdonare perciò deve essere cosciente della responsabilità che ha di diffondere questo stile di vita.
Animo quindi amici, e se oggi ce ne è offerta l'occasione, proviamo a scoprire quale forza sprigioni il vero perdono.
Uomini nuovi
Carlo Molari
In questi ultimi decenni si sono create le premesse per radicali innovazioni nell'organizzazione della convivenza umana. Strumenti di comunicazione prima impensabili stanno unificando i problemi dell'umanità. Mezzi tecnici straordinari consentono oggi il coordinamento di tutti i complessi sviluppi della vita sociale. Le conoscenze e la tecnica permettono di risolvere definitivamente mali ancestrali che nel passato hanno decimato generazioni. La terra sta diventando per la prima volta nella sua storia un unico villaggio nel quale gli uomini potrebbero vivere in una forma e con una serenità mai fino ad ora rese possibili.
Eppure molti ostacoli sembrano ancora opporsi alla realizzazione di questo programma che è già alla portata dell'uomo.
Gli strumenti tecnici consentono ad alcuni di sfruttare altri in modo molto più profondo e oppressivo che nei secoli scorsi. Le forze a disposizione dell'inganno e dell'ingiustizia sono molto più subdole che in altri tempi. Anche se gli uomini non sono peggiori di ieri, possono oggi compiere disastri di portata molto maggiore.
Pensiamo solamente alla produzione delle armi. Fino ad ora l'umanità aveva potuto sopportare questa cattiva abitudine senza danni eccessivi. Solo da qualche secolo l'infantile tendenza di aggredire il nemico aveva acquistato caratteri preoccupanti. Ora però la parabola è alla fine. O l'umanità esce dalla fase infantile dell'aggressione armata o non può più attendersi un futuro.
Perché il male degli armamenti non sta solo nella distruzione che essi possono produrre, ma prima ancora e, per il momento, molto di più, nella dispersione assurda di immense ricchezze senza rilevante utilità pratica.
Il fatto è che gli uomini hanno camminato troppo in fretta e non hanno cambiato progressivamente il loro cuore e le loro abitudini. È urgente che cresca una diversa generazione di persone, che introducano un nuovo stile di vita e che riescano ad affrontare in modo nuovo questi gravi problemi.
Perché cresca questa nuova stirpe umana tutti debbono dare il loro contributo. Gli adulti che non possono più cambiare radicalmente, hanno però la possibilità di annunciare gli ideali che avvertono realizzabili e di creare quel clima spirituale che consenta la crescita delle nuove generazioni. E i giovani, che hanno ancora la capacità di nuove forme vitali, possono introdurre quelle modificazioni dello spirito che, una volta acquisite, nessuno potrà più annullare.
La giornata che cominciamo sia serena per tutti, amici, e possa registrare numerosi contributi per la crescita di quegli uomini nuovi che faranno il futuro dell'umanità.
Il valore di ciò che l'uomo fa
Carlo Molari
La valutazione che ciascuno dà delle proprie azioni non è sempre confortante. Non sembra che ci sia molta gente pienamente soddisfatta di ciò che fa. E quando lo è le ragioni della sua felicità non sono tali da resistere al tempo e all'usura delle abitudini.
Ci sono molte persone che continuano il loro lavoro solo perché alla fine del mese o della settimana ricevono lo stipendio.
Altri si attendono da ciò che fanno la stima dei colleghi, il riconoscimento della società, il successo.
Altri ancora si impegnano per giungere al potere, per essere in grado, cioè, di dominare nel proprio ambiente.
Altri riescono ad andare avanti solo perché si aggrappano a gioie future che lungamente assaporano nell'anticipazione: come la vittoria della squadra del cuore, l'incontro con una persona cara, la riuscita di un progetto.
Poi avviene che quando ciò che ciascuno attendeva si realizza, i desideri si allargano, le speranze riprendono a galoppare, e un'altra meta si affaccia all'orizzonte come ragione del proprio impegno. Il denaro non basta mai, il potere non è completo, la stima degli altri è limitata, la gioia passata suscita nostalgie e rincorre nuove illusioni.
Eppure qualche tempo prima avresti detto che ottenuto quel posto, raggiunto quel traguardo, avuto quel riconoscimento ti saresti definitivamente acquietato.
Quale conclusione trarre? È inutile sperare? È senza senso impegnarsi? È vano desiderare? Niente affatto.
È necessario piuttosto individuare bene che cosa attendersi dal proprio lavoro, quali sono i beni da sperare, che senso ha quello che facciamo ogni giorno.
Alcuni pensano alla vita futura come ragione del proprio impegno quotidiano. Altri pensano al bene che fanno agli altri, alla gioia che procurano.
Ma questi motivi, pur se validi, non sono sufficienti e soprattutto non sono quelli immediati. Se il nostro lavoro ha un significato, esso deve apparire concretamente nella nostra esistenza e tradursi in stati d'animo, in ricchezza interiore, in modalità nuove di vita. L'uomo vale non per quello che fa ma per quello che diventa attraverso ciò che fa. Ed è questo che egli è in grado di comunicare, ciò che è diventato come persona. Non sono i risultati a rendere grande l'azione dell'uomo ma la crescita personale che essa realizza, la ricchezza di umanità che sviluppa.
Ovunque e sempre ci può essere concesso di crescere come persone autentiche. Raggiunta la maturità nessuno ci può più impedire di vivere pienamente tutte le nostre giornate. Questa è la forza di ogni uomo ed è la sua dignità.
Un verso
Educare alla poesia
Antonio Prete
Un verso, un solo verso. Ramo di un albero, filo di una tessitura. Oppure, petalo di un fiore, se vogliamo rivolgerci alla classica contiguità della poesia con la rosa. Staccare un verso dal corpo di suoni e di silenzi cui appartiene, dall’onda del ritmo che in ogni parte di quel corpo trascorre, è come prelevare poche note da una composizione musicale. Un’azzardata sottrazione. Un arbitrio. Eppure ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, e anche nella loro traduzione in altre lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: schegge che si trasformano in sorgenti luminose, frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono.
Un verso, un solo verso, può corrispondere, sul piano della poesia, a quello che nel campo della prosa Leopardi chiamava “pensiero isolato”. Nello Zibaldone lampeggiano alcuni “pensieri isolati”, sottratti all’ordine discorsivo della trattazione: la loro densità di teoresi è più forte di ogni diffusiva analisi.
Così, accade anche che alcuni versi isolati, pur sottratti alla loro organica appartenenza, finiscano col vivere di una vita propria. Richiamano, per analogia, quel sapere che, nella “cura di sé” consigliata dagli antichi filosofi, era compendiato nel “detto memorabile”, nei “veridica dicta”, per usare l’espressione di Lucrezio. Trattenere quei detti nella propria memoria era come dotarsi di un prontuario che all’occasione poteva suggerire modi di comportamento, orientamento per le scelte di vita. Lessico interiore di una morale. Allo stesso modo, trattenere singoli versi nella propria memoria è custodire un serto di parole che non riposano nella quiete di un senso o nell’armonia di un suono, ma fanno del senso un suono e del suono un senso e per questa loro singolare virtù o acrobazia o grazia irradiano un pensiero aperto, irriducibile a un solo significato, interrogativo.
Di tali versi soli, e splendenti nella loro solitudine, dirò in questa rubrica. Ogni volta un verso ci inviterà a sostare alla sua ombra: per un pensiero al margine, per una annotazione esegetica, per una considerazione che può avere a che fare, più che col commento, con una libera interrogazione, e anche con quel divagare cui invita proprio quella conoscenza per via fantastica che è la lingua della poesia.
Di verso in verso: un cammino nel giardino della poesia. Un giardino nel quale si potrà sentire talvolta, insieme con il profumo dei fiori, il tragico della vita.
Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. E un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
"Le poesie, sono altresì dei doni – doni per chi sta all'erta. Doni che implicano destino.
Solo mani vere scrivono poesie vere. Io non vedo alcuna differenza di principio tra una poesia e una stretta di mano […] viviamo sotto cieli cupi − e ci sono pochi esseri umani. Per questo anche le poesie sono poche.“
“La poesia che viene al mondo vi giunge carica di mondo.”
Paul Celan
Breviario Laico, DARE OMBRA ALLE PAROLE
Riflessioni con Card. Ravasi /
Parla anche tu, /parla per ultimo, /di’ la tua sentenza. /Parla, ma non dividere il sì dal no. / Alla tua sentenza dà anche il senso: / dalle ombra. / Dalle ombra sufficiente, /dagliene tanta.
Paul Celan
Anche chi – purtroppo! – non ama la poesia, legga lo stesso queste righe di un grande e tragico poeta ebreo tedesco, Paul Celan, nato in Romania nel 1920, testimone della fine della sua famiglia nei lager nazisti, morto suicida gettandosi nella Senna a Parigi nel 1970. Di solito i suoi versi, altissimi, sono ardui, ma questa volta il suo è un appello semplice e incisivo. Il poeta non va contro il detto di Cristo sulla sincerità: «Sia il vostro parlare: Sì, sì! No, no!, il di più viene dal Maligno» (Matteo 5,37). Egli vuole, invece, colpire chi pronuncia sentenze definitive quasi fosse l’unico interprete autorizzato della verità. Sono quelle persone che non si lasciano mai frenare da un’esitazione, che asseverano «senza ombra di dubbio».
Ecco appunto l’immagine di Celan, l’ombra che invece dovrebbe alonare le parole. Solo così esse escono dalle labbra quasi in punta di piedi, con discrezione e pudore. Anziché essere un flusso veemente e inarrestabile, sono centellinate e avvolte nella pellicola del silenzio perché sono pesate e pensate. Sono frasi che lasciano spazi ancora bianchi che ammettono approfondimenti e un’ulteriore vita in coloro che le ascoltano, un po’ come accade alla poesia che ha bisogno degli «a capo» così da lasciare un vuoto che l’eco nell’anima del lettore riempie. È proprio l’esatto contrario della chiacchiera che non ammette spazio e interstizi, oppure dell’urlato che impedisce il dialogo. Un personaggio di Pirandello diceva in Ciascuno a suo modo (1924): «quanto male ci facciamo per questo maledetto bisogno di parlare!».
Testo tratto da: G. Ravasi, Breviario laico, Mondadori
Paul Valéry. Il mare, il mare sempre rinascente!
Un verso
Antonio Prete
Quale verso delle ventiquattro sestine che compongono il Cimitero marino di Paul Valéry può raccogliere nel suo specchio i riflessi che vengono dagli altri versi? La configurazione formale, ritmica, immaginativa e teoretica del testo poetico ha tale rigorosa e necessaria e impeccabile tessitura che separare un verso dagli altri versi può mandare in frantumi l’intero mirabile edificio. E tuttavia questo verso della prima sestina – La mer, la mer toujours recommencée – può fare se non altro da avvio ad una breve riflessione che accompagni lo scorrere del poème:, il quale ha esattamente cento anni (uscì nella prima versione sulla “Nouvelle Revue Française” nel giugno del 1920). Perché in questo verso il mare mostra, nel suono della ripetizione, il movimento dell’onda, e allo stesso tempo il suo doppio legame con un tempo fuori del tempo (toujours, sempre) e con un ritorno senza fine (recommencée), un ritorno che è rinascita, partecipazione a una creazione che sempre ricomincia.
Il mare, dunque, e lo sguardo sulla sua superficie, sul suo movimento, sulla sua bellezza, che dischiude la meditazione su quel che più conta, come l’essere, l’apparenza, il divenire, il già stato, la morte, la rinascita, e questo nella musica del verso. Contemplazione non da una riva, ma dal piccolo promontorio su cui sorge un cimitero che un tempo ospitava le tombe di marinai e di pellegrini. Contemplazione che, imitando l’onda marina, istituisce un andirivieni tra il vedere e il pensare, tra lo stupore dinanzi alla bellezza luminosa dell’apparire e l’interrogazione intorno al proprio stare – nella quiete e nell’ardimento, nel dubbio e nell’attesa – dentro un tumulto che è vita: vita consumata, scintillio di vita, vita dinanzi alla morte, morte nella vita. Ma ecco la prima sestina, dov’è incastonato il verso, seguita da una mia traduzione:
Ce toit tranquille, où marchent des colombes,
Entre le pins palpite, entre les tombes;
Midi le juste y compose de feux
La mer, la mer, toujours recommencée!
O récompense après une pensée
Qu’un long regard sur le calme des dieux!
Un tetto calmo corso da colombe
palpita in mezzo ai pini e tra le tombe.
Meriggio il giusto coi suoi fuochi acquieta
il mare, il mare sempre rinascente!
Dopo un pensiero, che dono lucente
guardare a lungo degli dei la quiete!
La seconda sestina inaugura un’alternanza – che rimbalza lungo tutto il testo – tra la visione del mare, delle sue metamorfosi, della sua luce (“Un puro assiduo folgorio consuma /diamanti di minutissima schiuma”) e le trasvalutazioni d’ordine concettuale (“scintilla il Tempo, e il Sogno è sapere”).
Un “monologo del mio io”, dirà Valéry del suo Cimitero marino. Un monologo nel quale prendono suono e forma i temi della sua vita “affettiva e mentale” – questa l’espressione che usa il poeta – così come sin dall’adolescenza si erano definiti, ovvero in una relazione fortissima con il mare e con la luce mediterranea.
Rievocando, molti anni dopo, la composizione, Valéry dirà che il primo movimento verso la scrittura poetica era nato da una sensazione puramente ritmica, vuota di senso, riempita di sillabe vane, che era diventata per un certo periodo un’ossessione: insomma, una frase musicale che s’insedia nella mente, priva di parole, ma che cerca di fissarsi nella misura metrica del decasillabo (il decasyllabe francese, un verso non consueto per la grande tradizione lirica). Allo stesso tempo quella misura, mentre risuonava, mostrava su di sé l’ombra del dodici, il numero sillabico dell’alessandrino, con la sua “potenza”, e a quella soglia tendeva e da essa si ritraeva (per questo la metà del dodici, la sestina, diventa la strofe della composizione, e il doppio del dodici, ventiquattro, diventa l’insieme delle strofe). Per un poeta come Valéry sostare, metricamente, al di qua del dodici significa non cadere nell’eloquenza teatrale dell’alessandrino (l’alessandrino, “il nostro esametro”, diceva Mallarmé); per contro, attivare le sonorità del decasillabo con una mobilità di cesure interne significa guardare all’endecasillabo dantesco, al suo grande esempio di vitalità ritmico-sonora e di modulazione ragionativa e contemplativa insieme. È singolare come questa sorta di ispirazione meramente sonora faccia germinare i movimenti del pensiero, e offra ad essi una dimora musicale.
Accade insomma che la forma metrica, una volta visitata dall’idea, incontra la singolarità vivente e rammemorante e meditante del poeta, la sua storia personale: di ricerca interiore, di formazione dello sguardo, di interrogazione sul nesso vita e morte. Un esercizio metrico si svolge come pensiero poetico. Per questo Oreste Macrì, che nel 1947 diede una traduzione italiana del famoso testo poetico di Valéry, accompagnata da un fitto e coltissimo corredo esegetico, intitolò il suo saggio introduttivo Metrica e metafisica nel “Cimetière marin”.
Opera di Andrew Wyeth.
Quanto alla mia esperienza, ho tradotto Le Cimetière marin dopo che avevo a lungo indugiato nella poesia di Valéry – dai Frammenti di Narciso alla Giovane Parca – e nelle prose, nei dialoghi, nei trattati, e soprattutto in quel meraviglioso Zibaldone novecentesco che sono i Cahiers, un quotidiano corpo a corpo con il sapere di tutte le arti, del linguaggio, delle scienze umane, fisiche e naturali. Avevo a lungo rinviato la traduzione di un testo la cui perfezione formale non poteva che disperdersi e spegnersi, o almeno attenuarsi, una volta traslata in un’altra lingua (anche se molti, e talvolta riusciti, erano gli esempi di poeti italiani che si erano applicati all’impresa). Ma quando mi accadde, sulla metà degli anni Novanta, di sostare per la prima volta a Sète, e salire tra le pietre del Cimétiere marin, in una luce mattutina abbagliante, i versi del poeta mi apparvero con una loro prossimità, come se da quel luogo le immagini abbandonassero la severa dimora del decasillabo francese e si distendessero, con semplicità, diventati parola della luce, pensiero del visibile, intimamente legati alle linee del paesaggio in cui erano nati, da cui erano nati (sarei tornato diverse altre volte sul bel porto di Sète, nei vari soggiorni d’insegnamento a Montpellier e di seminari tenuti in quella Università, appunto detta la Paul Valéry). Fu allora che decisi di avventurarmi nella traduzione. Le pagine di Ispirazioni mediterranee, in cui il poeta, rievocando la sua infanzia marina e portuale, riflette sulle figure di un pensiero meridiano, mi sembrava potessero accompagnare l’atto del tradurre. E tuttavia, come qualche volta accade, sulla prima traduzione sono tornato, dopo alcuni anni, con l’assillo del repentir, della revisione e riscrittura, giungendo infine a una nuova versione. Ogni traduzione poetica è solo una sosta lungo il cammino verso un’impossibile traduzione compiuta.
Torniamo ai versi di Valéry. Per il quale la poesia è suono del pensiero, musica del pensiero: questa è l’eredità mediterranea che il poeta sentiva di dover consegnare alla scrittura. Quanto al verso, esso nasceva nel corso di un raro, preziosissimo stato di grazia, una sorta di inatteso dono che insieme interrompeva e raccoglieva il tempo continuo, quotidiano, del ricercar meditando.
I versi del Cimitero marino, di sestina in sestina, rimodulano, nella tensione del suonosenso, e con la matericità di immagini corporee, le grandi domande sul tempo, anzitutto, ma anche sull’apparenza, sull’assoluto, sulla caducità, sulla mortalità, sul nulla, e questo attraverso la costruzione di figure corporee, attraverso il trionfo del visibile. E tra il bianco marmoreo delle tombe e lo scintillio della distesa marina trascorrono pensieri d’amore e di consunzione, il desiderio e il dolore mostrandosi come lingua propria dell’umano, come l’attesa e il sogno. Sullo sfondo, Lucrezio, Agostino, Pascal. Ma la curvatura del pensare che tra l’addensarsi di immagini rivela il suo nitido profilo è la necessità dell’ombra, l’accettazione della condizione umana, della distanza dall’assoluto, dal principio, l’invito a “rentrer dans le jeu”, rientrare nel giuoco, che è giuoco di vita e morte insieme, rimettersi in giuoco, e intanto opporre al fascino dell’astrazione la vibrazione dei corpi, al richiamo dell’oltre il qui tumultuante dell’esistenza, al gelo della cancellazione l’onda – appunto l’onda – del desiderio. A un certo punto appare, nella XXI sestina, il greco Zenone, col suo paradosso: “Zenone, crudo Zenone Eleata, / m’hai trafitto con questa freccia alata / che vibra e vola ed è priva di moto”. Dirà poi Valéry che introdusse l’argomento di Zenone per indicare, nel discorso sul tempo, la ribellione contro la durata, ma anche per una ragione compositiva, cioè per compensare con una tonalità filosofica il sensuale e “troppo umano” delle strofe precedenti. Ma ecco, in versione italiana le ultime due sestine, in cui si rompe definitivamente la “forma astratta”, la rinuncia all’assoluto è dichiarata, il corpo e la vita gridano il loro essere nel movimento del desiderio, all’unisono con l’energia metamorfica e scintillante del mare:
XXIII
Sì, mare immenso di folli scintille,
pelle di pardo, mantello che mille
e mille idoli del sole scompigliano,
sciolta idra che del tuo azzurro corpo ardi,
e la coda splendente ti rimordi
nel tumulto che al silenzio somiglia,
XXIV
si leva il vento! S’affronti la vita!
Squaderna il libro quest’aria infinita,
franta esce l’onda da rupestri stele!
Volate via, mie pagine abbagliate!
Rompete, onde, con acque rallietate,
quel tetto quieto morso dalle vele.
Lo sguardo torna sul mare, sul suo azzurro corpo vivente. Il tono è in levare, la severità della dizione poetica si apre al canto, il poemetto accoglie i timbri dell’ode, la solennità dell’alessandrino tenuta a distanza con il decasillabo riprende ora il suo campo, la “forme pensive”, l’astrazione, si lascia scuotere dal vento della vita. Il pensiero è invaso dalla luce, dall’aria, dall’infinito dell’aria. E il tetto d’acqua, l’azzurra superficie su cui il primo sguardo scorgeva colombe-onde, riappare con il suo movimento, percorso ora da vele, mordicchiato dal loro beccheggiare. La prima e l’ultima immagine si ricongiungono: il mare sempre ricomincia, nella luce del rinascere che dialoga con l’altra luce, quella che, in alto, tra le tombe del “cimetière marin” fruga interrogativa nelle pieghe del tempo, tra le ceneri di quel che è stato.
Friedrich Hölderlin. Chi pensa il più profondo, ama il più vivo
Un verso
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Il verso di Friedrich Hölderlin (Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste), che sopra riporto nella traduzione di Giorgio Vigolo, in un’altra traduzione, per dir così più esplicativa, quella proposta da Luigi Reitani nel “Meridiano” dedicato al grande poeta tedesco, suona così: “Chi ha pensato le cose più profonde, ama ciò che è più vivo”. Il verso appartiene alla poesia che ha il titolo Sokrates und Alkibiades (Socrate e Alcibiade), una breve composizione di due strofe che è tra le più note e tradotte di Hölderlin (c’è anche una traduzione-imitazione di Giacomo Noventa, nel suo veneziano singolarissimo, che aderisce al testo nella prima strofe e reinventa con leggerezza sorridente il resto).
Il verso di Hölderlin ha la compiutezza aforismatica di un pensiero che intende raccogliere in una sola frase un cammino di teoresi e di meditazione; un verso, insomma, che somiglia ai “detti” della filosofia antica, ai “veridica dicta”, come li definiva Lucrezio. Il verso, che apre la seconda strofe, si pone come risposta alla domanda consegnata alla prima strofe. Ecco il testo della poesia nella traduzione di Vigolo, seguito dall’originale:
“Perché stai sempre adorando, Socrate santo,
questo giovane? Nulla sai di più grande,
che con occhio d’amore
come gli dei lo contempli?”.
Chi pensa il più profondo ama il più vivo,
sublime gioventù intende, chi ha guardato nel mondo,
e finiscono i savi sovente
con inclinare al Bello.
“Warum huldigest du, heiliger Sokrates,
diesem Jünglinge stets? Kennest du Grössers nicht?
Warum siehet mit Liebe,
wie auf Götter, dein Aug’ auf ihn?”
Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste,
hohe Jugend versteht, wer in die Welt geblickt,
und es neigen die Weisen
oft am Ende zu Schönem sich.
Socrate e Alcibiade: le due immagini, il maestro e il discepolo, rinviano ai dialoghi platonici – in particolare al Simposio e all’Alcibiade – e alla questione posta da Socrate sul rapporto tra sapienza e amore, una questione che il poeta qui disloca subito sul piano di una relazione forte tra due elementi: tra il pensiero che si sospinge fino all’estremo, fino al suo stesso confine – e per questo fa esperienza del “più profondo” (das Tiefste) – e l’amore del vivente, laddove questo manifesta la sua essenza, mostrandosi nel punto più alto (das Lebendigste), e cioè rivelandosi nella forma della bellezza. Il pensiero più profondo – di “profunda profunditas” parlerà Agostino – è proprio della sapienza, l’elemento più vivo è proprio della bellezza.
Illustrazione di Cressida Campbell.
Pensare il più profondo, amare il più vivo: ritmo che unisce conoscenza e amore. Diastole e sistole di un battito che fa del pensare una lingua del desiderio e dell’amore un pensiero del vivente. Un’unità – o tensione verso un’unità – che tende a bruciare ogni opposizione tra il sapere e l’amore, tra la conoscenza e la bellezza. Il pensiero, nella sua essenza, è amore della bellezza. Un poeta come Hölderlin, che nella poesia porta, inquietamente e luminosamente, tutta la propria formazione filosofica, mostra, con la cura del verso, della sua forma, del suo suono, come vera sapienza sia fare esperienza della bellezza attraverso l’amore del vivente, del tutto vivente. La Natura è figura prossima, visibile, del tutto vivente. E la Natura è infatti la madre dalla quale il poeta ha appreso la lingua della propria arte: die Mütterarzrtlichkeit (si veda la lirica intitolata Die Stille). Questa consapevolezza è propria del poeta romantico: Keats dice che dal ruggito del leone (the Lion’s roaring) e dal grido della tigre (the Tiger’s yell) il poeta apprende la sua lingua. È un modo per dire della materna pedagogia messa in campo dalla Natura nei confronti del poeta.
Nel Simposio, quando Socrate prende la parola, dopo gli elogi di Eros via via fatti dai discepoli, e racconta di non sapere dell’amore se non quello che gli ha detto un giorno la donna di Mantinea, Diotima, a un certo punto, come osservazione al margine delle considerazioni sulla natura di Eros, dice della equivalenza tra Eros e Poiesis: come Poiesis, cioè la creazione, è movimento che dal vuoto, dall’assenza, fa che le cose siano, così anche Eros, in quanto desiderio, è movimento che dalla mancanza va verso la presenza. Dal vuoto al visibile, dalla privazione alla forma: un movimento che nel suo divenire resta sempre aperto. Nella poesia di Hölderlin l’amore è allo stesso tempo amore della sapienza – il pensare profondo – e amore del vivente. La poesia è la lingua che accoglie questo incontro tra amore della sapienza e amore del vivente.
C’è come un cerchio che nell’Europa della Romantik mette in relazione diverse culture letterarie, diversi poeti, con questa idea forte del vivente: Keats, Novalis, Hölderlin, Leopardi, ed altri. L’onda di questa poesia intesa come ascolto e amore del vivente giunge fino a Rilke. Una singolare corrispondenza: nella traduzione che Rilke fa dell’Infinito leopardiano c’è una particolare attenzione, di natura direi teoretica, proprio ai riferimenti al vivente. Le parole leopardiane “… e la presente / e viva, e il suon di lei”, / Rilke in qualche modo le rafforza, traducendo “und diese/ daseiende Zeit, die lebendige, tönende”. Una traduzione interpretativa (una traduzione “glossematica”, avrebbe detto Contini), che approfondisce anche sonoramente da una parte il limite del visibile, del qui e ora, del questo, dall’altra la presenza appunto del vivente, il suo risuonare.
Hölderlin, Leopardi, Rilke: poeti che con la loro poesia hanno detto dell’essenza stessa della poesia.
Torniamo al verso di Hölderlin. La domanda rivolta a Socrate dice di uno sguardo che è contemplazione – la memoria del verso di Saffo tradotto da Catullo con Ille mihi par esse deo videtur è dichiarata – ma proprio questo sguardo si rivelerà subito come la figura di una contemplazione che ha radice nel pensiero profondo, dunque nella sapienza, e si manifesta come percezione, da parte di tutti i sensi, della bellezza. Questo sguardo sulla bellezza – che è insieme forma del vivente e manifestazione del sacro – si accompagna per il poeta tedesco alla ricerca di un’armonia, al senso di una grande quiete per la relazione con questa armonia. Nell’Iperione c’è un passaggio bellissimo che racconta di questa ricerca:
O felice natura! Non mi so render conto di ciò che avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza, ma tutte le gioie del cielo sono nelle lacrime che io verso per la tua bellezza, come l’amante per la sua amata. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onde di un campo di grano (trad. di G. V. Amoretti).
La lirica di Hölderlin è in tutte le sue stazioni interrogazione della Natura: della sua presenza, del suo stormire, delle sue voci, dei suoi silenzi. E questo accade nella meditazione poetica intorno al pensiero rammemorante: Mnemosyne, l’An-denken raccolto e dispiegato più volte nell’ermeneutica di Heidegger. Accade nel grande tema del ritorno dopo la peregrinazione, nel tema della notte che è vuota attesa del dio, solitudine per la sua assenza.
E tuttavia il rapporto con la bellezza e la ricerca di armonia con la Natura che i versi del poeta accolgono e descrivono ha in sé l’ombra del tragico. Perché è lontananza dal principio, dalla perfezione, dal sacro, che si manifesta solo in quanto perduto. La prossimità al vivente di cui fa esperienza la poesia nel respiro stesso del suo suono, nelle sue immagini, ha in sé questo tremore: mentre sperimenta la tensione verso il vivente, avverte anche la fragilità e inanità di questo suo vedere e sentire. La fragilità della stessa lingua.
Anche se non diamo, oggi, a questa mancanza il nome del sacro, conosciamo quanto sia diventata profonda la lontananza dal vivente, dal tutto vivente. Il profilarsi di un tempo in cui si estende il dominio dell’artificiale, del virtuale, del robotico, mette in questione la relazione corporea – “sensibile e immaginosa”, direbbe Leopardi – con il vivente, con la Natura vivente. La poesia appare inappropriata, estranea, a questo tempo. Ma sempre la poesia è stata in esilio dal proprio tempo.
Una cosa bella è una gioia per sempre
Un verso.
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Il verso apre il poema di John Keats Endymion: “The thing of beauty is a joy for ever”. La bellezza e la gioia. Keats unisce in un solo verso la forma del visibile cui diamo il nome di bellezza e quel sentimento fortemente corporeo e insieme profondamente spirituale che è la gioia. Per un poeta la bellezza è un fatto anzitutto interiore. Per questo definire la bellezza è una questione che non attiene all’ordine dell’estetica ma all’universo del sentire. Non è necessario evocare categorie che colgono la forma, o la relazione tra le forme, come l’armonia, la proporzione, la misura, ma basta riferirsi alla percezione di sé nel rapporto con il visibile, una percezione che è esperienza di un sentimento, anzi del più impetuoso e vitale dei sentimenti, al quale diamo il nome di gioia.
La bellezza e la gioia: una complicità forte, una sorellanza che sa accogliere il mondo, l’esperienza del mondo, per quel che si mostra come luce e come musica. E che per questo può sfidare la qualità prima del tempo, che è l’irreversibilità, può cioè tentare un patto – certo illusorio, azzardato, estremo – con la permanenza, con il sempre. Senza questa interiore sospensione della caducità, senza questa fantasticata esclusione del declino dall’orizzonte del visibile, le cose non possono salire verso la lingua della poesia e lì essere accolte e custodite. Ma si tratta di una finzione, analoga alla finzione che nell’idillio di Leopardi mette in moto la rappresentazione di un infinito impossibile a sostenersi: “Io nel pensier mi fingo”. Di questa finzione il poeta Keats, come del resto ogni poeta, è consapevole. Una finzione senza la quale non potrebbe esserci quella creazione del mondo che è sempre la poesia. Ed è questa sospensione della caducità che permette il dischiudersi del sentimento della gioia. Un sentimento che cerca i segni per manifestarsi: la gioia è una letizia che chiama i sensi, tutti i sensi, a congiungersi festosamente. Per questo, per dire della gioia ricorriamo ad aggettivi come pura, assoluta, incontenibile, piena. E tuttavia, nonostante la pulsione a manifestarsi, nonostante le forme profane o secondarie in cui la gioia si può manifestare, come l’allegrezza o il riso, il suo movimento più proprio è quello di portare il rapporto con il visibile nel tempo-spazio dell’interiorità. Un movimento somigliante a quello dell’amore. Anche l’amore è esperienza che nei suoi momenti di fulgore sospende la caducità del tempo, fa un patto con l’oltretempo: da qui il legame forte che la poesia d’amore ha con l’elemento lunare, solare, stellare, cioè con quelle figure che appartengono a un tempo diverso da quello umano e storico, un tempo cosmico, che è come dire un oltretempo, o un tempo senza tempo (poesia d’amore e cosmologia è un nesso intorno al quale mi è accaduto più volte di riflettere).
Keats dice in altri memorabili versi di questa sospensione del tempo che la bellezza – la bellezza del visibile e quella dell’arte – può dischiudere. Pensiamo ai versi dell’ Ode on a Grecian Urn, che dicono la sottrazione al declino propria delle figure rappresentate sull’urna (“Ah, happy, happy boughs! That cannot shed / Your leaves, nor ever bid the Spring adieu” – Oh! felici, felici rami, che non potete perdere / le foglie e mai direte a Primavera addio”. E nominano anche, quei versi, la dolcezza suprema di una melodia priva del suo suono, perché consegnata all’immagine dei flauti che continuano a suonare al di là del loro tempo, fuori dallo scorrere del tempo.
Keats qui nasconde quel senso del declino che pure è proprio della bellezza, per mostrare come la lingua del poeta, e prima ancora della lingua il suo vedere e sentire vivano l’esperienza di una lotta contro il passaggio, contro il transitorio, e anche contro l’oblio. Una suprema finzione, in virtù della quale la lingua della poesia può ospitare quel che più non c’è, accogliere il tempo finito, far risorgere quel che è fatto cenere.
Ma Keats non ignora, se pensiamo ad altre sue composizioni, l’altro aspetto della bellezza, quello della caducità: pensiamo al verso di Ode on Melancholy: “She dwells with Beauty – Beauty that must die” (“Lei dimora con la Bellezza – la Bellezza che deve morire”). E subito dopo questi versi compare anche qui, come compagna della Bellezza, la Gioia. La caducità, dunque, come altro elemento della bellezza. È il tema che darà avvio alla riflessione di Freud in Caducità (1915): al poeta che dinanzi allo splendore del paesaggio è malinconico perché vi legge l’ombra del declino si può opporre la preziosa esplosione dell’istante di vita che sospende quell’ombra. È Baudelaire che sul tema della bellezza sempre osserva la compresenza dello splendore e del declino, e lo fa con le sue categorie: la bellezza è composta di due elementi, l’éternel e il transitoir.
Torniamo al primo verso dell’Endymion, che si chiude con for ever, sempre. Anche il primo verso de L’infinito di Leopardi aveva un sempre, anzi cominciava con un sempre: “Sempre caro mi fu questo ermo colle”. Nel giovane poeta inglese il for ever si riferisce a un’appartenenza del visibile a sé che sconfigge il declino, o almeno sospende col linguaggio della poesia – con il racconto lirico ed epico che sta per prendere avvio – lo scorrere implacabile del tempo. Il sempre leopardiano dice invece l’intimità affettiva di un’appartenenza al visibile – questo colle, questa siepe – che è soglia per l’odissea del pensiero. Un’avventura della lingua che vuol dire l’infinito sapendo dell’impotenza del pensiero a dire l’infinito; ed è proprio il mi fu aperto da quel sempre (“Sempre caro mi fu quest’ermo colle”) che sopravviene nel naufragio e raccoglie il sentire, cioè la presenza del corpo, nel m’è dolce dell’ultimo verso: “E il naufragar m’è dolce in questo mare” (e occorrerebbe riflettere sul rapporto tra la dolcezza di Leopardi dinanzi allo spalancarsi dell’indefinito che risarcisce l’impossibile rappresentazione dell’infinto e la gioia di Keats dinanzi al mostrarsi della bellezza).
Il poema al quale appartiene il verso di Keats, l’Endymion, fu composto tra l’aprile e il novembre del 1817, pubblicato nel maggio del 1818. Impetuoso esercizio di scrittura poetica – in quattro libri di mille versi ciascuno – il poema è un trattamento lirico del mito che riguarda il re-pastore Endimione, la sua ricerca dell’amore, i suoi incontri, le sue visioni, il suo sonno, il suo rapporto con la sorella Peona, con una fanciulla indiana, con Venere, con la luna. Il primo verso apre il proemio del poema e unisce alla presenza della natura – il sole, la luna, gli alberi, le ombre, i fiori, i ruscelli – la presenza dei bei racconti (“all lovely tales”) uditi o letti: essenze (“essences”) che sentiamo come appartenenti a noi, al di là della percezione del loro passaggio.
Questo senso di una relazione profonda con il vivente e con il visibile ha a che fare, in Keats, con la sua stessa idea del poeta, che in una lettera a Fanny definiva come “la più impoetica delle creature”: il poeta è colui che sa esporre i suoi sensi all’ascolto, sa lasciarsi “impressionare”. Una dimissione del sapere, un sentire su cui si imprimono presenze e passaggi, che nella loro quieta dolcezza cercano la via della lingua, il nuovo tempo della poesia.
Rainer Maria Rilke. Incerta, dolce, priva d’impazienza
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
È il verso che chiude la poesia di Rilke dal titolo Orfeo, Euridice, Hermes. Novantacinque versi che, con un andamento insieme drammaturgico e meditativo, con rilievi fortemente figurativi, rivisitano e interpretano il mito di Orfeo che scende nell’Ade per tentare di riportare tra i viventi la donna amata, sorgente e vita del suo canto: il cantore, a un certo punto del sotterraneo cammino, infrange il divieto di voltarsi, condizione imposta dagli dei, così Euridice è ripresa nel regno dell’oscuro.
Scritto nel 1904, molto prima, dunque, della grande stagione delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo, il testo poetico muove da un bassorilievo presente nel Museo Archeologico di Napoli che raffigura i tre personaggi del mito. Come nel verso qui scelto, così in tutto il testo poetico, Euridice appare avvolta in una sua lontananza, che è lontananza dal desiderio stesso.
Figura d’ombra: tuttavia abitata da un sentire che è come un’increspatura astratta di quel che è stato. Un dopo-la-vita che è percezione, ancora, della vita, ma da una soglia di sopravvenuta imperturbabile quiete. Un oltretempo che fa venire alla mente la domanda gelida ed estrema del leopardiano Coro dei morti: “Che fu quel punto acerbo /che di vita ebbe nome?”. Il verso che chiude la poesia era già riapparso nel corso della composizione quando il poeta descriveva Euridice, con il passo “costretto in funebri bende”, la mano nella mano del dio, “chiusa in sé come alta speranza”. Ecco la strofe, in una mia traduzione (raccolta nel quaderno L’ospitalità della lingua):
Ma veniva lei a mano del dio,
il passo costretto in funebri bende,
incerta, dolce, priva d’impazienza.
Era chiusa in sé come alta speranza,
immemore dell’uomo ch’era avanti
e del sentiero che alla vita andava,
Era in sé raccolta, colma di morte,
e questo era pienezza.
Come un frutto di dolcezza e di buio,
era piena della sua grande morte,
così nuova che in quella si perdeva.
Il poemetto si era aperto col verso “Das war der Seelen wunderliches Bergwerk” (Era l’oscura miniera delle anime) mostrando con tratti espressionisti l’oltremondo sotterraneo, le anime che come vene d’argento, silenziose, solcano l’oscuro, e il rosso del sangue che sgorga tra radici per salire poi verso il mondo dei vivi, e intorno rocce, morte foreste, ponti sul vuoto, e un immenso grigio stagno, sospeso “come un cielo di pioggia sul paesaggio”. Poi un sentiero, e lungo il sentiero, il dio Hermes che conduce Euridice, più avanti Orfeo, le mani fuori dal mantello azzurro, la lira alla sua sinistra, “radicata / quale cespo di rose sull’ulivo”.
L’ombra qui è materia che si fa immagine, che prende forma, movimento, ritmo. Il mondo ctonio, sul quale si posava con insistenza lo sguardo dei romantici tedeschi, riappare in questi versi di Rilke come regno delle ombre abitato da un mito. Da un mito che è racconto del legame tra canto e amore, tra poesia e amore. Di quel legame è qui messa in scena la perdita, l’irrimediabile perdita. Il tema dell’addio avrà nella lirica successiva del poeta un grandissimo rilievo: l’addio ritmo dell’esistenza stessa.
Orfeo, nella ombrosa figurazione del cammino, è osservato di spalle: sale verso la luce dei vivi, dietro di lui l’eco dei suoi passi, e il vento che muove il mantello. Euridice e Hermes salgono anch’essi verso la luce, silenziosi. Se Orfeo si voltasse, disfacendo l’opera, vedrebbe lei, la silenziosa, chiusa nelle sue vesti, figura d’ombra, il passo lento, personaggio di un rito del quale non intende né la ragione né le forme.
Hermes, il dio dei viaggi e degli annunci che vanno lontano, la conduce tenendola per mano:
Lei, la molto amata, che dalla lira
traeva un lamento più che da donne
in lutto, e dal lamento sorgeva un mondo,
e tutto era di nuovo: selva e valle
e strada e borgo e campo e fiume e belva;
e nel mondo-lamento, come intorno
a un’altra terra, roteava un sole
e un silenzioso cielo stellato,
cielo-lamento con sbalzate stelle:
lei, la tanto amata.
Dal lamento sorgeva un mondo: eine Welt aus Klage ward. Lei, per l’amore ricevuto da Orfeo, muoveva la musica della parola. Di una parola che era creazione. Nel canto il visibile si dispiegava in una nuova esistenza. Il visibile della poesia: tempo-spazio dell’apparire in cui le cose sono intime a sé, si rivelano in quel legame con il tutto che al di fuori della parola poetica è fatto opaco. La poesia evoca un mondo in cui la parola e la cosa non sono disgiunte: selva, valle, strada, borgo, campo, fiume, belva respirano con il respiro della terra, sotto un cielo di stelle, anch’esse figurazione visibile del lamento-canto: “cielo-lamento con sbalzate stelle” (ein Klage-Himmel mit entsteltlen Sternen”). Il lettore avverte, in questa dolente nominazione creaturale messa in opera dalla parola poetica, l’annuncio di quello che sarà il cuore della meditazione di Rilke sulla poesia, una meditazione che nella Nona Elegia sarà affidata a questi versi:
…siamo qui forse per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero, finestra,
al più: colonna, torre…ma per dire,
oh! dire così, come le cose stesse mai
dentro di sé sognarono d’essere.
Il mondo si mostra nella sua fisica, preziosa e prossima singolarità: la cosa sta nella parola come nel suo proprio abitare, e nella parola palpita, si conosce, vive. Perché questo avvenga occorre che il dire sia anzitutto una pronuncia interiore, il vedere sia un vedere interiore. Il dicibile è movimento della cosa verso la parola, e dire è compito terrestre e umano. Il tempo dell’esistenza individuale è tempo del dicibile: “qui, delle cose dicibili è il tempo” (Hier ist des Säglichen Zeit). Questo tempo della parola è altro dall’oltretempo stellare, che appartiene all’indicibile, e che solo la morte dischiude: pensiamo ai versi della Settima Elegia: “O einst tot sein und sie wissen unendlich, / alle die Sterne: denn wie, wie, wie sie vergessen! “(Oh! Esser morti una volta, e conoscerle all’infinito, / le stelle, tutte: e allora come come come dimenticarle!”). Compito dell’umano, dinanzi all’animale che sta nell’“aperto”, e all’Angelo, che è purezza della conoscenza, è accogliere il visibile nel nome, per trasformarlo nell’invisibile. E poterlo custodire: come si custodisce l’addio, ritmo stesso dell’esistenza.
Ma l’esteso ventaglio del pensare poetico di Rilke, sostenuto, negli anni che precedono le Elegie, dal passaggio attraverso Hölderlin, rischia di apparire contratto e scialbo in queste forzose abbreviazioni. Torniamo allora all’ Orfeo del poemetto. Il suo dire era, nella luce che vestiva i viventi, un dire che accoglieva le cose, le faceva vivere, e questo perché un principio d’amore, una figura d’amore, muoveva la parola della poesia.
Abbiamo lasciato Euridice sul sentiero d’ombra: “colma di morte”, incede con passo lento, “incerta, dolce, priva d’impazienza”; la mano nella mano del dio Hermes, va verso una luce che presto sarà negata.
Euridice, di qua dalla luce, di qua dalla vita, e dal canto che lei faceva sorgere, è come in una “nuova adolescenza”, dimentica delle nozze, è un “nuovo fiore prima di sera”, è turbata, come per troppa intimità, dal lieve contatto della sua mano col dio che la conduce. La sua essenza di vita è come dissolta (“sciolta come una lunga chioma, / abbandonata come pioggia in terra”). Un verso, isolato, quasi epigrafe che nomina un’altra appartenenza, campeggia tra i silenzi: “Lei era già radice”. Tornata a un prima della vita che è fondamento della vita, quiete nell’essenza, in quell’oltre che è l’essenza. Quando il dio ferma il passo e annuncia che lui si è voltato, lei non comprende e piano domanda: Chi? Una domanda che è voce priva di memoria, voce che sale da un corpo d’ombra. Dal profondo di un’altra appartenenza. E Orfeo dall’alto osserva il dio che si volge indietro, al suo fianco c’è lei, “il passo costretto in funebri bende, /incerta, dolce, priva d’impazienza”.
In questa messa in scena del mito – l’energia figurativa dei particolari qui risente dell’amore che il poeta ha mostrato fino a quel momento per Rodin e per Cézanne – mostra come in una sinopia la gravità delle domande ultime, le domande sul rapporto tra la vita e la morte. E la poesia, dando respiro e immagine a queste domande, si fa narrazione scenica, suono che disegna mondi, tappeto di silenzi sui cui sorgono voci. Per dire, ogni volta in modi diversi, il nesso tra amore e lingua. Per dire come il perduto possa trovare una sua nuova vita nella parola, restando nella sua privazione, nel suo già stato. L’addio, il dolore dell’addio, è in ogni passo, in ogni parola.
Mario Luzi. Vola alta, parola, cresci in profondità
Un verso
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Il verso di Mario Luzi è sempre un frammento che riceve luce da altri versi contigui e irradia sugli altri versi la propria luce: una luce in cui trema una ininterrotta meditazione sul tempo, sul visibile, sulla sua ferita, sulla sua sperata armonia. La poesia, annunciata in una pagina a sé col titolo Vola alta parola, appartiene al libro Per il battesimo dei nostri frammenti, del 1985 (ora nel Meridiano curato da Stefano Verdino, 1998). Ecco il testo che muove dal primo verso e sul primo verso riflette l’insieme del suo movimento:
Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami
nel buio della mente –
però non separarti da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza …
La cosa e la sua anima? O la mia e la sua sofferenza?
L’allocuzione d’apertura, in levare, e quasi ad alta voce, rivolta “nel buio della mente” alla parola – che è parola, certo, della poesia, ma anche parola intesa come cifra propria dell’umano – è un invito: tentare l’estremo della significazione, sospingersi fino al confine del visibile, ma, in questa ascensione, non separarsi dal sentire, dalla corporeità del sentire, dal ritmo fisico del vivente. La parola, nel libro Per il battesimo dei nostri frammenti, è sostanza dell’interrogazione poetica, e per questo come esergo d’apertura il poeta sceglie il luogo più alto, nella cultura occidentale, di una rappresentazione della parola, quel principio intorno al quale si è affannata la grande esegesi patristica, il versetto dal Prologo di Giovanni (1, 4): “In lei [la parola] era la vita; e la vita era la luce degli uomini”.
Con Mario Luzi più volte mi è accaduto di parlare di poesia – considero quegli incontri come un dono e tra le esperienze più belle che mi sono occorse lungo gli anni –, più volte mi è accaduto di conversare intorno a Baudelaire e a Leopardi, campi di condivisa ricerca e di forte intesa interpretativa, ma rimpiango di non avergli mai domandato in modo esplicito (qualche allusione sarà pure trascorsa) – quale rapporto egli vedeva tra l’esergo giovanneo che apre La Ginestra di Leopardi e l’altro esergo giovanneo che apre il suo Per il battesimo dei nostri frammenti. Quella luce – alla quale “gli uomini preferirono le tenebre” – che compare nell’apertura della Ginestra è la stessa luce che, come parola e vita, apre il libro di Luzi.
La parola del principio (il logos oggetto di tanta esegesi cristiana) è allo stesso tempo vita e luce. Per Leopardi quella parola-vita-luce era il punto di un’anteriorità inattingibile che permetteva di leggere le “tenebre” della civiltà, di una civiltà che rimuoveva ogni senso della finitudine e si avvolgeva in una vanagloriosa illusione di potere sulla storia e sulla natura; per Luzi invece quella parola-vita-luce trascorreva ancora nel visibile, nel sensibile, forse anche nella tessitura nascosta della storia, e davanti alla sua perseguita umana cancellazione, il poeta poteva tentare di istituire un tempo del dire, e del pensare, in grado di preservare di quella parola se non la presenza, almeno l’immagine, il ricordo, l’attesa. Insomma la parola della poesia può farsi evocazione e insieme custodia di quell’altra parola che, come vita, aiuta a scorgere ovunque le pulsazioni del vivente, e come luce aiuta a vedere sino ai confini del visibile.
Monet, Ninfee
È poi questo movimento che permette alla poesia di Luzi di farsi poesia del tempo e della creaturalità, cioè di quel mostrarsi dei viventi e del paesaggio, intesi come rivelazione luminosa, e tuttavia ferita, di un mondo che ci appartiene, come ci appartiene il transito, il cammino, l’attesa. Si pensi alla sezione bellissima di Per il battesimo dei nostri frammenti intitolata Dal grande codice, dove in versi di grande respiro – musicale e visivo e teoretico insieme – la pernice, la rondine, la trota, il fiume si mostrano come figure che portano in sé, nel loro apparire, nel loro grido, nel loro movimento, nel loro rapporto intimo con l’elemento naturale, la pienezza della vita, di quella vita che è “vita soltanto”.
Qui, in questi versi che cominciano con “Vola alta, parola”, è la cosa che si rivolge alla parola, in una sorta di fantasticato sdoppiamento tra le due: “sogno che la cosa esclami / nel buio della mente”. È una voce interiore, di fatto, voce meditativa e interrogativa. In questo agostiniano teatro interiore di voci, la cosa, – diciamo il visibile, l’accadimento, la materia del dire e del ricordare – chiede d’essere portata nel nome e con il nome in quella profondità (ancora la profunda profunditas di Agostino) che è pienezza di significazione, in quella vertigine di conoscenza che è soglia dove è possibile sfiorare, ritraendosene, l’ineffabile: non mimesi di quel sublime di cui tante volte la poesia si è solennemente ammantata, ma dantesca ascensione della parola che nel volo possa avere esperienza piena del vedere e del sentire. C’è qualcosa, in quel volo della parola, che ricorda il leopardiano “Forse s’avess’io l’ale /da volar su le nubi” del Canto notturno e il baudelairiano volo che in Élevation può ascoltare e comprendere “le langage des fleurs et des choses muettes”: anche se nel primo caso la pronuncia del desiderio, o del sogno, è un lampo presto spento nel cielo del tragico, e nel secondo caso lo sguardo dall’alto invoca un’alterità in grado di sottrarsi con la poesia alla prigionia del sempreguale, della superficie, dell’apparenza.
E certamente la poesia di Luzi è anch’essa lungo quella linea di una moderna reinterpretazione (e messa in questione) dell’antico sublime – nell’orizzonte del tragico – di cui Leopardi e Baudelaire sono passaggi rilevantissimi.
Echi di una nominazione creaturale – cioè di una condizione in cui la corrispondenza intima tra il nome e la cosa è sostanza della parola (su questo il saggio di Benjamin Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini ha passaggi essenziali) – trascorrono in questi versi di Luzi. Ma c’è anche un riflesso di quella ricerca che dai romantici giunge fino a Rilke, per la quale la parola può rivelare, accogliere e preservare nel nome la presenza della cosa, il suo essere, con la sua trasparenza e la sua anima.
Luzi mette, dunque, in scena un dialogo interiore, e quel che poteva essere un passaggio di poetica, di riflessione sul fare poetico, sul rapporto tra la parola e la cosa, diventa poesia: un movimento drammaturgico che è respiro consueto della scrittura poetica di Luzi.
Portare l’alta, sacra, metonimia di parola-vita-luce verso un’intima concordanza, verso un’unità, è andare oltre la metafora, oltre “il giogo della metafora” evocato nello stesso libro poche pagine prima (“Scioglile da quel giogo, /lasciale al loro nume / le cose che nomini”), è cercare nella parola l’intima presenza del sé. È fare della parola poetica, potremmo dire in una formula compendiosa, non una metafora ma una metanoia.
In questi versi il poeta nomina un cammino della parola verso un “celestiale appuntamento”, verso un approdo che è pienezza e profondità di significazione: “nel buio della mente” la cosa chiede che la parola non sia parola scorporata, sovrasensibile, astratta, ma preservi in sé il “caldo” della vita, o almeno il suo ricordo, e sia “luce, non disabitata trasparenza”. In questo auspicato cammino della parola, altro da quello della parola inerte, logora, consumata nella ripetizione e nell’insignificanza, c’è il cammino stesso del poeta. Un cammino che – da La barca, del 1935, a Primizie del deserto, del 1952, da Onore del vero, del 1957, a Su fondamenti invisibili, del 1971, da Per il battesimo dei nostri frammenti, del 1985, a Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, del 1994, per dire solo di alcune memorabili stazioni – ha fatto della parola poetica un’assidua e strenua meditazione sul tempo. Il tempo, il suo fluire e perdersi e ciclico ritornare, il suo lampeggiare risalendo da quel che è stato verso una nuova presenza, il suo consumarsi nell’attesa o raccogliersi nel ricordo, il suo mostrarsi e dissiparsi nella lontananza stellare, il suo rifrangersi nella speranza, il suo farsi storia e ferita nella storia, il tempo, insomma, in tutte le sue risonanze, è il respiro più proprio della poesia di Luzi. Una poesia che sta, agostinianamente, nell’immenso paese dove il tempo è corpo, memoria, attesa, caduta, addio, annuncio, transito. Pietre, acque, nuvole, vento, alberi sono, nella poesia di Luzi, tempo. Come lo è il fiume, presenza assidua e quasi emblema di una poetica.
La parola, dunque, che non può essere “disabitata trasparenza” è la parola che prende su di sé il tempo, il tempo del vivente.
L’ultimo verso, separato, è un margine alla scena allocutoria: “La cosa e la sua anima? O la mia e la sua sofferenza?”.
Un domandare che aggiunge una nuova figura, l’anima, e si fa cornice del dire poetico. Uno sdoppiamento tra la cosa e l’anima che è ombra di altro: la sofferenza del poeta, della sua anima. L’ultimo verso riporta nel cerchio doloroso del sentire quei segni del corpo individuo disseminati lungo la poesia: “da me”, “di me”, “il mio ricordo”, ovvero quell’insistenza tutta fisica su una presenza – corpo, sensi, desiderio – che la parola non deve abbandonare, mentre cerca luce e trasparenza. Ma la parola non disincarnata, la parola che attinge la luce senza perdere il sé, è parola della sofferenza, perché è vita.
La poesia che segue, nel libro Per il battesimo dei nostri frammenti, è parola che accoglie presenze, ricordo di presenze, mentre osserva il “vorticare /della vita dentro i suoi recinti”. E questo nella luce. Nella luce piena che apre la sezione Dal grande codice:
Genera azzurro l’azzurro,
si sfalda e si riforma
nelle sue terse rocce,
si erge in obelischi, scende
nelle sue colate e frane
di buio e trasparenza, migra
nell’azzurro fumigando, azzurro
in azzurro sempre –
Giuseppe Ungaretti. Mi tengo a quest’albero mutilato
Un verso
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
È il verso che apre la poesia I fiumi, di Ungaretti. Il titolo ha, come per gli altri testi poetici di Il porto sepolto, un sottotitolo relativo al luogo e alla data di composizione: in questo caso, Cotici il 16 agosto 1916. Un titolo, un luogo, una data: la poesia come parola che accoglie la situazione, ovvero la fisicità del tempo e la visibilità dello spazio, ed è a partire da questa presenza che prende movimento il sentire, oltre che la pronuncia del sé. Che può essere un sé tumultuante o quieto o indecifrato. Cotici è località prossima a San Michele del Carso, teatro di guerra, dunque di trincee, di notti insonni, di assalti nel fumo del fuoco nemico e amico, di caduti, di feriti. Questi e altri versi del Porto sepolto sono scritti, come racconterà il fante Ungaretti, su foglietti: “cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute”, ma anche, come dirà ancora, “pezzetti di carta strappati agli involucri delle pallottole”. Foglietti conservati via via nel tascapane, e consegnati un giorno al giovane tenente Ettore Serra (fu costui, in una licenza, a stampare quei versi, a Udine, sul finire del 1916, in un’edizione di 80 esemplari). Nella successiva guerra mondiale, nel corso della Resistenza, un altro poeta, René Char, nel maquis in Provenza, scriverà anch’egli i suoi versi su foglietti casuali: nascosti, prima della notturna partenza in volo per l’Algeria, negli anfratti di un muretto a secco, i versi saranno poi recuperati, e avranno il titolo di Feuillets d’Ypnos. Li tradurrà in italiano Vittorio Sereni.
Il primo verso di I fiumi, Mi tengo a quest’albero mutilato, apre la scena della desolazione, la scena del terreno di guerra, con il disegno di due figure congiunte, appoggiate l’una all’altra in un prima o in un dopo della furia bellica, in una sorta di momentanea sospensione del tempo tragico, che però manderà via via, lungo i versi, i suoi cupi bagliori. Due figure, dicevo: il mi che delinea la presenza di un corpo – il corpo che prende la parola – e l’albero che si mostra nella sua nudità offesa, nella sua mutilazione, corpo d’albero che in quanto anch’egli vivente è dalla guerra ferito, come altri corpi umani che sono fuori dalla scena. Un appoggio – tenersi a un albero – ma anche una solidarietà con un elemento della natura che qui, in questo suo mostrarsi ad apertura di scena, raccoglie come in un emblema il dolore della guerra, il dolore di tutti i corpi dilaniati o feriti nella guerra. Il mi e il questo di un primo verso endecasillabo rinviano a un altro primo verso del poeta più amato da Ungaretti, quel Leopardi che insieme a Mallarmé è stato all’origine della stessa vocazione alla poesia: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”. Sia il mi sia il questo, un riflessivo e un deittico, come è accaduto nell'Infinito leopardiano, si rifrangeranno come un’onda nel resto della poesia, a dire sia la presenza corporale da cui muove la parola poetica sia la presenza forte e la prossimità del visibile da cui muove il rapporto con l’oltre. In Leopardi questo oltre è l’odissea di una rappresentazione impossibile, e tuttavia tentata, dell’infinito nel pensiero; in Ungaretti questo oltre è l’altrove che nel vuoto del sentire spalancatosi col tragico prende la forma dell’appartenenza a quel che è lontano e che, inattingibile, è memoria e figura sensibile: i propri fiumi, ai quali è un fiume prossimo, il fiume della guerra, l’Isonzo, a rinviare.
Il suono del primo verso dà rilievo alla presenza dell’albero, posto al centro: l’accento sulla quinta (la a di albero), ritenuto perlomeno inconsueto dalla tradizione dell’endecasillabo, mostra subito che sulla misura metrica prevale il ritmo, e questo in relazione con un dire che dà alla parola la sua evidenza di segno: segno di un’interiorità immaginativa e riflessiva. Ma ecco la strofa cui appartiene il verso:
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna
L’amor che move il sole e l’altre stelle
L’ultimo verso del Paradiso di Dante, l’ultimo verso della Commedia. Certo, è un verso che viene dopo l’ultima terzina, conclusivo, ed è parte di una frase poetica, che è questa:
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle
sì come rota ch’igualmente è mossa
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
L’amore, quell’amore che è principio e anima dell’universo, quell’amore che muove il sole e le stelle, volgeva già il desiderio del poeta e il suo volere, lo volgeva, cioè accoglieva, nel suo ritmo, come ciascun punto di una ruota partecipa del movimento che ad essa è impresso. L’ultimo verso dice, dopo l’estrema visione, l’appartenenza dell’essere umano, di ogni essere, al ritmo dell’universo, all’unico movimento, un movimento che ha come sorgente e anima l’amore. Il libro della Commedia, il grande viaggio nei tre regni in cui vivono passioni e memorie e gesti e fremiti e sogni e fantasmi terrestri, ha al suo estremo la sconfinata apertura di una fisica cosmologica nella quale principio e respiro, energia e movimento sono compendiati nella parola amore. L’ultimo verso rinvia certo al movimento che apre la prima cantica, “La gloria di colui che tutto move”, ed ha la stessa apertura verso il cielo notturno e stellato, che è detta nella chiusa delle precedenti cantiche, dove sigillo ed emblema è ugualmente la parola stelle: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, ultimo verso dell’ Inferno, “Puro e disposto a salire alle stelle”, ultimo verso del Purgatorio. Ma qui sentiamo che la congiunzione di amore e stelle (“L’amor che move il sole e l’altre stelle”) è misura e respiro dell’universo e compendia tutta la tradizione che ha legato l’amore, la poesia d’amore, alla cosmologia, al cielo stellato, al desiderio d’infinito.
Dante dà fondamento anche con questo ultimo verso – “l’amor che move il sole e l’altre stelle” – alla poesia d’amore occidentale, la quale declinerà in mille varianti la relazione tra l’amore e l’orizzonte cosmologico e stellare. Ma quest’ultimo verso raccoglie anche, come in uno sconfinato abbraccio, tutto quel che il canto, il XXXIII del Paradiso, il canto dell’ultima visione, ha messo in scena. A partire dalla preghiera di san Bernardo alla Vergine, nel corso della quale il santo indica, come in una pala d’altare, il poeta, il penitente giunto al termine della sua peregrinatio nell’oltremondo. Il poeta è invitato da Bernardo, dopo la bellissima sua intercessione, a rivolgere lo sguardo verso l’alto. Dove si dischiude il trionfo della luce. La luce, qui, è pura luce, non affidata a raffigurazioni di colori e forme: non ci sono esseri di luce con il loro volto, le loro ali fiammeggianti, le loro vesti abbaglianti. La luce è tutta dispiegata nella sua astrazione, nella sua coincidenza con la verità, potremmo dire. Portare nella lingua il sentimento di questa visione di luce è impossibile, c’è solo il resto, il riflesso, la traccia, di questa visione: come il sentimento del sogno che persiste dopo che il sogno è svanito, lasciando una diffusa dolcezza, come la neve che al sole si scioglie, si dissigilla, come le foglie lievi su cui la Sibilla scriveva i responsi, foglie subito perse nel vento. Una dolcezza resiste dopo la visione. E il lettore può evocare la stessa dolcezza che appare nell’ultimo verso dell’Infinito leopardiano, “E il naufragar m’è dolce in questo mare”, anche quella dolcezza resto di un’estrema impossibile visione.
Ma lo sguardo di Dante tenta l’azzardo: “Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna”. Riesce a vedere “la forma universal di questo nodo”, il nodo che unisce sostanze e accidenti, il nodo che lega ogni cosa del mondo: respiro dell’universo, del suo ordine. Ma si può rendere visibile, dicibile la divinità? Dante ne dà solo una similitudine: tre cerchi “di tre colori e d’una contenenza”. Solo un’approssimazione, una terrestre raffigurazione. In quella “luce eterna” che è intendimento di se stessa, amore di se stessa, ordine impenetrabile, fondamento che sfugge allo sguardo, il poeta non può penetrare, e tuttavia gli sembra che in quella luce traspaia un colore, un’immagine: “mi parve pinta della nostra effigie”. È l’immagine della terrestrità, del vivente umano osservato nel cuore di uno splendore indecifrabile. E il poeta si ferma dinanzi a ogni altro azzardo della comprensione, e della visione, come il geometra dinanzi al problema della quadratura del cerchio, si attesta sulla soglia delle approssimazioni per immagini, della lingua come luogo delle parvenze, delle tracce, dei riflessi d’una verità sottratta da sempre alla comprensione. Un ultimo fulgore percuote la mente e porta il desiderio di conoscenza verso la sua meta, ma in quell’istante cessa ogni fantasia, deflagra ogni potenza fantastica. Il poeta è già nel cuore di quel movimento che ha l’amore come principio, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi
Un verso
Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono : frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Leopardi, A Silvia: il verbo da cui questo verso dipende, da cui pende come una collana, sta nel verso precedente: splendea. “Quando beltà splendea /negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi”. Ridenti e fuggitivi: due modi dell’apparire, contrastanti, accostati per la prima volta nella poesia italiana. Il riso degli occhi: nella galleria della figurazioni femminili, il lampeggiamento del riso negli occhi appartiene anzitutto alla Beatrice di Dante. Il "viso ridente", il "dolce riso" , gli "occhi rilucenti", "li occhi suoi ridenti". Un riflesso che unisce quella luce degli occhi ai cieli, il riso degli occhi al "riso dell'universo". Fisiologia dell'amore e teologia dell'amore si congiungono in questo mostrarsi della luce come sorriso. Ma questa radice teologica dell'amore è estranea al verso leopardiano.
Qui il riso degli occhi è circoscritto nel tempo fuggitivo dell'esistenza umana. Silvia ora è solo parvenza. Il riso degli occhi suoi lampeggia nel tempo di una mortalità crudele. È una luce che appare come già stata. Transitorietà della bellezza: John Keats questa bellezza che declina l’ha descritta anch’egli come tremito di luce negli occhi, e insieme nel paesaggio. Negli occhi della Silvia leopardiana il declino è detto dal contrasto tra lo sfolgorio del sorriso e il gelo della finitudine, tra l'onda di vita che c’è in quel sorriso e il corpo d'ombra degli ultimi versi:"... e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano". Un corpo luminoso e un corpo d'ombra. Un corpo d’ombra come l'Euridice di un bellissimo poemetto di Rilke, Orfeo, Euridice, Ermes. Negli occhi ridenti di Silvia c'è il riflesso del riso della natura, della primavera.
Questa corrispondenza tra il riso della natura e il riso degli occhi attraversa la poesia: ancora la Beatrice della Vita Nuova, Petrarca nel Canzoniere, il Tasso delle Rime, e Leopardi stesso nelle Ricordanze: "Nerina mia, per te non torna / primavera giammai, non torna amore". Ma la relazione – di velature e di contrasti – tra "ridenti" e "fuggitivi" sbalza il verso leopardiano sopra gli altri versi. È proprio questo reciproco illuminarsi e ombreggiarsi di "ridenti" e "fuggitivi" che dà al verso leopardiano il suo singolare, unico timbro. Certo, c’era già un petrarchesco "fugitivo raggio", ma si tratta di un annuncio molto parziale, perché privo di quella polisemia che sfavilla nell'aggettivo leopardiano. L’energia di quel "fuggitivi" è proprio nel legame con "ridenti". Legame assente negli esemplari di Dante, Petrarca, Tasso. Leopardi, componendo, ha variato più volte ridenti, ma non ha mai toccato fuggitivi.
Da "ridenti" a "fuggitivi" c'è uno slargarsi e, insieme, un incresparsi del senso: il mostrarsi luminoso dell'immagine è accompagnato, e sfumato, dal tremito di un'ombra, perché c’è nel fuggitivi il ritrarsi pudico degli occhi, c’è una verecondia che combatte con il desiderio, e c’è anche una malinconia dello sguardo, presagio del declino, della caducità. La luce degli occhi "ridenti e fuggitivi" si raccoglie tutta in un lampo. Sarà l’"éclair", il lampo, degli occhi della passante di Baudelaire, nel rumore di una strada parigina: in quel lampo degli occhi ci sarà l'esperienza di un amore non vissuto ma più forte di un amore vissuto.
Come non richiamare l'immagine di Silvia dinanzi al mostrarsi della passante come "fugitive beauté", come bellezza fuggitiva? La passante di Baudelaire apre la sequenza delle fuggitive: in Proust, nella poesia di Sbarbaro, di Campana, di Machado. Eppure, osservati da questi margini, gli occhi "ridenti e fuggitivi" di Silvia mostrano che è davvero irripetibile e inconfondibile il cerchio d'ombra che dà risalto al loro fulgore. Ma sia la luce sia l'ombra provengono da tutti gli altri versi del testo poetico. E dunque, a questo punto, un'altra lettura può avere inizio, seguendo ordinatamente il tempo, e il ritmo del testo poetico: "Silvia, rimembri ancora...".