Gli ultimi 12 mesi sono stati pieni di eventi difficili, in questo primo mese dell'anno presenteremo una carrellata di alcuni testimoni come fari di Speranza segnando nella loro straordinarietà l’ordinarietà possibile per tutti noi. I loro volti rappresentano tanti altri che nel silenzio ogni giorno nel loro cammino seminano luce con sacrificio, coraggio e gentilezza del cuore
Buon 2025 da scrivere. Ognuno di noi.
Mantenere la Speranza.. Sami Modiano
Luca Liverani
Quando sono stato deportato, avevo appena 13 anni e mezzo. I miei occhi hanno visto cose orrende …
D. – Voi siete arrivati a Birkenau nell’agosto 1944 e siete stati liberati il 27 gennaio 1945: solo pochi mesi, ma da 2.500 che eravate siete tornati in pochissimi …
R. – Eravamo 2.500 persone: lo sa quanti sono tornati indietro, dei 2.500, in quei pochi mesi? Sono tornati indietro soltanto 31 uomini e 120 donne. Presi a Rodi il 18 luglio 1944, arrivati nella rampa della morte il 16 agosto 1944: il viaggio è durato quasi un mese, in condizioni igieniche disumane che non si potrà mai e poi mai immaginare! Dunque, già il viaggio era stato una tortura enorme. Neanche un animale viaggia come abbiamo viaggiato noi. Se i russi avessero tardato di poco con la liberazione, di quei 2.500 non ne sarebbe rimasto più nessuno. Poi, arrivati alla rampa della morte c’è stata la selezione da parte di un ufficiale tedesco: ha selezionato chi sarebbe dovuto andare a morire e chi – provvisoriamente – sarebbe dovuto rimanere in vita.
D. – Lo ha fatto con un semplice sguardo, un gesto di un dito …
R. - … un semplice sguardo, un gesto di un dito: ignoravamo assolutamente che cosa significassero quei gesti, in quel momento! Seguivamo questi gesti senza capire …
D. – Immediatamente lei fu separato dalle donne, e quindi da sua sorella …
R. – Sì, da mia sorella Lucia. E grazie a Dio, sono stato insieme a mio papà, mio papà Giacobbe. In quei primi giorni, io ho avuto la fortuna di avere vicino papà. Per quanto riguarda mia sorella – anche lei era stata scelta tra coloro che avrebbero dovuto lavorare provvisoriamente nei lavori forzati.
D. – Sami Modiano, il suo destino sarebbe stato quello della morte nella camera a gas, ma intervenne suo padre …
R. – Sì, grazie ad una spinta di mio papà, inizialmente selezionato tra coloro che dovevano morire, passai dalla parte dei lavoratori. Io avevo cugini, parenti che avevano 15, 16 anni, erano più grandi di me, che sono andati a finire direttamente, il giorno stesso, alle camere a gas e ai forni crematori.
D. – Lei non ebbe più notizie di sua sorella …
R. – No. Ho avuto un contatto con lei per qualche giorno, a distanza, da lontano. Ci vedevamo a distanza dal lager A nel quale eravamo noi uomini al lager B, nel quale erano le donne. Ma a distanza, con gesti, ma questo ci confortava.
D. – Cioè, avevate la speranza che sarebbe finita, prima o poi?
R. – Avevamo la speranza… Poi, ad un certo momento, quando stai in quell’inferno, ti rendi conto che da Birkenau non c’era nessun’altra via di uscita che la morte. E di fatto, molti si rendevano conto di questo e decidevano di farla finita: si buttavano contro i fili spinati nei quali passava l’alta tensione, e morivano fulminati …
D. – Suo padre non resse alla notizia della morte di sua sorella …
R. - … no, non ha retto, poverino. Mia sorella Lucia era la cocca di papà …
D. – Era più grande di lei?
R. – Aveva tre anni più di me. Era una ragazza bellissima. Sai, io ho perso mamma quando avevo 11 anni e lei si era presa l’impegno di farmi da mamma e da sorella. Quando l’ho persa, ho perso la persona più cara che avessi al mondo, purtroppo. E subito dopo, mio papà, anche lui si è abbandonato a se stesso, non ha voluto continuare e ha deciso di farla finita. E l’ha fatto in un altro modo: quello di andare a presentarsi in ambulatorio, dicendo che si sentiva male. E purtroppo, noi sapevamo molto bene che quando uno si presentava all’ambulatorio decideva di consegnarsi alle camere a gas o ai forni crematori. Mio padre aveva scelto questa strada, nonostante avesse tentato di consolarmi dicendo: “Non mi uccideranno, vedrai: mi cureranno”. Ma non era vero, e lui lo sapeva: lo sapeva bene, lo sapeva bene!
D. – Incalzati dall’arrivo dei russi, i nazisti vi condussero nella “marcia della morte”, da Birkenau ad Auschwitz. Lei era allo stremo, condannato a finire i suoi giorni in quell’inferno. Ma avvenne l’inatteso, l’imprevisto …
R. – Non sarebbe dovuto rimanere in vita nessuno, nessuno a testimoniare ai russi di quello che avevamo visto e di quello che avevamo sopportato. Ma c’è stato il miracolo: mi accasciai a terra perché non ce la facevo più a tenermi in piedi – ero diventato uno scheletro, un morto vivente, ero più dall’altra parte che da questa, quando avvenne il miracolo. Io ce l’ho fatta. Non so spiegarmi come. Due persone, due prigionieri, hanno fatto una cosa che non ha una spiegazione: si sono inchinati. Io non mi aspettavo nessun aiuto – ma non per cattiveria e nemmeno per egoismo. In quei casi ognuno di noi, cercava di salvare la propria pelle; nessuno aveva la possibilità di aiutare il prossimo. Io non mi aspettavo nessun aiuto, eppure l’hanno fatto ugualmente. Mi hanno tirato su, mi hanno trascinato per quegli ultimi metri che mi mancavano per arrivare ad Auschwitz e poi si sono accorti che non avrebbero più potuto continuare a trascinarmi, e mi hanno abbandonato là, in un angolo, dove c’erano altri cadaveri. E là sono rimasto fino a quando sono entrati i russi. Non conoscevo quei due uomini, non li avevo mai visti. Non ho avuto neanche il tempo di ringraziarli, questi due prigionieri che io ho chiamato angeli custodi! I tedeschi credevano che io fossi un cadavere come tutti gli altri, là, per terra, perché avevo perso i sensi: hanno visto che nessuno si muoveva e hanno lasciato Birkenau proseguendo la “marcia della morte”.
D. – Lei, poi, si rifugiò in una casa dove trovò altri superstiti …
R. - … sì, mi sono rifugiato in uno dei fabbricati di Auschwitz per non rimanere tutta la notte, con una temperatura di 20-25 gradi sotto zero. Là sono stato preso in cura da una dottoressa russa.
D. – Quanto tempo – se il tempo può bastare – ci vuole per tornare ad essere un uomo?
R. – Io ho una piaga che non si chiuderà mai più. Ho i miei silenzi, i miei incubi, le mie depressioni. Continuo ancora a soffrire. Specialmente quando incontro i ragazzi e devo spiegare tutto questo: per me è un dolore enorme, ma lo faccio. Lo faccio perché ho capito che il Padre Eterno mi ha scelto per trasmettere a questi ragazzi, che fanno parte di questa nuova generazione la memoria di ciò che ho vissuto, perché non si ripeta. Perché ultimamente accadono cose che mi distruggono: esistono oggi persone che negano, e lei deve comprendere che questo per un sopravvissuto è un dolore enorme. Ma quello che mi fa rabbia è che se a negare sono persone “ignoranti”, passo oltre; ma quello che mi distrugge è quando a negare la storia sono persone di grandissima cultura: questo, veramente, mi porta indietro. Mi porta indietro … io avevo 14 anni quando sono uscito vivo da quell’inferno, ed avevo detto a me stesso, rimasto solo al mondo: “Spero di aver pagato abbastanza, affinché questo non succeda mia più!”. Mi sono sbagliato! Mi sono sbagliato, e questo mi rammarica. Vorrei chiedere a questi uomini il motivo per cui negano: io non capisco il motivo di questo negazionismo …
Diffondere la cultura della cura.. Liliana Segre
Daniela Padoani
Ciò che posso dire di Liliana Segre è la mia soggezione. Perché Liliana porta in sé Auschwitz, e la severità che questo comporta. Lei sa che Auschwitz è accaduto, che Auschwitz ha potuto accadere.
Era una bambina di tredici anni, orfana di madre fin dall’età di un anno, e tuttavia felice, amata, viziata da un padre che, pur continuando a lavorare alacremente, aveva riposto in lei ogni ragione di vita. Con loro, a Milano, in corso Magenta, vivevano anche i due nonni paterni. Conducevano una vita agiata, frequentavano l’Ippodromo di San Siro, la domenica pranzavano con gli amici al Savini in Galleria; Liliana era una Piccola italiana, come tutte le bambine cresciute sotto il fascismo. Poi, nel 1938, le leggi razziali: le progressive limitazioni nel lavoro, il repentino voltafaccia degli amici, la consapevolezza delle umiliazioni subite dai grandi e inutilmente nascoste ai bambini, l’incomprensibile espulsione dalla scuola. «Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile, che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”; perché altre colpe certo non ne avevo: ero una ragazzina come tutte le altre». Poi la guerra, i bombardamenti, la caccia all’ebreo. Un lungo periodo di vita nascosta, braccata tra la Brianza e la Valsassina, infine il tentativo di trovare la salvezza in Svizzera, e l’arresto al confine. «La storia di questa fuga grottesca la racconto sempre, quando vado a testimoniare nelle scuole, perché sulle prime mi sentivo un'eroina, sui valichi dietro Varese. Era inverno e attraversavamo i boschi, io e mio papà: passavamo il confine come clandestini, come animali sulle montagne. Eravamo liberi, pieni di speranza. Ma arrivati di là, un ufficiale svizzero tedesco ci trattò come degli imbroglioni, come delle cose orribili che capitavano proprio a lui, e ci respinse, ci consegnò agli italiani, condannandoci a morte». Fu un sollievo, paradossalmente, sentire che ciò che li attendeva non era più nelle loro mani: il senso che la continua, angosciosa responsabilità del futuro fosse finita. Ora spettava ad altri decidere della loro vita. Era l’8 dicembre 1943. Dal comando di Selvetta di Viggiù, Liliana e Alberto Segre vennero trasferiti nel carcere di Varese, poi in quello di Como e infine a San Vittore, a Milano, in quel Quinto raggio che il fascismo aveva destinato agli ebrei. Il 30 gennaio 1944, in una Milano indifferente, dove solo i carcerati si affacciarono alle finestre per un ultimo saluto commosso, i detenuti ebrei di San Vittore – più di seicento persone, tra cui quaranta bambini, inclusa Liliana – vennero caricati su una fila di camion coperti e condotti alla Stazione Centrale. «Il passaggio fu velocissimo: SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena un vagone era pieno, veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza. Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio, nel sotterraneo della stazione, illuminato da fari potenti, tra grida, latrati dei cani, fischi e violenze terrorizzanti. Nel vagone buio c’era solo un po’ di paglia per terra, e un secchio per i nostri bisogni» [1] .
Dopo una breve sosta nel campo di transito di Fossoli, il convoglio n. 6 – che viaggiava sotto la sigla RSHA del Reichssicherheitshauptamt, l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich – si mise in moto per destinazione ignota. Arrivò ad Auschwitz il 6 febbraio 1944. Dei 605 prigionieri ebrei, circa cinquecento vennero mandati al gas e bruciati dopo poche ore. Al momento della selezione sulla rampa, mentre gli uomini venivano rapidamente divisi dalle donne, Liliana avrebbe sentito la mano del padre sciogliersi dalla sua; lo avrebbe visto allontanarsi, senza sapere che sarebbe stata l’ultima immagine che avrebbe conservato di lui. Selezionata per il lavoro schiavo, tatuata con il numero di matricola 75190, cominciava – nella ferita di una separazione impossibile, impensabile – la sua vita di tredicenne in un mondo di fango, di sopraffazione e morte. L’apprendistato della sopravvivenza fu per Liliana soprattutto estraniazione: non vedere, seguire il cammino dei propri zoccoli tra le baracche, senza mai acquisire l’orientamento. Una strategia radicale la guidava: ignorare con tutte le proprie forze quel mondo inaudito; scegliere una stella in cielo da ritrovare la notte, per avere un appiglio e un luogo al di fuori del filo spinato; non affezionarsi a nessuno, perché qualsiasi altra perdita sarebbe stata insopportabile. Eppure tutto sarebbe stato registrato, nella sua mente di bambina, come dal più sensibile dei sismografi, per essere sottoposto a scomposizione e interrogazione morale per il resto della vita. Quando, negli anni della prima maturità, avrebbe cercato di far sì che la sua esistenza riprendesse il corso della normalità, ormai moglie e madre di tre figli, i momenti in cui aveva scelto la vita sarebbero tornati a visitarla come domande poste da un tribunale interiore: aveva provato sollievo durante la selezione, quando non era stata scelta per il gas, mentre Janine, sua compagna di lavoro nella fabbrica di munizioni, veniva chiamata fuori dalla fila. Non si era nemmeno voltata a salutarla, felice di essere viva. Quella semplice, primaria felicità si cristallizzerà come un verdetto di colpa col quale fare i conti per il resto della vita: il rovello che sopravvivere abbia significato una caduta, una mancanza; che il male l’abbia macchiata. Così l’universo della sopraffazione, il mondo dove l’uomo ha eretto il male a misura e legge, diventa per Liliana il luogo del giudizio: anche su se stessa. Non che non le sia evidente la colpa dei carnefici e l’innocenza delle vittime: questa chiarezza in lei è addirittura un urlo. Ma sa che è necessario giudicare a ogni passo, se stessi e gli altri, benché essere uomini sia un continuo cadere. Si è molto scritto della filosofia dopo Auschwitz, della necessità del pensiero di incontrare l’enormità di ciò che è stato: Liliana è ai miei occhi il luogo filosofico di quell’incontro, un magma incandescente di pensiero eternamente arroventato dalla consapevolezza che “questo è stato”.
Per questo – ancora più che per la sua instancabile e feconda opera di memoria – è pienamente una testimone: nel suo risentimento, nel suo risentire senza remissione l’offesa portata a se stessa, a quelli che chiama “i miei santi martiri” e a tutte le vittime della Shoah, ha fatto di sé un luogo memoriale. Ed è pienamente una sopravvissuta, una figura segnata dal portare in sé il senso della sopravvivenza: vivere comunque, senza fare del male a nessuno, ma non lasciarsi uccidere. Vivere nonostante il dolore, l’incomprensione, e l’immenso, insanabile stupore. Vivere come scelta etica, come sopravvivenza dell’umano. Accogliendo giorno dopo giorno la necessità di addomesticare il ricordo e i suoi soprassalti, senza poter mai davvero trovar requie dall’enormità dell’esperienza; senza riparo dalla sofferenza che questa colpa, come scriveva Levi, sia stata irrevocabilmente introdotta nell’universo degli uomini.
Capace di improvvise risate, di fulminanti battute di spirito, di giudizi taglienti, di un’attenzione pronta a percepire ogni cambio di registro comunicativo, Liliana è un sismografo del presente, eppure i suoi occhi sembrano contenere il buio, la notte. «Per capire Auschwitz ci vorrebbero molte vite» dice spesso, ma a guardare i suoi occhi fondi è come se le avesse percorse tutte: ha dovuto abbracciare e consolare la bambina che era e, una volta diventata madre e nonna – sconfiggendo orgogliosamente la perversa ideologia che avrebbe voluto cancellare dal mondo lei e la sua discendenza – accogliere in sé dapprima la figura del padre e poi quella dei nonni, in una progressiva maternità che cancella la distanza tra le generazioni. Come una necessità di farsi rifugio e difesa per tutte quelle figure della memoria, man mano che la rivisitazione dei ricordi prende altre stratificazioni di significati: lo scoramento del padre per non averla potuta proteggere diventa – ora che sa cosa significhi voler proteggere i propri figli – il suo stesso scoramento per non aver potuto salvare quella figura amata, morta a quarantaquattro anni, la stessa età del suo secondogenito; la fatica dei nonni nel salire il predellino del vagone bestiame – spinti e picchiati – risentita quasi nelle ossa man mano che le sue stesse movenze si fanno più caute; la solitudine di Janine, diventata nel tempo sorella e poi figlia, da riaccogliere e confortare ogni giorno in un abbraccio materno.
Ogni volta che racconta, Liliana deve scegliere parole che rendano per quanto possibile comunicabili le immagini di alcune tra le innumerevoli vittime alla cui sopraffazione ha dovuto assistere. Alcuni giorni prima che l’esercito sovietico entrasse ad Auschwitz, il 27 gennaio 1945, fu costretta dai soldati nazisti – insieme agli ottantamila internati ancora capaci di reggersi in piedi – a incamminarsi verso la Germania, in una marcia forzata che divenne nota come Marcia della morte, perché le strade innevate della Polonia erano disseminate dei cadaveri dei prigionieri che non avevano retto alla fame e al gelo, o che erano stati finiti dalle SS con un colpo di pistola. Venne liberata a Malchow, un sottocampo di Ravensbrück, il 30 aprile 1945. Quando tornò a Milano, della sua famiglia si erano salvati solo i nonni materni e uno zio. Delle 605 persone del suo trasporto, solo venti fecero ritorno [2]. Questa moltitudine di vittime cancellate dal mondo abita Liliana e costituisce la sua sola etica e religione. Non ha necessità di una fede, di catechismi, di edificazioni morali: tutto ciò che rassicura i nostri passi nel mondo – i concetti di umanità, diritto, cultura, cullati nei secoli – si è dissolto davanti ai suoi occhi, eppure deve continuare a credere che essere uomini abbia un senso.
Per questo Liliana è inamovibile dal mare di buio che ha negli occhi. Lì è la sua misura, ed è una misura che porta ovunque, presentandosi come un convitato di pietra, difficile da eludere, perché Auschwitz non è un passato, un capitolo dei libri di storia: è il numero tatuato sul suo avambraccio, orgogliosamente mostrato come una cifra identitaria, divenuta scelta e destino. «Noi sopravvissuti siamo soprattutto il nostro numero. Prima del mio nome viene il mio numero: 75190. Perché non è tatuato sulla pelle, è impresso dentro di noi, vergogna per chi lo ha fatto, onore per chi lo porta non avendo mai fatto niente per prevaricare; essendo vivo per caso, come lo sono io» [3].
Liliana sa che l’uomo è una costruzione fragile che va protetta e alimentata, e per questo affronta il dolore, la fatica della testimonianza, anno dopo anno, anche di fronte al sospetto della sua inutilità. Il suo narrare è diventato una fucina di metafore e di immagini. Ha continuato a esaminare, a scandagliare i concetti che esprime, a verificarne la solidità e l’efficacia, a mettere alla prova i ricordi anche nei più minuti dettagli, confrontandosi con quella che è diventata un’amica insostituibile, Goti Bauer, anch’essa deportata ad Auschwitz-Birkenau nel 1944, che la convinse a testimoniare e la sostenne nei suoi primi racconti in pubblico. Da allora, Liliana Segre è diventata una testimone importantissima, amata, richiesta in tutte le scuole. L’autorevolezza della sua figura pubblica è stata riconosciuta dall’attribuzione di molte e prestigiose onorificenze, lauree e medaglie, che tuttavia su di lei fanno un effetto incongruo: come incoronare un’aquila, o un ermellino bianco, per usare l’immagine con cui una volta descrisse se stessa, ragazza, al ritorno da Auschwitz: grassa, gonfia (pesata dai soldati inglesi era poco più di trenta chili; dopo quattro mesi in un campo profughi americano era aumentata di quaranta chili per un violento scompenso ormonale), incapace di dormire su un letto, abituata al gergo dei soldati, accettata a stento dai pochi parenti rimasti perché “sconveniente”, non più ragazza di buona famiglia ma figura anarchica, ingestibile, imbarazzante: un ermellino uscito dalle macerie dell’umano. Ed è proprio in questo sapere che il cielo è cenere, e nel suo continuare a portare in sé l’umano, nel suo farsene pienamente carico, che si dà il miracolo che l’esistenza di Liliana ci consegna.
Onorificenze e riconoscimenti
27 novembre 2008, laurea honoris causa in Giurisprudenza presso l’Università di Trieste
15 dicembre 2010, laurea honoris causa in Scienze pedagogiche presso l’Università di Verona
7 dicembre 2010, Ambrogino d’Oro della Città di Milano
Nel gennaio del 2018 è stata nominata Senatrice a vita
NOTE
1. Milano Centrale, binario 21. Destinazione Auschwitz, a cura di Andrea Jarach, Proedi Editore, Milano 2004. Proprio al Binario 21, il 26 gennaio 2010, per il Giorno della memoria, è stata posata la prima pietra di quello che sarà il Memoriale della Shoah di Milano.
2. Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria, Mursia 2002.
3. Testimonianza di Liliana Segre, Conservatorio G. Verdi di Milano, Giorno della memoria 2010.
La pace possibile..Susan Abulhawa
È un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte ti rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. È un amore che si tuffa nudo verso l'infinito. Verso il luogo dove vive Dio.
(Tratto dal libro Ogni mattina a Jenin)
Susan Abulhawa è nata da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerra dei Sei giorni e ha vissuto i suoi primi anni in un orfanotrofio di Gerusalemme. Adolescente, si è trasferita negli Stati Uniti, dove si è laureata in Scienze biomediche e ha avuto una brillante carriera nell’ambito della medicina. Autrice di numerosi saggi sulla Palestina, per cui è stata insignita nel 2003 del premio Edna Andrade, ha fondato l’associazione Playgrounds for Palestine, che si occupa dei bambini dei Territori occupati. I suoi articoli sono apparsi su numerose testate, tra le quali “The Huffington Post”, il “Chicago Tribune” e “The Christian Science Monitor”. Feltrinelli ha pubblicato Ogni mattina a Jenin (2011), il suo primo romanzo, Nel blu tra il cielo e il mare (2015) e Contro un mondo senza amore (2020).
Giovanni Allevi nella sua battaglia, la battaglia di molti
“Io sono piccolo, fragile, indifeso. Posso sbagliare, commettere errori, anche per ingenuità, leggerezza. Allora, prendo tutto me stesso e mi abbandono all'universale fluire delle cose, perché in fondo sono solo un minuscolo granello dell'universo. Affido a Dio queste mie paure. E se davanti alla sua onnipotenza, riesco a riconoscere la mia infinita piccolezza, cosa mai può essere la mia ansia, o la mia paura del futuro, cosa potrà mai farmi la sofferenza?”
Giovanni Allevi
Nel 2022 Allevi aveva rivelato di essere affetto da un mieloma, malattia che ha segnato profondamente la sua vita e la sua carriera. In questi anni, Giovanni Allevi ha condiviso con i suoi fan non solo il dolore della malattia, ma anche la forza ritrovata attraverso la musica, la meditazione e l’amore per la vita: aveva affermato di essere riuscito a "trasformare il mieloma in una melodia".
Nel suo racconto, il compositore non ha mai nascosto la sofferenza che gli stava procurando la malattia: sui social ha parlato di "dolore fisico a tratti insostenibile". Giovanni Allevi prosegue la sua battaglia e rivolge un messaggio di grande coraggio a tutti noi: "Ho passato anni durissimi, ma voglio continuare a gioire con voi della vita"
Roberto Bagnato "l'angelo silenzioso"
Lo chiamavano l’angelo di Milano. Io lo ammiravo con tutto il cuore, come ammiro tante persone che conosco, nate con una naturale bontà d’animo, che sanno inventarsi iniziative serie con una facilità estrema e senza lasciare tracce, che sanno perdonarsi facendo del bene, anziché annichilire in se stesse ogni volta che guardano in faccia il proprio male, anche quello minimo.
La storia del signor Bagnato, ex dirigente di banca, classe 1958, benestante ma non ricco, la trovate qui. Ha aiutato tanti: senzatetto, poveri, ammalati, sfrattati. Ieri, alle 10.31 ha scritto a Massimo Gramellini poco prima di morire. «Ai poveri non regalava solo i suoi soldi, ma il suo tempo. Era capace di trovare casa a una coppia di sfrattati e poi di presentarsi al volante di un furgoncino, fingendosi un manovale, per aiutarli nel trasloco. Diceva che la beneficenza si fa col passamontagna, come le rapine, e che i poveri più bisognosi di cure sono quelli che si vergognano della loro condizione».
Come molti santi, Roberto era un incazzoso. Già, quando ti prende, da bambino, il demone della giustizia e della verità, non sei più padrone di te stesso. Si continua a fare una marea di fesserie, di errori, anche gravi, ma poi quel demone si impossessa e parla e questi ammirevoli soggetti brillano al di là delle loro opere, del loro sudore, del loro temperamento. Ne conosco un altro di milanese un po’ così, si chiama Giorgio Vittadini; quando lo vedo, mi commuovo. Un giorno l’ho incontrato a stazione Termini con tutta la sua innocenza corazzata, sembrava un giglio tra i cardi (io sono di quelli spinosissimi). Il suo migliore amico è un pregiudicato. Una sua cara amica è una signora che ha tolto decine e decine di donne dall’abisso della prostituzione.
Bagnato era una di quelle splendide persone che amava per il gusto di farlo. Mi ha ricordato questo passo, che ancora non sono riuscito a commentare a lezione, di una lettera di Tatiana Schucht a Gramsci: «Intanto ti assicuro che visto che sei nel numero di quelli che hanno proprio bisogno di amore, non potrei fartelo mancare, proprio perché sento sempre la necessità, il bisogno, di dare ciò di cui si ha bisogno».
Qui siamo all’inverso di quel terribile verso di Dante (amor c’a nullo amato amar perdona) che condanna chi è amato a ricambiare lo stesso sentimento. Falso e pericoloso. Siamo anche lontanissimi dall’altrettanto indegno si vis amari ama, che invita ad amare con la partita doppia del bilancio di ciò che si dà e di ciò che si riceve (come si può amare veramente attendendosi di esserlo a nostra volta? Il nostro amore sarebbe dunque un calcolo?). Qui siamo, invece, dinanzi a quegli spiriti nobili che amano perché amare li realizza, perché è la loro natura. Siamo di fronte a un abisso di luce.
Don Coluccia fa rumore sulla piaga della droga. Quando ci svegliamo?
Don Maurizio Patriciello
Ben vengano la solidarietà, le strette di mano, le polemiche e le prese di posizioni politiche. Ben vengano i consigli dei superiori preoccupati per l’incolumità di questo prete affidato alle loro paterne cure. A don Antonio Coluccia, però, non interessa tanto la propria sicurezza – anche quella, ci mancherebbe – ma portare a galla un fenomeno malavitoso talmente incancrenito da essere diventato “normale”. Il dramma è questo, al Quarticciolo come a Caivano, a Tor Bella Monaca come a Scampia e in tante altre periferie. Don Antonio sa bene che non sarà una passeggiata della legalità a risolvere il problema, eppure insiste. E i fatti gli danno ragione se un semplice corteo riesce a far saltare i nervi ai malavitosi. Non è tanto il mancato introito di una sera, proveniente dalla droga, a preoccuparli, ma il fatto che una persona – un prete, addirittura - si sia permesso di accendere i riflettori su un mondo che – pur stando sotto gli occhi di tutti – avrebbe dovuto godere, secondo loro, di uno “statuto speciale”. Legge non scritta ma attuata.
«Qui comandiamo noi. Lasciateci in pace. Dobbiamo mangiare tutti. A ognuno il suo. Badate ai veri problemi del Paese…». Tutti sanno. E quando dico “tutti” intendo la Roma dei professionisti, degli imprenditori, degli industriali, delle forze dell’ordine, della gente comune, dei preti, ma, soprattutto, della politica. È a questo punto che l’operato di don Antonio diventa insopportabile. Con la sua impeccabile talare nera dalla quale non si separa mai – ammettiamolo, tanti lo avrebbero preferito in jeans e maglietta malandata, un cosiddetto “prete antimafia” - don Antonio ci richiama alle nostre responsabilità. Qual è, dunque, la vera intenzione di questo giovane religioso salentino? Attirare l’attenzione su di sé? Certo non manca chi ha la faccia tosta di affermarlo. La solita tiritera: vuole apparire, vuole andare in televisione, ama la ribalta, non sono fatti suoi, chi crede di essere, e scemenze del genere. In genere chi le inventa ha tutto l’interesse a farlo. La prima arma di difesa di chi naviga nel fango è il fango stesso. Messo in un’apposita macchina, serve a occultare, a sporcare, a insozzare, a fare perdere credibilità. Molto più dei colpi di pistola valgono le calunnie. Generano dubbi, acquietano le coscienze intorpidite, dividono, devastano.
A don Antonio, la capitale d’Italia deve molto. Credo che abbia tanto da insegnare a tutti, a cominciare da noi preti, continuamente invitati e trascinati, da papa Francesco a uscire dalle sacrestie, a sporcarci le mani, a sentire gli odori delle pecore e il puzzo di coloro che ne farebbero un boccone. I lupi non dormono, sempre alla ricerca dell’agnellino da sgozzare. I lupi sono scaltri, occorre – parola di Gesù – essere scaltri almeno al pari di essi. Scaltrezza come metodo, il fine è il bene comune. Un bene, cioè, che appartiene a tutti ma che alcuni vogliono accaparrarsi. Se c’è una cosa che preoccupa don Coluccia non è tanto la propria incolumità. Lui ha già messo in conto tutto. Quando mise mano all’aratro sapeva bene il rischio che correva. No, non è questo a rendere insonni le sue notti, a mettergli le ali ai piedi, a distrarlo durante la Messa. A turbarlo sono gli uomini della sua scorta, per i quali sente una grande responsabilità. Tra loro è nata un’amicizia bella. Si sorvegliano a vicenda. Ognuno teme e trema per la vita dell’altro.
Don Antonio non è un ingenuo ma un prete a tutto tondo. Non sta esagerando. Sta solo – come gli ha raccomandato il Papa – facendo rumore. Tant’ è che i nomi di questi quartieri della periferia romana, fino a ieri sconosciuti alla maggior parte degli italiani, oggi non lo sono più. Don Antonio ci sta tirando giù dal letto dove pigramente avremmo continuato a dormicchiare facendo finta che, in fondo, il problema non esiste. Non sto dicendo che eravamo all’anno zero, tutt’altro, voglio affermare, ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che questa guerra alla criminalità la vinceremo solo stando insieme. Un esercito preparato dove anche l’ultimo dei soldati e dei volontari è necessario per conquistare la vittoria. Un giovane professionista, una volta, ebbe a criticare una mia affermazione. Avevo detto che, a ben guardare, il problema della droga sono anche gli stessi drogati. Non ne era convinto. Per questo lo ripeto qui. Se non ci fosse la domanda la risposta cadrebbe da sola. Occorre chiarire una volta per tutte che i consumatori di droghe – persone oneste, giovani, padri di famiglia – oltre a rovinare se stessi alimentano la stessa malavita che li angaria. Scendiamo in campo, tutti insieme.
A don Coluccia il nostro ringraziamento e le nostre raccomandazioni. Sii prudente, caro confratello. Di eroi morti ne abbiamo già troppi. Sono un vero pugno nell’occhio. Falcone e Borsellino, don Diana e don Puglisi, insieme alla numerosa schiera di martiri che li accompagnano, ci fanno male. Stanno a dirci che hanno dovuto rinunciare alla loro vita anche perché non sempre gli altri hanno fatto il proprio dovere. Ci rimproverano per la nostra negligenza, la nostra pigrizia, la nostra ottusità. Don Antonio, continua – come già in modo mirabile stai facendo – a darci calci negli stinchi. Da vivo, però. Con perseveranza, forza, prudenza e quella virtù desueta che tanto piace al nostro Dio, l’umiltà. E tutti noi, che leggiamo le gesta di questo povero prete, cerchiamo di apprenderne la lezione. Non lo lasciamo solo. Soli si muore. Lo ripeto per i duri di orecchi: soli si muore. Scendiamo in campo, facciamogli scudo, moltiplichiamo a dismisura non solo le passeggiate della legalità, ma tutto ciò che serve a riportare lo Stato nelle nostre periferie.
Poeta della canzone italiana
"E’ solo un sogno" canzone di Paolo Benvegnù cantante scomparso prematuramente il 31 dicembre 2024.
Vincitore della Targa “Tenco 2024” con “È inutile parlare d'amore” come “migliore album” in assoluto, aveva appena pubblicato “Piccoli fragilissimi film - Reloaded”, una nuova versione del disco che aveva segnato il suo esordio da solista nel 2004 e che quest'anno aveva compiuto 20 anni.
"Vogliamo ricordarlo con le sue parole e la sua voce", dice la famiglia. "Era un uomo capace di infondere bellezza e poesia in qualunque cosa facesse, come dimostra la sua lunga carriera e i brani che ha pubblicato in questi anni".
Gino Cecchettin, Bruno Verzeni, padri che non cedono all'odio
Riccardo Maccioni
Di primo acchito ti viene da pensare che non siano persone normali, fatte di lacrime e sangue come tutti noi. Devono avere qualcosa dentro, magari un chip guidato da fuori che li rende diversi dagli altri. Perché non odiare, addirittura perdonare chi ti uccide l’amore va oltre le capacità umane. E per un padre, una madre non esiste amore più grande di un figlio, la sola idea di non vederlo più e non sentirne la voce, toglie il fiato, spegne la mente, fa impazzire. Però esiste anche un rovescio della medaglia, c’è chi proprio in virtù di quell’amore assassinato, per non smarrirne l’eredità, impara ad andare avanti, prova a trasfigurare la sofferenza, riesce a non cercare e chiedere vendetta.
È la storia che in questi giorni stanno scrivendo Gino Cecchettin e Bruno Verzeni. Gino è il padre di Giulia, la studentessa di 22 anni uccisa l’11 novembre scorso da Filippo Turetta l’ex fidanzato che non si rassegnava a perderla. Di fronte alle frasi, intercettate in carcere, del padre dell’omicida che cercava di consolare il figlio, nessun commento rabbioso, una semplice, ma chissà quanto difficile, sospensione di giudizio: inutile pubblicare quei dialoghi (come tra l’altro avevamo scritto anche noi su Avvenire). E poi, «non sta a me giudicare l’operato di un altro papà, quindi non lo giudicherò». Nessuno sguardo indietro, anche se la tentazione è forte, ma la volontà di guardare oltre, di diffondere il sorriso della figlia e così mantenerla presente, almeno nel cuore di chi l’ha conosciuta. «Ho deciso di donare un po’ Giulia» spiega Gino Cecchettin, intendendo il libro da mesi in classifica e l’avvio di un progetto per aiutare le donne vittime di violenza.
Il segreto dunque sta proprio lì, nel tentare di non ridurre l’amore a ricordo ma consentirgli di respirare, forse di crescere. Perché l’amore dona vita, non la toglie, e chi dice il contrario o è bugiardo sapendo di esserlo, oppure troppo fragile per poter sopportare un dolore più grande di lui.
Non è il caso di Bruno Verzeni, il padre di Sharon, la 33enne uccisa nella notte tra il 29 e 30 luglio a Terno d’Isola, nella Bergamasca. «Non provo nessun sentimento di rancore, odio o vendetta – ha spiegato – anche se dovrei essere il papà più arrabbiato del mondo». E poi: a me e alla mia famiglia «la forza per andare avanti arriva dalla nostra fede e dalla nostra Sharon». Eccolo, dunque, il chip che cambia, che trasforma se non la realtà almeno il modo di guardarla. Non una guida eterodiretta ma un filo spirituale, uno scandaglio che spinge in fondo dentro sé stessi fino ai recessi più nascosti del cuore, dove si decide chi sei e a chi donare la tua libertà. La scelta è tra il buio e la luce, anche se per ogni decisione esiste un’infinità di chiaroscuri e a volte la notte è in realtà solo un velo sottile che copre i primi raggi di sole. La fede aiuta a togliere quella copertina, ti fa immaginare la fine del tunnel quando sembra senza via di uscita, è un sussurro di pace capace di coprire il fragore inquietante della guerra. Non è magia, non cancella la sofferenza ma se ne percorri le strade, se frequenti la forza umile della preghiera, impari a ragionare come Dio, apri le porte alla sua volontà, che poi è la vocazione alla felicità cui sono chiamati tutti gli uomini. Il Signore, infatti, non promette al profeta di liberarlo dai suoi fastidi o di risolvere ogni problema ma solo di esserci: io sarò con te sempre. Una garanzia che vale più di ogni assicurazione umana, perché significa essere circondati dall’amore, che non chiama all’odio, alla rappresaglia, alla violenza ma alla vita. E che, come sinonimo, ha misericordia, cioè, per dirla con Giovanni Paolo II, amore che va incontro all’uomo sofferente, amore che sostiene, rialza, invita alla fiducia. E che per Gino ha il volto di Giulia, per Bruno quello di Sharon. La cui eredità di figlie è vita da far germogliare e crescere, non da soffocare sotto il peso dell’odio e della vendetta, per quanto comprensibili possano essere. In risposta ai confini scivolosi e impauriti della vendetta i due genitori hanno scelto un respiro di eternità, purificato dalla sofferenza. La più terribile e umana che ci possa essere. E per questo particolarmente cara al cuore di Dio.
Prendersi a cuore la fragilità: la lezione di Sammy Basso
Avrebbe avuto tutte le ragioni per avercela con il destino e per seppellirsi nella rabbia e nella recriminazione. Invece Sammy Basso amava la vita: la progerie, che l’aveva condannato in un corpo da alieno e l’ha portato alla morte a 29 anni, lo scorso 5 ottobre, non gli impediva di reclamare e di gridare al mondo che si può essere felici, si può godere dell’affetto della famiglia e di una miriade di amici, si può studiare e impegnarsi per gli altri malati, perché siano meno soli. La lezione di Sammy è che l’amore è la cura. Prendersi a cuore la fragilità, farne una risorsa e non un limite, una leva e non un peso, condividere percorsi di vita, costruire relazioni in un mondo a misura di tutti.
Narges Mohammadi: resistere per la dignità di ognuno
"Sono una donna mediorientale e vengo da una regione che, nonostante la sua ricca civiltà, è ora intrappolata tra la guerra, il fuoco del terrorismo e l'estremismo”. "L'hijab obbligatorio imposto dal governo non è né un obbligo religioso né una tradizione culturale, ma piuttosto un mezzo per mantenere l'autorità e la sottomissione in tutta la società" da parte di un regime “religioso tirannico e misogino”, hanno scandito, compunti ed emozionati, Kiana e Ali. Il messaggio consegnato dall’attivista non ha concesso spazio alla violenza, indicando nella “resistenza continua e nella non violenza le migliori strategie per realizzare il cambiamento”. "La realtà – sono ancora parole di Narges Mohammadi - è che il regime della Repubblica Islamica è al livello più basso di legittimità e di sostegno sociale popolare. Ora è il momento che la società civile internazionale sostenga il popolo iraniano e farò tutto il possibile in questo senso".
Narges Mohammadi è la diciannovesima donna a vincere il Premio Nobel per la Pace e la seconda donna iraniana dopo l'attivista per i diritti umani Shirin Ebadi a cui fu assegnato nel 2003. È la quinta volta in 122 anni di storia del premio che il premio per la pace viene assegnato a qualcuno che si trova in prigione o agli arresti domiciliari. Ma la “guerra ai premi” di Teheran non si ferma qui. I genitori e il fratello di Mahsa Amini, la ragazza di 22 anni morta mentre era in custodia presso la polizia morale iraniana perché “mal vestita”, la cui tragica fine ha “acceso” la rivolta in Iran del 2022 non potranno essere mercoledì a Strasburgo per la consegna del Premio Sakharov, la massima onorificenza in materia di diritti umani del Parlamento Europeo. «Ai familiari di Mahsa è stato vietato di salire sul volo che li avrebbe portati in Francia nonostante avessero il visto», ha fatto sapere sabato scorso l’avvocato Chirinne Ardakani. «I loro passaporti sono stati confiscati», ha aggiunto.
“Forse rivedrò mia madre tra 30 o 40 anni, ma penso che non la rivedrò più . Non importa, perché mia madre vivrà sempre nel mio cuore, così come vivranno i valori per i quali vale la pena lottare”, ha detto Kiana. Parole oltre le sbarre.
Gisèle, icona del coraggio delle donne
Nel cuore della Provenza si è consumata una delle vicende più sconvolgenti degli ultimi anni, la sottomissione chimica e lo stupro di una donna già matura a opera del marito e di decine di “invitati”. Il 19 dicembre, 51 uomini sono stati condannati dal Tribunale di Avignone. La vittima, Gisèle Pelicot, ha voluto che il processo si celebrasse a porte aperte ed è diventata un’icona globale. Di coraggio: perché ha reso chiaro a tutti che non è mai la vittima di violenze a doversi vergognare del male subìto, ma chi quel male lo commette. Icona della necessità di denunciare, parlare, chiedere giustizia, anche se costa moltissimo sul piano personale. E poi un’icona di resilienza, perché ha resistito a ogni genere di oltraggio dei suoi carnefici, prima e durante il processo. Grazie, Gisèle.
Balbir Singh, un uomo in rivolta
Quando ha ascoltato la sentenza del giudice, Balbir Singh è scoppiato a piangere: dopo sette anni il bracciante indiano sikh ha avuto giustizia. Il Tribunale di Latina lo scorso febbraio ha condannato il suo “padrone” a cinque anni di reclusione per sfruttamento. A soli ottanta chilometri da Roma, nell’Agro Pontino, Balbir Singh lavorava sedici ore al giorno, sette giorni alla settimana per una retribuzione che variava tra i 50 e 150 euro al mese. Per mangiare, rubava il cibo che il padrone italiano gettava alle galline e ai maiali. Condizioni di schiavitù in un Paese democratico che afferma di essere fondato sul lavoro. Balbir Singh, “un uomo in rivolta” come direbbe Camus, ha però deciso di non rassegnarsi e di ribellarsi, di combattere per la sua e la nostra libertà e dignità.